Fabio Tarzia

Non sappiamo come si sentisse un cittadino ateniese di ritorno da una faticosa giornata tutta dedicata alla visione di una trilogia tragica. Certo, c’era il dramma satiresco posto a chiusura del tour de force psicoanalitico, con il compito istituzionale di favorire la risalita dall’incubo, come in una camera di decompressione, ma tradimenti, ammazzamenti, emersioni dei più biechi sentimenti umani, delle più oscene e insospettabili passioni nascoste non erano cose da poco, da mandar giù quasi fossero acqua fresca.

Sappiamo però come si sente oggi un normale spettatore televisivo o cinematografico, soprattutto italiano: bene, molto bene. Lo schermo emana e contemporaneamente ingoia incubi, li esorcizza, li allontana. Finita la dose omeopatica di oscurità non resta che andarsene al pub (almeno finché lo si poteva fare) per concludere in bellezza la serata di defatigamento dalla noia quotidiana del lavoro o della mancanza di esso. Nel frattempo, i tg continuano a raccontare storie in cui i fatti di cronaca e di detection appaiono piuttosto chiari: i bambini, le donne, gli indifesi vengono sacrificati, ma alla fine tutti sentono che quel loro sacrificio non è stato invano: immolarne uno per salvarne molti, certi che il male, l’impuro, sia qualcosa di esternalizzabile. Così in fondo, alla fine, i colpevoli si trovano e si puniscono: e se vengono a mancare c’è sempre la possibilità di riferire tutto al “grande complotto” che solleva i singoli dalle responsabilità individuali.

A rifletterci un po’, viene automaticamente da ripensare ai nostri antenati greci e ai loro strani rituali collettivi. Quell’incubo organizzato che era la tragedia greca non serviva a proiettare l’impuro su personaggi estranei, ma a riconoscere come propri quegli elementi devianti, ad accettarli per sintetizzarli, inglobarli, in una incredibile fase della civiltà umana in cui si può forse ancora accettare di avere il “male” in se stessi, e dunque di essere “male”, in cui lo sforzo principale non sta nel compiere ogni tentativo possibile per negarlo, attribuendolo all’altro fuori, all’alieno. E’ la grande differenza che passa tra il mondo greco-cattolico-europeo, almeno alle sue radici mentali e culturali, e quello calvinista americano: il primo pone l’oscuro in piena luce, o lo riporta direttamente alla fonte creativa del cuore di ognuno di noi, mentre il secondo lo sotterra, fa finta che non sia mai esistito; e se proprio non può fare a meno di evitarlo lo abbina al “selvaggio”, al terrorista, al comunista, e spesso al cittadino di serie b, magari di pelle un po’ “abbronzata”, o anche a qualche senatore di Washington impegnato tutto il giorno a tramare contro il povero agricoltore del mid-west.

Da Boccaccio a Philip Roth

Tale nodo profondo, quello che il Philip Roth di Pastorale americana ci ha svelato come il grumo irrisolto e nascosto di una intera civiltà, riposa ormai stabilmente dentro l’italica nazione. Bisognerebbe ammettere che non è stato sempre così. C’è un nocciolo primordiale nello “spirito” del bel paese che ha trovato una sorta di via di mezzo, di compromesso per essere tragici senza apparire tali. Lo ha inventato un toscanaccio vissuto sette secoli fa che si chiamava Giovanni Boccaccio, capace di buttarla in commedia come pochi, ma senza mai smettere di far riflettere sull’orrore agente dentro se stesso e i suoi lettori. C’è una linea sommersa e sottilissima che arriva quasi, dico quasi, fino a noi. In fondo Pasolini oltre a Euripide praticava spesso e volentieri proprio il genio di Certaldo. Ma soprattutto, e proprio in quegli anni, è la grande industria culturale, quella del cinema, che rifacendosi appunto a tali primordi, si ingegna di mostrare qualcosa che riguardava tutti, che faceva veramente schifo, ma che al contempo produceva anche un salutare sorriso: oggi la conosciamo come commedia all’italiana. Un paese diretto a tutta velocità verso un burrone, da cui solo i più cinici e osceni pagliacci si sarebbero salvati (sarebbe una bella trama per un film, questa!). Quell’orrore riguardava, tragicamente, tutti, solo che il dramma satiresco era per così dire incorporato: non funzionava come una appendice. Straordinaria invenzione di un paese che sconvolto da conflitti profondi, produce geniali rappresentazioni di quel conflitto, senza mai cedere a facili soluzioni terapeutiche e rassicuranti.

Dove è finito oggi quel senso del tragico, o meglio del tragicomico? Non lo so. Un po’ ci ha pensato Muccino. Un po’ ci ha pensato il presidente Ciampi, da quando per rispondere alle spinte centrifughe della orrenda lega bossiana, decise di intraprendere una micidiale campagna di “ri-nazionalizzazione” di un paese che dal crollo del fascismo in poi ne pareva immune, e che solo nei momenti veramente importanti, cruciali, ritrovava se stesso, come nei due straordinari protagonisti della Grande Guerra. Da allora l’implacabile ondata del senso comune (questo alla fine è il neo-nazionalismo italiano) ci ha ormai sommerso.

Esso si basa su una idea irrazionale di nazione contrapposta a quella razionale e scomoda di Stato. Non che non sia presente negli altri mondi che ci circondano: in America, in Russia, in Francia. Solo che lì è un elemento costitutivo, e dunque ben dosato, digerito, mentre da noi è un fattore artificiale iniettato a posteriori. L’esternalizzazione del male a scopi terapeutici e la sacralità collettiva della nazione producono il disastro, l’orrore avrebbe detto Conrad.

Pensiamo solo a un piccolissimo particolare linguistico: il trattamento del male nel quotidiano storytelling giornalistico.

Sacrifici e immagini liberatorie

Gli stupri di gruppo sono sempre opera del “branco”, cioè non di normali ragazzi della nostra società ma di animali; le azioni più perverse e oscene, in particolare quelle pedopornografiche, riguardano orchi post-moderni, dunque esseri “lontani” persi non più nel bosco ma nelle nebbie della rete. D’altro canto, i parenti delle vittime di queste vicende sono sempre denominate in modo da richiamare la comune appartenenza a una comunità immaginata in cui i sentimenti buoni e primordiali dovrebbero bastare a unire le persone: le madri così sono sempre “mamme” e a volte, a rimandare a denominazioni fiabesche (“mamma oca”), il titolo precede il nome proprio, così da generare un coinvolgimento maggiore (“mamma Giulia e papà Alfonso”). Perché ci sia comprensione delle motivazioni profonde di un fenomeno c’è sempre bisogno di un distacco razionale, di una spietatezza di pensiero, mai di un coinvolgimento emotivo fine a se stesso, che anzi ottenebra le capacità di indagine.

Ho sempre pensato che la terribile fotografia del bambino migrante morto sulla spiaggia non avrebbe condotto a nessuna vera riflessione sul dramma dell’immigrazione, come ci volevano far credere, perché quello scatto non era seguito da una razionale disamina del perché quel bambino si trovasse lì, ma preludeva solo a una sorta di universale solidarietà istintiva delle mamme e dei papà di tutto il mondo, che in se stessa si estingue una volta finito l’impatto emozionale, e anzi utilizza inconsciamente quell’evento come rituale sacrificale e liberatorio.

Confesso che per un attimo, in un eccesso di masochismo, ho sperato che l’odierna vicenda pandemica potesse riportarci a una presa di coscienza collettiva. E’ un disastro, ma almeno ci farà riflettere! Come esternalizzare il male quando è impossibile guardarlo dall’esterno? Una pandemia, alla fine, si chiama così perché ci riguarda tutti!

E’ incredibile, ma i meccanismi costruiti in 50 anni di lavoro funzionano benissimo anche in questo contesto. La pandemia così diventa una guerra e non un evento naturale causato dalle conseguenze di una globalizzazione senza regole, a sua volta frutto di un sistema economico sfuggito di mano e al quale tutti (o quasi) in occidente concorrono. Se è una guerra, è stata dichiarata da qualcuno e quel qualcuno è il virus, una entità malvagia, morale, assoluta che vive al di là del tempo e dello spazio e che per motivi non ancora del tutto chiariti vuole impossessarsi dei nostri corpi in modo subdolo e intelligente (sa mutare, sa adattarsi, “è furbo” come le creature aliene dei racconti americani degli anni ’50 e ’60). Come combatterlo? Certo attraverso un comportamento responsabile di tutti (non familiarizzate con il nemico, compatrioti!), ma soprattutto grazie all’apporto di eroi che si battono e si sacrificano nella prima linea delle corsie d’ospedale, e a équipe specializzate di tecnici che come nel migliore film catastrofico americano sopraggiungono al momento opportuno per salvare il mondo.

D’altro canto un altro incredibile racconto lavora sugli stereotipi opposti: il solito non meglio definito complotto vuole controllare gli individui consumatori e liberi inserendo nei loro corpi (altro che virus) mirabolanti microspie. Oppure, a un livello di superiore analisi riferibile al materialismo storico de noantri, il complotto è teso alla limitazione della libertà individuale, ad abituarci ad essere tutti un po’ più schiavi, un po’ più pecore, sottomesse al capitale.

La pandemia non ci ha insegnato nulla

C’è poi il terzo racconto, quello basato sulla sottile soddisfazione di vivere finalmente un grande evento catastrofico che una volta superato rigenererà il nostro mondo: la comparazione con la guerra è qui ormai familiare: il più grande disastro dalla seconda guerra mondiale, come se due eventi del genere fossero comparabili.

Insomma, duole ammetterlo, ma la pandemia conferma tutti gli schemi precedenti: viviamo in un mondo pericoloso che tuttavia, pur sottoponendoci a prove terribili, persino collettive, ci fortifica, attraverso l’apporto della nostra incredibile forza d’animo che ci viene dal sangue della nazione e dall’azione dei nostri magnifici eroi: il male è forte ma una sorta di giustizia universale ci consentirà di sconfiggerlo.

La domanda sorge allora spontanea. Ma se neanche una catastrofe del genere riesce a farci recuperare un sano e fertile senso del tragico, cosa lo potrà mai fare?

E la mente va sempre al finale, quello sì veramente catastrofico, della Coscienza di Zeno. Sebbene malconci, usciremo da questa pandemia. Ma se fossimo invece entrati in un’era di pandemie a ripetizione e concatenate? Naturalmente non me lo auguro. Solo in quel caso però l’evento catastrofico non potrebbe più essere trattato con i normali strumenti esorcistico-narrativi e ci costringerebbe a un ripensamento complessivo della nostra civiltà e delle forme rituali della gestione dell’impuro. Ad ammettere finalmente che quell’impuro siamo noi.