Massimo Ilardi

Asfalto intende aprire un focus sugli anni Ottanta del Novecento. Gli anni del grande mutamento sociale e antropologico che ha investito l’Italia e che ha modificato profondamente gli immaginari, le mentalità, le culture, le vite di uomini e donne. Un mutamento, di cui i nostri tempi sembrano essere gli eredi diretti, molto spesso sconosciuto o sottovalutato dalla ricerca sociale e dal pensiero critico e sul quale Asfalto ha deciso invece di riflettere e di intervenire perché ritiene che la lettura del presente, di questo presente, passa attraverso questo “balzo di tigre nel passato”. Ma non dobbiamo raccontare quei tempi lontani con tutta la coda dei fatti (lasciamo questo ingrato compito agli storici) dobbiamo invece, come afferma Walter Benjamin, riuscire a riempirli dell’adesso. Ma adesso vorrebbe dire però solo pandemia e guerra, o, peggio, quel pensiero unico e conformista che si allinea e si spalma senza dubbi o incertezze prima sul virologo di turno e ora, per quanto riguarda la guerra in Ucraina, sulle direttive dell’Europa o della NATO o sugli ammonimenti del presidente Mattarella e che pretende che tutti siano allineati e coperti dietro le loro disposizioni che si trasformano così in veri e propri dogmi di fede (esemplare in questo caso è il comportamento del segretario del PD Enrico Letta, detto anche “signorsì”, perché mai dalla sua bocca esce un diniego o  almeno un distinguo rispetto alla decisioni europee o atlantiche). Questo adesso non ci interessa e non per il fatto che il connubio tra pandemia e guerra non sia drammatico e coinvolgente ma perché vorremmo andare oltre lo spettacolo farsa che organizzano quotidianamente istituzioni e mezzi di comunicazione. Qui uno stato di emergenza e di eccitazione continuamente evocato diventa il contesto imprescindibile dove inserire leggi, regole, ordinanze e soprattutto notizie ripetute in maniera maniacale e sempre uguale, senza cioè quel naturale distacco che esigerebbe un giudizio critico (esattamente il contrario di quella idiozia fanciullesca che si appella al “senza se e senza ma”), per coinvolgere e controllare una società che, tra l’altro, ed è questo l’aspetto che invece ci interessa, è già di per sé continuamente immersa in ossessioni apocalittiche, in attese escatologiche, in pratiche edificanti, in emozioni angosciose e dentro una tirannia dei valori attraverso i quali pretende di interpretare il mondo e giudicare la realtà. Altro che società disincantata come qualcuno azzarda ancora ad affermare! A innescarle e a fomentarle queste ossessioni emotive ha contribuito proprio quel grande mutamento di cui prima si accennava.

Tra l’altro e per inciso questo connubio tra pandemia e guerra non è nuovo perché già nei secoli passati l’umanità ha dovuto affrontarlo più volte. Basti pensare alla guerra dei Trent’anni nella prima metà del Seicento con la diffusione della peste in Europa o alla prima guerra mondiale con la propagazione a livello mondiale del virus della ‘spagnola’ con conseguenze ben più gravi delle attuali.  La novità oggi sta appunto nel passaggio dalla tragedia, vissuta dalle popolazioni direttamente colpite, allo spettacolo della tragedia stessa su cui precipitano gli appetiti di televisioni e stampa. Comunicazione e società è dunque l’altro connubio esplosivo e dannoso nei modi in cui sta avvenendo e che non ha nulla da invidiare al primo.

Ma ritorniamo agli anni Ottanta per riflettere sull’origine di alcuni nostri attuali comportamenti: è in quegli anni che assistiamo infatti all’ascesa di un dominio assoluto delle passioni e delle emozioni che oggi ci irretiscono per la loro banalità e inconsistenza; alla crisi di una razionalità politica, fondata sul dubbio e sul disincanto, che metta in guardia sia dal semplicismo dei sentimenti rappresentato allora dalla esaltante scoperta del privato e in questi tempi da un legalismo, per certi versi sorprendente per il popolo italiano, alimentato dalla paura e dalla angoscia, e  sia da un  pacifismo generico e pericoloso perché basato ancora una volta sulla isteria delle emozioni impotenti però a contrastare le dure repliche della politica di potenza rispetto a cui agiscono gli Stati e della natura umana egoista e aggressiva rispetto a cui si muovono uomini e donne; all’emergere di un individualismo che non trova altri sbocchi oggi come allora se non in un narcisismo esasperato che si autoalimenta nell’assenza di un confronto/scontro con l’agire politico l’unico che, nella contrapposizione, gli potrebbe garantire la forza e la direzione di una scelta. Anni però non solo del ‘grande freddo’, come si ostina a rinchiuderli frettolosamente un pensiero critico che definirei bipartisan, ma anche anni complessi e contradditori che hanno visto il tramonto della figura del cittadino produttore e militante insieme all’emergere di un individuo consumatore e distruttore di merci, identità, affettività, relazioni; il fallimento dell’idea di rivoluzione e della mancata nascita di un nuovo potere costituente insieme però all’esplodere nelle metropoli occidentali di numerose e violente rivolte sociali che affossano l’epoca dei movimenti e che non hanno nel loro mirino l’abbattimento del sistema, dal quale neanche disertano, ma, al contrario,  ci nuotano dentro come pesci puntando non alla sua eliminazione ma al suo sfruttamento;  l’avvento di una rivoluzione dei consumi in tutti i sensi accompagnata da una domanda di libertà che non ha precedenti e che non vuole responsabilità e impedimenti nella soddisfazione dei desideri e che solo dalla sua pratica può emergere un individuo nella sua irripetibilità e contingenza; la crisi dell’agire politico, seguita al ridimensionamento dei partiti e alla erosione dell’istituto della rappresentanza, accanto alle occupazioni illegali di spazi, non solo da parte delle culture antagoniste prodotte dai centri sociali e dai rave illegali ma anche dalla massiccia immigrazione clandestina che fa della libertà di movimento il presupposto della sua sopravvivenza; la fuoriuscita dalla società del lavoro e dalla sua etica accanto all’emergere della nuova produzione intellettuale che non richiede più al lavoro né onorabilità né  dignità; la riconquista della centralità del territorio perché è qui che si proiettano e si materializzano i desideri di una società del consumo orfana del futuro e di conseguenza è qui che si definisce oggi il nemico, si riconosce la parte, si individuano le differenze, si separano le diversità, si innescano i conflitti non solo quelli all’interno degli Stati ma anche tra gli stessi Stati perché dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della ‘guerra fredda’, combattuta soprattutto a livello economico e mediatico, il territorio torna essere centrale nello stabilire i rapporti di forza internazionali, e dunque torna a servire come bottino di guerra. E tutto questo insieme all’esplodere della realtà virtuale e digitale che rivoluziona gli strumenti e le modalità della comunicazione ma non intacca la centralità del territorio per la risoluzione dei conflitti.

In altre parole, quella che è stata sconfitta in quel decennio è la contesa sul tempo; quello che ci lascia in eredità è lo spazio come fondamento di ogni conflitto sociale e progetto politico di cambiamento.

È necessario e importante, infine, sottolineare che questa mutazione che ha investito tutti i campi dell’attività umana, dall’arte al cinema, dall’architettura al teatro, dalla pubblicità alla musica, è stata possibile proprio perché figlia di quella ‘famigerata’ e ‘vituperata’, così si esprime ‘senza se e senza ma’  ancora oggi l’establishment  politico e mediatico, stagione di conflitti, di violenza, di innovazioni culturali e dell’emergere di inconsuete soggettività che sono stati gli anni Settanta del Novecento che hanno proiettato sugli anni a venire la loro carica dirompente sfociata poi in quella mutazione antropologica su cui questo magazine ha intenzione di riflettere.