Dall’infanzia all’adolescenza 1

Gli anni Ottanta non sono soltanto, per me (né soltanto per me), gli anni del passaggio dall’infanzia all’adolescenza. In quegli anni, tutti hanno vissuto un parallelo passaggio verso un nuovo paradigma, e un nuovo panorama, mediale e comunicativo.

Il mondo digitale ha cominciato a prendere la forma che più o meno conosciamo oggi proprio in quel momento, una forma sempre più basata sui concetti di virtualità e di simulazione della realtà. Un’impostazione metaforica, potremmo dire, che risulta chiarissima nella prima idea di interfaccia visiva dei personal computer: dopo le prime sperimentazioni negli istituti di ricerca californiani (principalmente lo Xerox PARC), e dopo il flop dell’audace Apple Lisa, nel 1984 il Macintosh offre (e richiede) ai suoi utenti un’interazione visiva che “fa il verso” alla realtà fisica, tangibile. Non più stringhe di caratteri alfanumerici per lanciare programmi o per operare sui files, ma azioni naturali all’interno di un ambiente familiare: la scrivania del computer, le cartelle di documenti, i tipi di carattere, lo spostamento degli oggetti virtuali (attraverso il puntatore del mouse sulle icone), il cestino in cui trascinare i files sbagliati o ridondanti o non più utili. Da lì in poi, il computer fuoriesce definitivamente dalle grandi stanze degli istituti e delle aziende per diventare veramente personal: a partire dal Windows 1.0 del 1985 sarà tutta un’altra storia, e l’invasione della realtà da parte del virtuale sempre più densa e articolata.

Sono anche gli anni della nascente infrastruttura del web, col passaggio dall’ARPANET degli anni Settanta ai protocolli di comunicazione messi a punto negli anni Ottanta nei laboratori del Dipartimento della Difesa americana (il TCP/IP) e al CERN di Ginevra (l’HTTP), fino all’idea di world wide web e alla connessione delle tante reti locali in una internet globale.

Al di là della storia dell’evoluzione tecnologica digitale e di rete, quello che va sottolineato è che, in quegli stessi anni, chi era bambino o adolescente contribuì in modo determinante alla diffusione e al consolidamento del nuovo panorama mediale, facendosi vettore inconsapevole e privilegiato di consumo digitale, attraverso oggetti e ambienti che sempre di più vertevano su di esso. Il modo principale in cui questo avvenne fu giocare ai videogiochi.

Dall’infanzia all’adolescenza 2

Nel suo The Game, Alessandro Baricco indica in Space Invaders lo spartiacque che dà via alla cosmogonia digitale. Il gioco è in realtà del 1978, e certamente la storia dei videogiochi vede negli anni Settanta il suo primo determinante periodo, la sua infanzia, con la diffusione dei cabinati (gli arcade cabinet da Computer Space a Space Invaders, per l’appunto) e le prime rudimentali – ma al tempo stesso fantasmagoriche – generazioni di console casalinghe (dalla prima MagnavoxOdyssey alla Atari 2600 alla Mattel Intellivision).

Bene, negli anni Ottanta avviene un secondo passaggio da infanzia ad adolescenza, e a compierlo non sono tanto i videogiocatori quanto proprio i videogiochi stessi. Il processo di addomesticamento tecnologico, e di assestamento nell’immaginario, avviene grazie a giochi come Pac-Man (1980), non a caso preso involontariamente a emblema dell’influenza dei videogames sulla cultura giovanile da un manager della Nintendo; come Donkey Kong (1981), dal cui spin-off Mario Bros. (1983) prende vita la saga videoludica transmediale più longeva e di successo; e come Dragon’sLair (1983), la cui incredibile (per l’epoca) grafica segna un punto di svolta importante per il potenziale rapporto tra videogiochi e cinema (non solo) d’animazione. Questi e molti altri titoli, insieme alla nascita o allo sviluppo delle più importanti case di produzione, in buona parte attive ancora oggi (Nintendo, Electronic Arts, Activision), portano il mondo videoludico verso nuove generazioni di console, e verso una progressiva maturità del medium, sia in termini tecnici che creativi. Non è casuale, a mio avviso, che i creatori della serie Black Mirror decidano di ambientare proprio nel 1984, e proprio nel mondo di una società di videogiochi, quella sperimentazione di film interattivo che è Bandersnatch.

Questi anni rappresentano un momento di aggiustamento, con l’avvicendarsi di crisi, fallimenti, e di visionari salti in avanti.

Domestication

La diffusione della cultura videoludica, e il processo di domestication, avvengono però anche grazie a un altro fattore. Il successo dei primi personal computer alla fine degli anni Settanta (in special modo l’Apple II) porta alla proliferazione di tante marche e di tanti modelli di home computer, tra cui spicca senza ombra di dubbio il mitico Commodore 64, del 1982, il modello più venduto nella storia. In virtù di questa espansione del mercato, comincia a intensificarsi anche un’altra pratica di gioco, quella dei computer games. I giovani e i giovanissimi di quegli anni entrano in relazione con le interfacce e le logiche informatiche grazie alla possibilità di giocare ai videogiochi. Personalmente ho desiderato, e fortunatamente ottenuto, il mio Commodore 64 non certo per poter scrivere in Basic o programmare qualche routine, ma per poter inserire una cassetta di gioco nel mangianastri abbinato alla macchina, scrivere Load… e aspettare pazientemente, minuti e minuti, il caricamento di IK+, Summer Games o Pitstop II. E lo stesso approccio l’ho avuto qualche anno dopo col mio primo computer “vero”, un Windows 3.1 in cui giocare a Dune o – più grandicello – a Sensible Soccer.

Al di là della mia esperienza personale, è importante citare il ruolo di computer games come quelli delle serie Ultima (dal 1981) e Might and Magic (dal 1986), determinanti nello sviluppo e nella definizione del concetto di avatar, dei giochi di ruolo (RPG) e dei giochi open world, dove sostanzialmente è possibile scegliere (se non addirittura costruire) il proprio personaggio, il proprio percorso e i propri obiettivi di gioco.

Se fossi stato più smanettone, e non un semplice giovane consumatore di roba elettronica e digitale, avrei forse anche potuto giocare a quello che è considerato il primo gioco multiplayer online, il primo MUD, il famoso Multi-User Dungeon (da cui, per l’appunto, l’acronimo), creato nel 1978 ma connesso per la prima volta ad ARPANET tra il 1980 e il 1981.

L’alfabetizzazione digitale della mia generazione e di quelle vicine, insomma, è avvenuta grazie ai videogiochi, e il mondo digitale si è avvalso di queste alfabetizzazioni per svilupparsi e diventare quello che è oggi. I videogiochi sono stati cavalli di troia del digitale e del virtuale nelle nostre vite, ed è negli anni Ottanta che questo processo ha avuto inizio a livello collettivo.

Lo specchietto retrovisore

Una certa parte della nostra attuale cultura, delle nostre pratiche relazionali, del nostro modo di percepire la realtà, e di agire sulla realtà, deriva da lì, da quegli anni, da un crescente abitare, immaginarsi, narrarsi, in mondi virtuali, mondi – beninteso – interagibili, parzialmente dipendenti dalla nostra volontà o capacità. Sono dunque, sì, anni di grande mutamento, e rappresentano forse – a livello culturale, economico e di immaginario – la nostra infanzia.

Guardare agli anni Ottanta, oggi, ci aiuta a comprendere, dell’oggi, alcune cose. Ed è quello che ha provato a fare Asfalto con questo focus. Ovviamente, si tratta di una dinamica che riguarda anche altri periodi storici, altri passaggi epocali, altri cambi di paradigma. Il contenuto di un medium è sempre un altro medium, diceva McLuhan, e chissà che lo stesso non accada un po’ con tutto, con l’immaginario, con le pratiche sociali, con le posizioni politiche. Allora guardiamo nello specchietto retrovisore, ma proviamo anche a spostare gli occhi avanti, di tanto in tanto, a quello che abbiamo davanti al parabrezza. Giusto un paio di considerazioni.

La cultura digitale e virtuale si è diffusa tra soggetti nati e cresciuti con altre impostazioni mediali: abituati all’audiovisivo, sempre più all’elettronico, ma ancora profondamente gutenberghiani. Molti di noi, che eravamo bambini o adolescenti in quegli anni, non siamo né immigrati né nativi digitali (per quanto questa distinzione possa avere senso), ma direi al limite oriundi. I bambini e adolescenti di oggi no. Nascono in un ambiente totalmente permeato, sin nelle fondamenta, da algoritmi, sovrapposizioni onlife, fluidità, metaversi. È un problema? Non lo so. Ai miei occhi post-gutenberghiani forse sì; farei – se fossi al loro posto – un uso diverso dell’immenso materiale narrativo e comunicativo a disposizione, e ammetto di approcciarmi con fastidio al livello medio-alto di idiozia proposto da youtubers e tiktokers. Ma in fondo, mi dico, tiktokers e youtubers stanno semplicemente sperimentando un linguaggio, un medium, in modalità che io neanche mi sogno. Ricordano, in parte, le sperimentazioni delle radio libere o delle prime abborracciate reti televisive locali tra anni Settanta e Ottanta, solo che lo fanno già con una complessità e una qualità (almeno dal punto di vista tecnico) mediamente maggiore. Cosa ne verrà fuori? È solo un altro spazio di consumo? Di distrazione di massa? O c’è in nuce qualcosa di diverso, che non vediamo, un interstizio di anarchia da cui può germinare un cambiamento inatteso, inaspettatamente positivo? Non lo so.

E poi c’è la questione dei mondi virtuali in quanto tali, come luoghi di esperienza sempre più esteticamente complessa, con una rielaborazione ipermediata del nostro sensorio, non solo vista e udito. Gli anni Ottanta ci hanno mostrato, per la prima volta, non solo una coesistenza interrelata di tutte le attuali dimensioni mediali, ma un primo vero assaggio di virtualità, in cui potersi costruire un’identità alternativa (l’avatar) ed emanciparsi dalla consequenzialità di azioni imposta dal programmatore. Grazie ai primi open world role player games abbiamo concretamente sperimentato una libertà, prima impensabile, di interagire con uno spazio virtuale, di decidere con un buon grado di autonomia cosa fare, dove andare, quale oggetto prendere e quale lasciare, quale obiettivo raggiungere e quale ignorare: co-creatori del nostro destino (e se questo destino sia comico o tragico è un altro discorso). Mutatis mutandis, è quello che tutti facciamo oggi, non solo i videogiocatori, quando girovaghiamo tra i profili di Facebook o Instagram decidendo se interagire o meno, quando mettiamo e togliamo articoli dal carrello di Amazon o eBay, quando immaginiamo mete da raggiungere su Booking o Airbnb. La virtualità è diventata reale.

[L’immagine di copertina è People Inside Building di Mikechie Esparagoza]