Emiliano Laurenzi

Negli anni ‘60 del XX secolo, McLuhan misurò sperimentalmente la relazione fra esposizione alla televisione e reazione fisiologica del corpo. Ragionò quindi sulla sfasatura fra risposta fisiologica – battito cardiaco, dilatazione delle pupille, frequenza respiratoria, movimento oculare, contrazioni muscolari, ecc. – e sistemazione concettuale di ciò che si sta vedendo ed ascoltando. La percezione fisica precede infatti la rielaborazione “razionale” di ciò che viene percepito.

Oggi il nostro apparato percettivo è in una situazione semi-immersiva nell’ambiente mediale: gli effetti di questa sfasatura fra risposta fisiologica e sistemazione concettuale riconfigurano la nostra stessa percezione del mondo, così come la rappresentazione di fenomeni, processi, fatti, attraverso particolari interazioni uomo-macchina e macchina-macchina, e come precisa volontà di chi detiene la possibilità di articolare narrazioni mediali, soprattutto nel Main Stream Media (MSM).

Come smuovere le emozioni

Se il regime della comunicazione ha abituato a correlare fisicità ed elaborazione concettuale (il mcluhaniano “the message is the massage”, impropriamente tradotto con “il medium è il messaggio”), il regime informazionale martella proprio in quell’area non più esclusivamente fisica, ma non ancora “razionale”, riconducibile al sistema limbico, cioè a quelle parti e funzioni cerebrali che regolano le emozioni, la memoria a breve termine, l’umore. Paura, tenerezza, eccitazione, sconcerto, angoscia, odio, passione: tutto l’universo che mette in crisi l’elaborazione linguistica e concettuale è costantemente evocato, sollecitato, stimolato. In sostanza emotività a vagonate.

L’universo mediale contemporaneo è un ambiente sfaccettato, multiforme e in cui intervengono differenti registri tecnologici. Questa multidimensionalità altera e distorce la dimensione temporale e spaziale, diluendone la concatenazione che permette il ragionamento causale.

I giganti del MSM, le professioni che vi operano e l’élite di oligarchi dei media, sono perfettamente consapevoli del fatto che la percezione avviene in questo modo. Studi e ricerche di istituti e fondazioni privati e militari su questo campo, così come in relazione alla predicibilità ed in un certo modo alla plasmabilità del nostro comportamento in rete, sono ampiamente finanziati.

Il mondo economico-finanziario e il complesso militare-industriale hanno competenze e capacità di gestione di questo settore molto sviluppate. Lavorano all’affinamento di un vero e proprio arsenale, di tattiche e strategie in tutto e per tutto assimilabili alle necessità ed ai fini della guerra. Nel caso dei Taleban, la gestione delle loro rappresentazioni mediatiche e le narrazioni simboliche che le accompagnano, non sono mai state casuali o libere, né tanto meno lasciate ad una lettura razionale, storica e culturale.

La rappresentazione “mediale”

Queste le premesse per iniziare a riflettere, nelle forme del politico come si squaderna oggigiorno, su cosa vuol dire “rappresentazione mediale”.

I Taleban, fin dalla loro irruzione nell’informazione mainstream, sono stati un complesso esercizio di narrazione e messa in scena. Narrazioni e messe in scena mediali del nemico, però, non possono darsi senza attingere a simboli, archetipi e schemi culturali – una sorta di archivio sclerotizzato delle modalità conoscitive ed emotive del soggetto globalizzato – che però possono essere veicolati solo se disseccati di qualsiasi dubbio, ambiguità, contraddizione. Il permanere di questa linfa vitale in qualsiasi soggetto storico e processo sociale è radicalmente incompatibile col regime informazionale.

Imputare dunque alla rappresentazione dei Taleban fatta dai media scarsa coerenza e banalizzazione è del tutto fuori fuoco, perché presuppone una possibile obiettività, complessità e capacità conoscitiva che sono aliene sia alle tecniche in questione che agli strumenti.

Fin dall’antichità il detentore del potere, o l’aspirante tale, ha fornito alla “sua parte”, o a chi intendeva legare a sé, narrazioni volte a dipingere il nemico in un certo modo, accordandosi alle tonalità espressive e valoriali coeve. Oggi è ancora così. Questa è una delle caratteristiche tradizionali del politico che non solo non è appassita, ma è anzi divenuta ipertrofica.

Codici e stereotipi

Nella costruzione mediale degli studenti guerrieri è palese la messa in funzione di diversi meccanismi di cooptazione dell’emotività da un lato – gli aspetti riconducibili al sistema limbico – e di significazione pseudo-razionale da un altro. Per far funzionare questi meccanismi (di natura emotivo-cognitiva) i media ricorrono all’uso di una varietà di figure stereotipiche, codici e simboli volti a fornire una sorta di rebus all’apparenza complesso; di questa apparente complessità fa parte ad esempio l’esoticità, la spietatezza, ma anche il paesaggio: tre elementi icastici e ricorrenti nel caso dei Taleban e di tutta la storia della presenza europea in Afghanistan, dai tempi del Teatro delle Ombre. Questo rebus, però, è costruito in maniera isomorfa alle risposte emozionali che si intende suscitare.

La “glassatura” simbolica

Da un lato dunque viene allestito il messaggio visibile, aggregato per codici discreti – il kalashnikov, la barba, i sandali, le donne col burqa, i rifugi nelle montagne. Questo messaggio lo si può riferire ad una figura stereotipica – il primo mullah Omar era esemplare, essendo anche orbo da un occhio, ma si pensi anche alla celeberrima Sharbat Gula, la ragazza ritratta poco più che bambina e di nuovo, nella stessa posa, 30 anni dopo. Infine il messaggio viene “glassato” di elementi simbolici: i Taleban che pregano ad intendere la loro connotazione religiosa, il loro picchiare pubblicamente le donne, l’associazione ai campi di oppio, o la cancellazione delle immagini pubblicitarie. Nel caso della recente presa di Kabul, l’arrivo del soggetto maligno, i Taleban, era simbolizzato dal panico all’aeroporto e dai corpi che cadevano dai cargo, simbolicamente una sutura con i corpi che cadevano dalle Twin Towers, una vera e propria ricucitura simbolica.

Questa operazione di lucidatura simbolica, nel caso dei Taleban si è rivelata sempre piuttosto complessa. Per l’enorme abisso culturale da colmare sul vacillante ponte di un’immaginazione meramente emotiva; per la difficoltà di portarla avanti durante un lasso di tempo incommensurabile rispetto ai tempi dei media (venti anni); per l’obiettiva incertezza di obiettivi e finalità dell’intervento occidentale che ha spesso significato non saper come rappresentare, di là dal catechismo dell’esportazione della democrazia e dei diritti particolari, chi realmente fosse il nemico (di per sé un fallimento politico). Sarebbe da riflettere su come i Taleban, espressione tribale e religiosa di una cultura aniconica, siano come scomparsi per quasi venti anni, riapparendo in modo folgorante e vincente, mettendo in crisi la capacità di simbolizzazione di una cultura bulimica di immagini come la nostra.

La forma che risulta da queste tre operazioni – un messaggio codificato con elementi discreti, il riferimento a figure stereotipiche, la “glassatura” simbolica – di per sé già instrada l’interpretazione, ma è poi rimpolpata dal carico emozionale fornito in genere dalla vittimizzazione – risorsa infinita di patos, dolore, ansia, compassione, da inoculare nell’abitante dell’infosfera – dalla desolazione che ovviamente spaventa, dall’orrore, o spesso da un ammiccamento alle istanze violente di ciascuno di noi.

Collasso dello spazio-tempo

Lo sbriciolamento della struttura spazio temporale, infine, porta a sciogliere ogni capacità di ragionamento causale, e rappresenta l’ultimo passaggio di queste rappresentazioni mediali, quello che permette di articolare narrazioni. Queste narrazioni, dovrebbe essere ormai chiaro, suscitano però esclusivamente immaginari e sono il contrario delle ideologie, essendo costitutivamente incapaci di sedimentare consapevolezze.

Le dinamiche qui appena sbozzate, nel caso dei Taleban hanno espresso il massimo delle loro possibilità, mostrando spesso il loro limite. La ragione di questa saturazione sta certamente nella necessità di replicare per venti anni ed oltre un’opera di rappresentazione mediatica non sostenuta, da parte di chi ne ha gestito e ne articola tutt’ora la messa in scena sul MSM, da una chiarezza di intenti e finalità. Un aspetto, questo, che parla di quelle rappresentazioni come di una forma di rispecchiamento. Che le narrazioni mediatiche non siano sorrette da razionalità, infatti, non vuol dire assolutamente che non possano e debbano venir mosse, specialmente nel MSM, da una volontà chiara e coerente. Il proliferare, recentissimo, di immagini bizzarre come i Taleban sulle autoscontro al luna-park, che fanno il baciamano ad una donna col burqa, si prostrano a terra in lacrime dopo la conquista di Kabul, appaiono in diretta in uno studio televisivo, o guidano maldestramente un elicottero su di una pista d’aeroporto, sono tutte segnali di un tentativo di risintonizzazione parallelo al loro riposizionamento politico nell’agenda occidentale e non solo.

Costruzione di nuovi nemici

Chi è oggi, dunque, il nemico? Questa la domanda che dovrebbe ispirare una coerente rappresentazione mediatica del cattivo di turno. Ma già le vesti bianche e composte dei rappresentanti dei Taleban durante gli accordi di Doha del 2020 – in sostanza la pace firmata fra Taleban ed USA e l’impegno di questi ultimi a ritirarsi dall’Afghanistan – suggerivano un diverso futuro per i vecchi nemici. L’accreditamento dei Taleban come interlocutori affidabili per tutti gli attori occidentali, così come per Cina e Russia, è già iniziato. Minerali, pedaggi, oppio, geopolitica, infrastrutture: il registro economico pare adesso ispirare ed innervare la loro investitura come detentori del potere. Fanno capolino addirittura le parole sicurezza e pace, in netto controcampo rispetto a tutta la narrazione precedente. La smemoratezza si mostra in tutto il suo accecante sfolgorio mediale, vera dispersione entropica dell’insieme dei processi di rappresentazione e narrazione mediatici. Il regime informazionale, e questo specifico caso lo mostra, non risulta meno credibile se è entropico – come postula un’inetta teoria dell’informazione – ma il suo stesso funzionamento si basa sul rendere razionalmente inintelligibile il presunto messaggio.

Il focus si sposterà dunque sul nuovo candidato possibile a minaccia di turno – probabilmente il cosiddetto Stato Islamico della Provincia del Khorasan, Iskp – e nel frattempo la macchina della rappresentazione mediatica zoomerà su questioni minori, laterali, o meramente emotive, suscitando altri scenari, finalmente liberata dal gravoso ed insostenibile fardello della coerenza razionale che venti anni di guerra di occupazione le hanno imposto, portandone alla luce i limiti e la sua strumentalità.

*La foto di copertina ritrae Kabul, l’autore è Andrea Dapueto