Non sono uno storico e nemmeno un cronachista. Tutt’al più, agisco come testimone di quelle vicende: non del tutto consapevole, però, né allora né oggi, trattandosi di materia incandescente, che brucia ancora.
Dunque, al fine di individuare qualche filo che mi aiuti a districare la matassa dei ricordi ricorro, me lo si perdoni, allo Scaffale Maragliano, ovvero l’ambiente di rete, ad accesso libero, nel quale sto collocando buona parte della mia produzione in libro, periodico, testo scolastico, audio, video dall’inizio degli anni Settanta ad oggi. Qui trovo due spunti, uno recentissimo, l’altro di quegli anni, che mi consentono di imbastire un breve discorso volto a individuare lì i presupposti di quanto, io penso, stiamo vivendo al momento attuale, cioè la crisi profonda di un’idea, o forse dell’idea stessa di scuola.

Il fallimento di un progetto di cambiamento

Il primo spunto viene da 1965-1985. L’età dell’ottimismo pedagogico, il convegno che avevamo organizzato con Salvatore Colazzo, presso l’Università del Salento, e che non si tenne per via della sopraggiunta pandemia. Resta il titolo, che di per sé vale come tesi, ma resta anche il materiale preparatorio.
Il meno che si possa dire, a questo proposito, è che in quel decennio si consuma e tramonta l’idea di un cambiamento profondo nell’impianto istituzionale della scuola italiana. Le manifestazione più visibili del fenomeno stanno, per un verso, nei più di venti progetti di riforma della scuola superiore che si susseguono sul fronte del Parlamento italiano dall’inizio degli anni Settanta alla metà degli anni Ottanta, nessuno dei quali trova degna conclusione, e, per un altro verso, nella svolta politica attuata dal Ministero scolastico che, in ragione del fallimento dell’iniziativa legislativa, si dispone a provvedere al cambiamento per via amministrativa, sia attraverso la promozione di iniziative sperimentali, attuate dai singoli istituti ma coordinate centralmente, sia attraverso una generosa e ambiziosa riscrittura dei programmi d’insegnamento (la futura commissione Brocca). Il che è come dire che negli anni Ottanta gira il vento, sul terreno scolastico (ce ne siamo accorti allora? no; ne siamo consapevoli ora? ni; tutto questo coinvolge anche l’università? assolutamente sì). Fallisce insomma, e lo fa miseramente (senza che se ne prenda atto seriamente), il progetto di un cambiamento strutturale, di impianto complessivo della scuola, prospettiva in cui tanto si era creduto, dalla Costituente in poi, e questo probabilmente avviene non solo per le rigidità contrapposte degli attori in scena, politici e soprattutto partitici, ma anche per una insipienza della cultura pedagogica diffusa, ancora fortemente segnata (oggi non meno di ieri) da un (inconsapevole?) marchio casatiano ripensato in chiave gentiliana: dove l’indiscussa stabilità riconosciuta alla gerarchia classica del sapere, si sposa con la priorità istintivamente riconosciuta al conoscere disinteressato nella formazione della futura classe dirigente e tutto rifluisce nell’interesse a mantenere, rigenerandolo in superficie (tramite il coinvolgimento dei sindacati e delle associazioni professionali), un impianto gestionale di tipo centralistico.
Verrebbe da pensare che questa svolta induce la scuola nel suo complesso e soprattutto la cultura di cui essa è espressione, a pensarsi ed agire, di lì in poi, come un apparato a sé stante di idee e tecniche, ovvero come un dispositivo fisico e mentale caratterizzato da una valenza sovrastorica e sovrageografica e che in forza di questa assunzione essa si pone al riparo nei confronti di una società esterna in profonda e dinamica trasformazione. Non a caso ogni successivo tentativo di rompere, ai vari livelli del ragionamento politico e culturale, un così rigido assetto materiale e ideale viene interpretato, combattuto e respinto come espressione del movimento di appropriazione che i cosiddetti ‘poteri forti’ dell’economia e delle organizzazioni aziendali attuerebbero nei confronti di una scuola orgogliosamente ‘umana’, o ‘debole’ o ‘gentile’, in quanto critica dell’universo violento e duro della comunicazione sociale e del consumismo di massa.
A questa idea di una scuola chiusa al mondo e alla realtà, autocompiaciuta di un suo riflettere un’immaginaria età dell’oro culturale, si potrebbe riconoscere una qualche validità, per quanto essa si ponga in forte antitesi con il movimento novecentesco dell’attivismo pedagogico, centrato, appunto, sulle dimensioni dell’apertura all’esterno, se non fosse che l’immagine che vi si collega, per quanto nobile e nobilmente tratteggiata, nasconde due vizi di fondo, che la compromettono con l’odiato mondo dell’economia: il primo consiste nel fatto che quella scuola, diventando apparato di massa, finisce con l’assumere la figura di azienda, la più grossa e potente del comparto socio-culturale del paese; il secondo, che al primo si collega, sta nella sua disposizione ad esercitare, in chiave economico/industriale, dentro ad un comune orizzonte di interesse, il rapporto che da secoli la stringe all’editoria libraria.

La colonizzazione editoriale della scuola

E qui interviene il secondo spunto che traggo dai materiali dello Scaffale. Si tratta di un mio sintetico contributo ad un’opera collettanea, del 1984, intitolata Il destino del libro.
La svolta dal legislativo all’esecutivo di cui ho appena detto non è senza conseguenze e nemmeno senza motivazioni profonde riconducibili alle politiche editoriali del decennio preso in considerazione. Per capirne la sostanza e i risvolti (i cui effetti sono ancora in atto, almeno in parte) occorre rapportarsi al forte impulso alla scolarizzazione prodotto dalla riforma della scuola media (1962), e alla conseguente immissione massiccia nel comparto scolastico superiore di forza lavoro giovanile limitatamente preparata al compito di far fronte a grandi utenze sia tradizionali sia nuove. L’editoria scolastica nazionale non si fa sfuggire questa occasione e investe con generosità su un duplice traguardo di ‘colonizzazione scolastica’: produrre e diffondere una manualistica culturalmente e didatticamente aggiornata, sostenere e accompagnare il compito professionale della docenza. In assenza da altri concorrenti (la formazione universitaria degli insegnanti era di là da venire, mentre sindacati, partiti e associazionismo erano meno interessati alla componente tecnica e più a quella politica della figura di docente) sia l’uno sia l’altro obiettivo vengono rapidamente ed efficacemente raggiunti, con reciproca soddisfazione della scuola, che trova un alleato ‘ricco’ e ‘disponibile’ e dell’editoria che occupa e consolida un mercato ‘garantito’.
Un corollario tutt’altro che marginale di questo movimento, il cui significato va ben al di là dei confini della cultura scolastica, è la forte azione di svalutazione critica che la produzione editoriale di tipo educativo conduce, in quegli anni, nei confronti dell’azione, considerata di disturbo, dei grandi mezzi della comunicazione di massa, la televisione in primo luogo. Una parte considerevole della letteratura pedagogica del decennio si dedica infatti alla sistematica svalutazione di ogni altra forma di acculturazione che non rientri nei noveri dell’alfabetismo e dunque non corrisponda alle caratteristiche di un sapere scritto e stampato, rigidamente assunto come unico parametro fondante la cultura di livello superiore. Operazione agevolata, questa, dalla inveterata diffidenza, inscritta nell’intimo della nostra tradizione culturale, nei confronti di tutto quanto porti sapore o odore di tecnicalità e dalla corrispondente azione interessata a nascondere, anche rispetto all’azione pedagogica, la peraltro esistente e corposa componente tecnicale, specificamente cognitiva, del medium stampa. Molto interessanti risultano, su questo fronte, le osservazioni che Vanessa Roghi dedica allo sviluppo e alla crisi del rapporto fra tecnica e politica così come risultano, nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Novanta, all’interno dell’impegno didattico e pedagogico di Mario Lodi (Il passero coraggioso. Cipì, Mario Lodi e la scuola democratica, Bari-Roma, Laterza, 2022): vero è che l’orizzonte è quello della prima scuola, ma sbaglieremmo se intendessimo trascurare i movimenti di comunicazione sotterranea che segnano gli andamenti della cultura scolastica, al di là dei livelli, delle età, degli ambiti in cui si manifestano.
C’è un altro aspetto che andrebbe messo in luce, dentro il fenomeno anni Ottanta della colonizzazione editoriale della scuola. Esso ha a che fare con una componente culturale ed una materiale. Designandole sinteticamente parlerei di ‘enciclopedia’ e di ‘carta’, indicando con il primo termine l’ambizione e racchiudere e sancire con la ‘forma libro’ una visione il più possibile organica, compiuta, totale del sapere da fornire (a docenti e allievi), e indicando con il secondo l’impegno a tradurre fisicamente, attraverso un forte incremento della foliazione dei manuali, questa visione tendenzialmente ‘completa’ degli ambiti di disciplinamento della conoscenza scolastica. Si tratta del precipitato locale del tentativo generale, messo in atto dall’editoria nazionale, e destinato ad un plateale insuccesso, volto a fagocitare e dominare quell’insieme di umori scientifici, tecnologici, artistici che andava mutando profondamente il quadro del sapere collettivo (d’élite e di massa) proprio nel trentennio Settanta/Novanta e che avrebbe agito da sfondo e volano all’interno della rivoluzione sensoria ed epistemologica destinata a svilupparsi con l’avvento dei media digitali. Ne ho fatto cenno in Zona franca. Per una scuola inclusiva del digitale, Roma, Armando Editore, 2019, chiamando in causa, alla nota 52, le due ‘imprese editoriali anomale’ dell’Enciclopedia Einaudi (per il mondo extrascolastico) e de Il materiale e l’immaginario dell’editore Loescher (per l’universo scolastico), accomunate dalla stessa ambizione di tradurre in carta, in modo finito, quella tensione al non finito e non chiuso, dunque ad un sapere enciclopedico sempre aperto e in movimento che solo la rete riuscirà a realizzare, con effetti disastrosi per l’editoria stessa che si vedrà sottrarre nel giro di pochissimi anni una delle più tradizionali e redditizie risorse e che, di conseguenza, farà di tutto per mantenerne la sopravvivenza dentro l’ambito della scuola.
Ed eccoci all’oggi e alla paradossale, inaspettata ‘apertura’ della scuola che la rete sta attuando, complice il Covid.

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