Il magazine Asfalto che qui si propone ha tre obiettivi:
-il primo è di uscire dal monopolio della dimensione economica che come un passepartout vuole spiegare tutto ma che non è più sufficiente a fornire, ad esempio, motivi credibili della mutazione antropologica avvenuta, della distanza sempre più crescente tra territori e politica, di una violenza sociale senza conflitto che sta attraversando le nostre città, di una pratica di libertà che non conosce regole e responsabilità;
-il secondo è di riuscire a leggere il territorio (da qui il nome dato al magazine) e le figure sociali che lo vivono per quello che sono realmente e non per quello che si vorrebbe che fossero. Questo vuol dire che non è possibile fare ricerca sul territorio, che è una vera e propria categoria del pensiero politico, senza porsi la questione dei rapporti reali di potere, della irriducibilità del conflitto, della decisione, della differenza, dell’emergere o meno di nuove soggettività. Auspicare, ad esempio, o, peggio, pretendere che il territorio sia da considerare un bene comune o che la natura umana sia forgiata da un’ossessiva ricerca dell’Altro sono utopie vane che se portate avanti però con ostinazione e caparbietà senza tener conto di ciò che accade nel mondo reale che si struttura invece ed esclusivamente in connessione ai diversi rapporti di forza che di volta in volta vi si esercitano, vuol dire trasformarle da utopie inoffensive in distopie pericolose e dannose per un pensiero critico che cerca di andare oltre il conformismo linguistico e di contenuti;
-il terzo, conseguente a queste due prime operazioni, è quello di esercitare una forte critica a tutti i consueti cliché del politicamente corretto che imperversano sia nei settori politici e istituzionali, sia in quelli della comunicazione fino ad approdare all’area dell’opposizione sociale. E non ci si dica che, all’origine, a produrlo (come afferma Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 4 aprile) siano la nostra poca conoscenza della storia, l’assenza di senso storico e di conseguenza una mancata relativizzatone dei nostri criteri morali che invece proiettiamo così come sono sul passato fino a portarci all’abbattimento delle statue di Colombo e di Churchill perché considerati razzisti. La sua origine è ben più grave e riguarda solo in parte la storia (quando mai la storia ha insegnato qualcosa!) ma l’abisso in cui è precipitato un pensiero politico disorientato e agonizzante che per sopravvivere si aggrappa ormai a Valori che propongono addirittura una morale universale per la realizzazione dell’uomo.
Letteratura, cinema, arte, architettura, comunicazione (TV, stampa, social), ricerca politica e sociale saranno messi al vaglio del magazine e delle sue indagini, corredate sempre da un forte apparato iconografico, per cercare di decostruire un atteggiamento mentale che sta penalizzando ogni tentativo di mettersi fuori da un pensiero unico divenuto asfissiante con i suoi valori assoluti e universali, con i suoi imperativi morali indifferenziati e generici, quali la partecipazione, l’altro, l’umanità, la comunità, i beni comuni, l’interesse generale, l’unità. Universali che andranno pure bene per stabilire diritti, aderire a una fede, costruire regole economiche e soggettività astratte, ma non per rimettere al centro delle nostre vite un pensiero politico reso ancora più urgente dalla situazione di emergenza che stiamo subendo. Il risultato è che siamo rimasti senza politica e senza Stato appunto perché gli universali non producono mai politica e Stato ma solo un grande e confuso calderone dove tutti senza distinzione possono sguazzare allegramente (il governo Draghi ne è un esempio eclatante). Il magazine non è certamente contro questi valori universali ma contro chi pretende che questi stessi valori siano all’origine del conflitto e fondamento di un’azione politica.