Confesso che quando la redazione di Asfalto mi ha chiesto di intervenire in relazione al focus sugli anni ’80 mi sono sentito attratto e imbarazzato allo stesso tempo. Riflettere su come e se il modello di Chiesa cattolica di quegli anni abbia fondato l’oggi mi è subito sembrato arduo e forse improponibile. Che relazione può infatti esserci tra il modello imperiale di Wojtyla e quello “francescano” di Bergoglio? Apparentemente nessuna. Eppure, non è così semplice liquidare la questione; e per fortuna, altrimenti l’articolo dovrebbe chiudersi qui. Sì, perché uno potrebbe essere tentato di stabilire che la Chiesa di Giovanni Paolo II, continuata con quella di Benedetto XVI, fosse reazionaria e questa di Francesco riformista, se non addirittura rivoluzionaria, e dunque chiudere i giochi.
Eppure chi si occupa di cattolicesimo sa bene che le normali nostre categorie laiche di tradizione-innovazione, reazione-rivoluzione, conservazione-rottura poco funzionano di fronte a una istituzione universale bimillenaria, abituata a pensare il rinnovamento come adattamento al procedere storico del proprio bagaglio di esperienze teologiche, culturali, mentali, accumulato nei millenni e di volta in volta rielaborato: nulla nella Chiesa cattolica sembra innovativo, eppure tutto si adatta al nuovo.
Dunque, se questo è vero, cosa c’è della Chiesa di Giovanni Paolo II in quella di oggi: in che senso quell’esperienza così forte ha fatto modello?
Giovanni Paolo II
A mio parere Papa Wojtyla è uno dei pontefici più sopravvalutati della storia della Chiesa. Il suo tentativo di rilancio del cattolicesimo fiaccato dall’ateismo e dal comunismo si è rivelato una immane operazione comunicativa condotta all’interno di un mondo estraneo e alieno. Un mondo cioè fortemente bipolare che per sua costituzione impediva una vera e propria opera di evangelizzazione globale. Il comunismo rappresentava, infatti, da un lato un nemico frontale e dichiarato, dall’altro una sirena pericolosissima per i preti in missione, come nel caso della Teologia della Liberazione in America latina, esperienza attratta dal fermento rivoluzionario marxista di quelle terre.
In effetti lo stesso Vaticano II, con la sua idea di una Chiesa aperta alla modernità, appariva come una presa di consapevolezza prematura, non ancora supportata dallo spazio aperto del mondo. Dopo la fase attuativa guidata da Paolo VI, la Chiesa di Giovanni Paolo II sviluppa una sua precisa strategia. Fortemente tradizionalista nei valori, blindata nella sua struttura teologica, essa appare come una roccaforte in movimento che si offre al mondo. Come in un famoso discorso di Wojtyla l’uomo deve aprire le braccia a Cristo. Se si prova una lettura profonda non è la Chiesa, che rappresenta Cristo sulla terra, che si apre ma l’uomo che deve accettarla. Perché ciò avvenga c’è bisogno di rimettere mano al “look” per così dire. Al centro di tutto c’è la figura del pontefice-divo, giovane, vigoroso, sportivo, simpatico, curioso di fronte al mondo. Quello che emerge è un vero e proprio nuovo brand cattolico per cui la Chiesa è sempre la struttura potente al centro del mondo, ma rinnovata, ringiovanita, un po’ rock, un po’ pop. È quello che succederà alla politica di lì a poco: pensiamo solo alla figura di Berlusconi in Italia, vero e proprio archetipo di successivi esperimenti mondiali, che incarna, nel suo profilo di imprenditore di successo, la sua idea di proposta politica, così come Giovanni Paolo II incarna la sua proposta di Chiesa: simpatica ma rocciosa, aperta ma intransigente, giovane ma antichissima.
La “Nuova Chiesa” di Wojtyla e la TV
Il medium per eccellenza di questa “Nuova Chiesa” è la tv. Prima di quel momento la Chiesa di Roma aveva mostrato una certa sospettosa riluttanza rispetto ai mezzi elettrici (con l’eccezione forse della radio, la voce invisibile che pare in sé stessa incarnare il Verbo). Wojtyla capisce che è la tv il mezzo per eccellenza del mondo che sta nascendo, rapidissimo, in grado di raggiungere tutto il mondo. I suoi viaggi continui non hanno solo una funzione politica ma comunicativa: sono validi in quanto set televisivo, spettacolo da diffondere a tutto il mondo. La Chiesa si incarna sempre più nella figura centralizzata e centralizzante del pontefice e tale figura diventa un eccezionale e moderno personaggio al quale tutti possono avvicinarsi. Per capirlo basti pensare al suo timido e dottissimo predecessore, Paolo VI, pure a sua volta assai attento alla comunicazione, ma in una maniera veramente primordiale. Quella di Paolo VI è ancora una paleotv, come direbbe Umberto Eco; discreta, moderata, mai invadente. Quella di Giovanni paolo II è una neotelevisione, sempre accesa, pervasiva, dai linguaggi immediati e spettacolarizzati. Il corpo del pontefice viene sacralizzato attraverso l’alone elettrico, persino quando verrà mostrato in preda alla sofferenza che lo consuma: è santificato prima del tempo, icona viva da adorare.
Come è chiaro, questo tipo di mezzo consente di potenziare la tradizionale disposizione mass-mediale della Chiesa, il messaggio rigido dall’uno ai molti, senza dialogo e interazione, ma appare funzionante finché c’è il divo su cui converge tutta la luce dei riflettori e finché il mondo è diviso in due. Quando il mondo si globalizza, frammentandosi e liquefacendosi, sepolto dai linguaggi di un consumo multiplo e plurimo in alcun modo riversabile in una unica proposta eterodiretta, quella proposta entra in crisi. Così il suo successore, Benedetto XVI, un Papa incapace di comunicazione finanche corporale, vero e proprio modello cinquecentesco, ieratico, e quasi invisibile, espressione di una Chiesa del silenzio e dell’attesa, non in grado di seguire la velocizzazione del mondo, incarna tutta la crisi del cattolicesimo, tutta la sua difficoltà a riproporsi come religione in espansione realmente aperta ad un mondo completamente cambiato. È questa incapacità di proporsi al mondo e non gli scandali interni alla curia, a costringere Ratzinger alle dimissioni.
Papa Francesco
La risposta del conclave ad un simile stallo è Papa Francesco: l’asso gesuitico pescato dal variegato mazzo comunicativo cattolico. Bergoglio è costretto a rinnovare tutto, eppure due punti fermi dell’esperienza precedente li terrà: è qui l’eredità degli anni ‘80.
Secondo Bergoglio la Christianitas non c’è più, non c’è più il noi/loro, dunque non si può più semplicemente andare verso il mondo esterno aspettando che qualcuno apre le braccia: bisogna anzi entrare in quel mondo a braccia aperte. Il mondo è globalizzato e la Chiesa non può che comportarsi come “un ospedale da campo dopo la battaglia”: una istituzione leggera, pronta a disperdersi in ogni dove, priva di centro, che si allunga verso le periferie e anzi proviene da esse. Secondo i teorici e teologi gesuiti raccolti intorno al Papa la Chiesa deve diventare un vero e proprio medium, un network globale, una rete in continuo dialogo al suo interno e verso l’esterno, che si muove immersa in un universo liquido. Eppure, nel momento in cui questa strategia universalistica di evangelismo totale di stampo gesuitico è passata dalla teoria alla pratica, alla concretezza che Papa Francesco sempre richiama, sono sorte quelle che possono apparire come contraddizioni e che invece, forse, sono semplicemente le conseguenze dell’armatura di questa antichissima Istituzione.
La Chiesa a rete di fatto non usa la rete, o meglio la usa a modo suo e non con le potenzialità che tale medium offre. La fondazione di Vatican News nel 2017 ne è un esempio. Il mega-sito che si definisce “un servizio informativo realizzato dai media del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede” è in realtà un pachidermico contenitore che ospita tutto, dai social del Papa, al canale Youtube con i video delle sue udienze, dei viaggi etc.
La soluzione cioè non è stata il decentramento dei contatti cosicché ogni fedele potesse interagire con il centro, ma una sorta di “calamitizzazione” mediale per cui ogni medium utilizzabile è stato risucchiato in un grande sistema convergente e multimediale, secondo una tradizione antichissima del cristianesimo sin dai tempi della sua fondazione. Insomma: il nodo di come faccia l’unica Istituzione religiosa e universalistica centralizzata oggi esistente a rinunciare a questo approccio di fronte ad un mondo completamente decentrato, sebbene posto e compreso, non è stato di fatto sciolto.
E questo è il grande lascito degli anni ’80, della Chiesa di Giovanni Paolo II. Anche oggi il Papa è al centro della comunicazione, è un divo a suo modo, anche se non più imperiale, un divo dell’umiltà, della quotidianità, un divo francescano se vogliamo, ma sempre un divo. E’ lentamente scomparso dalla visibilità mediatica tutto quell’apparato curiale che tanti scandali e problemi ha provocato alla sede di Pietro ed è rimasto solo, al centro, il Papa francescano-gesuitico che incarna perfettamente il progetto di risanamento.
Questo personaggio mediatico consumato dal mondo intero non può però che continuare a servirsi del medium sdoganato da Wojtyla. Nei momenti più drammatici della pandemia restano non a caso iconiche le immagini del vescovo di Roma solo in piazza San Pietro, o seduto nel suo normale appartamento mentre viene intervistato in diretta (o presentata come tale) nel popolare programma di Fabio Fazio.
Sono questi i grandi lasciti della Chiesa degli anni ’80, ri-giocata in un mondo totalmente diverso che si dice di voler affrontare in tutta la sua novità, ma con strumenti non ancora completamente stabiliti. La soluzione adottata è solo un momento di passaggio verso qualcosa di più congruo, oppure è il massimo che una Chiesa universalistica e gesuitica possa fare al momento?
Cosa rispondere? Forse solo una cosa. Il mondo sembra procedere verso una risistemazione della globalizzazione. L’ombra di nuovi muri e di nuove spazialità geopolitiche sia allunga sempre più su una umanità terrorizzata, confusa e stanca. Per quel mondo forse non servirà più un Papa gesuita, ma uno sul modello di Wojtyla o di Ratzinger, un altro Papa imperiale o ieraticamente invisibile, un Papa che sia forte nella sua volontà di conquista o saldo nella sua immobilità di attesa.