Da almeno un ventennio siamo di fronte a un massiccio, costante e perdurante ritorno dell’immaginario degli anni Ottanta, soprattutto attraverso i prodotti dell’industria culturale. Tra questi prodotti possiamo distinguere due macrocategorie: la prima rientra in quel fenomeno che Simon Reynolds ha chiamato retromania, ovvero la fascinazione che contraddistingue l’attualità per le mode, le manie passeggere, la musica e le star di un’epoca di cui si ha ricordo per averla vissuta in prima persona. La retromania interessa tutta la cultura pop dal secondo dopoguerra agli anni Novanta, ma gli anni Ottanta sembrano essere oggetto di un interesse particolare, quasi ossessivo: più ci si allontana dal Novecento più questa “ossessione” sembra intensificarsi. Questa categoria può essere a sua volta suddivisa in due sottocategorie: quella del revival, che fa riferimento ai prodotti originali dell’epoca, e quella composta dalla nutrita schiera di attuali remake, reboot, prequel, sequel, requel di film, serie tv, videogame e altro di quel decennio: tra i tanti, l’esempio più recente è rappresentato dal film Ghostbusters: Legacy.

La seconda macrocategoria raccoglie invece tutti quei prodotti attuali, alcuni di grandissimo successo – per esempio la serie tv Stranger Things – ambientati negli anni Ottanta. In questa macrocategoria quel decennio non viene quasi mai rappresentato in modo nostalgico e con la gioia e l’ottimismo dei prodotti originali di quel periodo, per cui l’invito alla retromania è soltanto un effetto collaterale all’ambientazione. Infatti, se si compie un’analisi del livello profondo dell’immaginario, rappresentato dagli archetipi che si incarnano in queste storie, ci si accorge che questi prodotti sono piuttosto espressione della necessità di dare un senso e un significato a quel fenomeno contemporaneo che Zygmunt Baumann chiama retrotopia: la visione di un passato utopico, i cui principali punti di riferimento sono gli aspetti veri o presunti di quel passato che, pur avendo dato buoni risultati, sarebbero stati inopportunamente abbandonati o irresponsabilmente mandati in rovina. Per Bauman nelle retrotopie il cammino a ritroso verso il passato si trasforma in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta è diventato presente. In altre parole, per il mondo attuale gli anni Ottanta sembrano rappresentare una retrotopia.

Ottanta voglia di big bang

I protagonisti di molti prodotti appartenenti a questa macrocategoria sono spesso adolescenti o giovani adulti in cui si incarna l’archetipo del fanciullo junghiano. Tuttavia, come sottolinea Carl Gustav Jung, questa è soltanto una di tutte le forme possibili in cui l’archetipo può incarnarsi perché, anche da un punto di vista più strettamente narratologico, gli archetipi svolgono prima di tutto una funzione precisa all’interno di un racconto. Non si manifestano quindi necessariamente in un personaggio, ma possono essere espressi anche da un luogo, da un oggetto e perfino da un’epoca. In questo caso l’epoca in cui si incarna l’archetipo del fanciullo è quella degli anni Ottanta, che di fatto rappresenta la fanciullezza dell’era digitale. Non a caso, per quanto il sistema tecnologico in cui oggi siamo completamente immersi sia stato concepito negli anni Settanta, il principale fattore storico determinante per l’accelerazione, la diffusione e lo sviluppo del paradigma della tecnologia dell’informazione è rappresentato dal processo di ristrutturazione capitalista avviato negli Ottanta.

In quel decennio gran parte degli elementi che contraddistinguono l’attuale era digitale sono già facilmente individuabili, anche se ancora in uno stato embrionale: computer e tv interattiva, serialità e videogame, dispositivi mobili, transmedia storytelling e narrazioni non lineari, multicodicalità, multitasking, cultura partecipativa e della condivisione, reti informatiche e di telecomunicazione. Si tratta di un vero e proprio big bang al contrario, in cui tutto ciò che attualmente converge in pochissimi dispositivi (in primis lo smartphone) e nei linguaggi del web, all’epoca si espandeva in un universo di tanti dispositivi materiali.

Forever Jung

Ma per tornare agli archetipi, questi per Jung sono immagini primordiali a carattere collettivo. Quando nella realtà si presenta una situazione corrispondente a un dato archetipo, questo si attiva e, subendo a diversi livelli un’elaborazione cosciente, si manifesta sottoforma di figure simboliche, per esempio nei miti e nelle fiabe ma anche nei romanzi e nei film, ovvero nell’immaginario. Il sopracitato archetipo del fanciullo si affaccia quando sussiste una frattura, sia a livello personale che collettivo, tra lo stato presente – rappresentato dall’Io cosciente e razionale – e le radici, lo stato passato (in questo caso gli anni Ottanta) – rappresentato dall’inconscio. Questo archetipo ha la funzione simbolica di rappresentare l’esigenza di sanare questa frattura e ricorre spesso nei prodotti dell’industria culturale appartenenti alla seconda macrocategoria.
Per Jung, lo stato presente incarna un’ideale “progressivo” che è sempre più astratto, innaturale, e tanto più “immorale” in quanto esige l’infedeltà alla tradizione. Le radici incarnano invece un’ideale “regressivo” che è sempre più primitivo, più naturale (sia in senso buono che cattivo) e più “morale”, in quanto aderisce fedelmente alle leggi tradizionali. Il progresso conquistato senza tenere conto delle radici è sempre convulsivo: incapace di realizzare il significato delle nuove condizioni, ricade facilmente in una situazione peggiore di quella dalla quale voleva salvarla l’innovazione. Un progresso sano e vitale scaturisce soltanto dalla cooperazione di entrambi i fattori.

Il villaggio glocale

Se in modo schematico si attribuisce il ruolo di “progresso” alla globalizzazione e quello di “radici” al sovranismo, in queste considerazioni di Jung non è difficile scorgere l’attualità. Senza voler esprimere alcun giudizio di valore è possibile fare una rigida e semplicistica schematizzazione degli “ideali” globalisti e sovranisti che sono ovviamente anch’essi gran parte frutto dell’immaginario oltre che di riscontri empirici:la realtà è certamente più complessa e non riducibile a una divisione così manichea. Detto ciò, da un lato, il globalismo si basa su un’idea di società liberale (e liberista), aperta, direbbe Karl Popper, inclusiva (del diverso, purché assimilato ai principi della globalizzazione, quindi in questo senso esclusiva) razionalista, tecnologica e scientifica (“positivista”, con derive scientiste), utilitaristico-efficientista, quindi meritocratica e individualista, metropolitana. È la società della fine della storia prefigurata da Francis Fukuyama, in cui l’unico futuro possibile è il presente. In eterno. Dall’altro, il sovranismo è fautore di una società chiusa e protezionista, esclusiva (del diverso, del non appartenente alla comunità nazionale o locale, ma inclusiva nei confronti degli esclusi dalla globalizzazione appartenenti alla comunità di riferimento), istintiva, spontanea e tradizionalista (religiosa o comunque “spiritualista”, con derive “no-vax” e affini), basata sulla giustizia, l’equità e la solidarietà, quindi comunitarista (ma sempre solo all’interno della propria comunità di riferimento) rurale e periferica. È una retrotopia basata sul vago ricordo di un passato – in questo caso rappresentato dagli anni Ottanta – apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità.

Ci troviamo quindi di fronte a dei binomi in contrapposizione riconducibili rispettivamente alla frattura tra l’Io cosciente e l’inconscio junghiani: apertura/chiusura, liberismo/protezionismo (ma comunque capitalismo), “inclusività”/”esclusività”, scienza/tradizione, tecnologia/spontaneità,utilità/giustizia, efficienza/equità, merito/solidarietà, centro/periferia,ragione/istinto, cultura/natura, presente/passato. Tra i due binomi esiste una frattura che genera, per così dire, la “nevrosi” dell’attualità nella quale il grande assente è proprio il futuro. Da qui l’esigenza di sanarla rappresentata dall’immaginario espresso dai prodotti della seconda macrocategoria.
La serie tv Stranger Things ne è un esempio significativo: al di là della numerosa presenza di bambini e della multiforme fenomenologia del fanciullo che questi incarnano all’interno della serie (e qui non abbiamo lo spazio per trattarla), già di per sé la contrapposizione tra la realtà e una dimensione parallela oscura, quale è il Sottosopra, è rivelatrice di una tipicità espressa dall’archetipo del fanciullo, ovvero quella di simbolo unificatore e artefice della totalità: per Jung il giorno e la luce sono sinonimi della coscienza mentre la notte e l’oscurità lo sono dell’inconscio. In ogni caso, se di questa fenomenologia multiforme consideriamo a titolo di esempio soltanto uno degli archetipi del fanciullo espressi in Stranger Things, ovvero quello del fanciullo ermafrodito incarnato da Undici – la ragazzina tornata al mondo reale dal Sottosopra – rileviamo che per lo psicanalista svizzero questo archetipo è un simbolo unificatore, il simbolo dell’unificazione costruttiva degli opposti.

Petrolio di gomito

Tornando all’attualità, l’Occidente si trova in una fase di stagflazione e aumento dei prezzi dell’energia molto simile alla crisi energetica degli anni Settanta, anche se per ragioni diverse. Tuttavia, allora come oggi, fu una guerra, quella dello Yom Kippur del 1973, ad acuire la crisi. Da quella fase prese lentamente avvio il sopracitato processo di ristrutturazione capitalista, che si consolidò negli anni Ottanta con l’abbandono delle politiche socialdemocratiche e neokeynesiane in favore del neoliberismo. Il nuovo approccio all’economia, insieme al cambio di paradigma tecnologico di cui si è detto, aprì la strada all’accelerazione del processo di globalizzazione e contribuì all’implosione dell’Unione Sovietica, incapace di star dietro all’Occidente. Un’accelerazione che creò una frattura tra quella che Charles Maier chiama Epoca Lunga, iniziata con la seconda rivoluzione industriale, e una nuova epoca: l’attuale.

In realtà, la guerra in Ucraina è “soltanto”, per così dire, un epifenomeno di una Russia impegnata da almeno un ventennio a ricostruirsi un’identità nazionale forte che affondi le radici nella tradizione – si veda il filosofo Aleksandr Dugin e il patriarca di Mosca Kirill, entrambi molto vicini a Vladimir Putin – e a ritagliarsi un nuovo ruolo di attore internazionale di peso, come ai tempi dell’Urss. È interessante notare come, in questo momento storico, l’Occidente – sulla scia della necessità di far fronte alle conseguenze della pandemia da coronavirus – stia reagendo in maniera opposta a una crisi energetica simile, ossia con un ritrovato interventismo dello Stato e degli enti sovranazionali sull’economia, come accadeva prima degli anni Ottanta, quasi a voler sanare quella frattura di cui si è detto. Se dietro questi accadimenti non ci fossero ragioni più profonde e complesse verrebbe quasi da dire che il mondo sia in preda a un attacco di retrotopia degli anni Ottanta. Tuttavia, è suggestivo notare come la dicotomia di cui si è parlato in precedenza, nella sostanza, funzioni anche attribuendo l’etichetta di “progresso” all’Occidente e di “radici” alla Russia, dove il progresso conquistato senza tenere conto delle radici sarebbe rappresentato dall’espansione a est della NATO.

Immagine di copertina: Aldo Rossi, Cimitero di Rozzano, 1989-1995, fotografia di Marco Introini