Emiliano Laurenzi

La piazza e la strada sono costrutti che hanno una loro complessa articolazione e vivono di molteplici dimensioni – architettoniche, politiche, militari, sociali, economiche, religiose. Il permanere millenario di queste caratteristiche, tutte in grado di intersecarsi fra loro, non ha mai smesso di funzionare. Ai giorni nostri, in barba ai profeti della deterritorializzazione, tutti questi aspetti continuano a costituire, nella loro materialità, ma anche nella loro valenza metaforica, lo snodo dei più disparati conflitti di potere. Le ritroviamo nella produzione di mitologie e narrazioni, come luoghi cogenti dello scontro politico, quali dimensioni del controllo sociale o scenari del potere religioso. Entrambe, inoltre, sono funzionali alle più differenti strategie; sono spesso sinonimi di fenomeni fra loro opposti e raramente univoci: piazza del mercato, del rogo o della riunione civica, luogo di reclusione e di assembramento; strada della processione, della manifestazione, della barricata e della carica di cavalleria o della celere. Agorà telematica o gabbia social, infinita rete stradale dell’informazione, o autostrada informatica a pedaggio. Sono evidentemente due costrutti altamente polisemici che neanche la più “dura” delle dimensioni che le animano, l’architettura – con la sua capacità di scolpire lo spazio, plasmare la mobilità, selezionare i materiali, in qualche modo cercando di dare forma a tutti gli altri aspetti – riesce a costringere in un’unica dimensione.

Piazza e strada: un’opposizione radicale

Fin dai loro albori fra la piazza e la strada c’è stata un’opposizione radicale, di cui gli immaginari portano ancora memoria e che sottotraccia ne determinano ancora, sostanzialmente, due rappresentazioni se non proprio antitetiche, per certi versi divergenti. Per lungo tempo si è creduto che l’opposizione fra strada e palazzo fosse il vero nodo gordiano di ogni conflitto – declinato in tutti gli aspetti che connotano strada e piazza – ma come da ormai quasi mezzo secolo possiamo osservare, i luoghi fisici del potere tendono a divenire sempre di più meri simulacri rituali, quanto più i processi del potere, in quanto concrete capacità decisionali di incidere sulle vite, li abbandonano.

A gennaio di quest’anno una folla inferocita ha occupato la Casa Bianca nel bel mezzo del momento più delicato per qualsiasi Stato, cioè il trasferimento dei poteri, ma questo gesto, formalmente un tentativo di golpe, non ha avuto riflessi sostanziali. Durante l’attacco alle Torri Gemelle il presidente americano fu prima trasferito in un luogo segreto, e poi messo sull’Air Force One, un aereo: la negazione più puntuale del “palazzo”. Neanche il Cremlino è più quell’incarnazione così orientale dell’opposizione fra strada e palazzo, e non a caso ad inscenarne la potenza è la piazza Rossa. I palazzi sono oggi niente altro che metafore, esoscheletri svuotati della polpa del potere, di cui rimangono solo le vestigia. Oggi nessuna presa di nessun Palazzo d’Inverno si tradurrebbe in una rivoluzione. Il palazzo, semmai, incombe come proiezione della stessa piazza, ne è la sua dimensione occulta. Perché è qui che si giocano ormai da decenni le sorti dei conflitti. Il vero vano nascosto nel quale il bagaglio retorico della democrazia liberale contrabbanda la sostanza dura del proprio potere – quella normata nello stesso diritto, il quale sancisce infatti prerogative da esercitare, cioè modi di operare, e mai luoghi fisici – è proprio la piazza. Non a caso le decisioni vere e proprie erano prese, in quell’Atene schiavista che ci si ostina a considerare la culla della democrazia, sulla collina Pnice, a strapiombo sull’Agorà – l’archetipo della piazza – nella quale, guarda caso, si decidevano invece esclusivamente i procedimenti di ostracismo.

Quando si correva il rischio della critica

La strada, nell’opposizione accennata sopra, è stata invece fin dai suoi albori luogo del movimento, dell’avventura, dell’incontro ed anche del rischio, della necessità di poter esercitare un certo gradiente di violenza, organizzata o meno. Soprattutto, la strada e i suoi incroci sono luoghi di crisi, o, detto in altri termini, passaggi obbligati nei quali si deve saper esercitare il criterio, la capacità di discriminare. La strada è costitutivamente luogo di critica, in questo senso, perché obbliga per sua costituzione a doversi orientare. Non a caso il massimo esercizio di critica è aprire nuove strade. Nel momento in cui la comprensione di una geografia, intendendo questo termine nella sua accezione più larga, come conformazione orografica, sociale, politica o economica, sfocia in un discernimento nuovo che appunto inaugura un nuovo modo di percorrerla. Alle radici di questo termine esiste quindi un elemento di inquietudine. Sia perché la strada si avventura al di fuori delle mura cittadine, in territori esposti ai pericoli – da quelli meteorologici a quelli animali, fino agli assalti dei briganti – sia perché inevitabilmente richiede di prendere decisioni che letteralmente indirizzano la vita verso direzioni diverse. A questo elemento perturbante, infatti, si lega la presenza, nei crocicchi delle statue, di Ecate, divinità di origine pre-indoeuropea, a metà fra il regno dei morti e dei vivi e quello degli uomini e degli dei, figura assai inquietante, trasformata dal sincretismo cristiano nella solita madonnina presente agli incroci.

La strada, inoltre, è stata per secoli anche elemento di potere. Perché se ha voluto dire attraversare luoghi selvaggi e lontani e confrontarsi con l’ignoto, ha voluto dire anche, e ancora oggi vuole dire, spostare uomini e mezzi, collegare territori, rendere più facile lo spostamento degli eserciti, favorire i commerci. È dalla considerazione dell’impianto stradale dell’Impero romano che prendono avvio, fin dal maestro di Marshall McLuhan, Harold Innis, le prime riflessioni sul ruolo della comunicazione. Questa dimensione della strada, oggi, si è duplicata, conservando per altro gli stessi elementi caratterizzanti: fra le strade fisiche e quelle telematiche, il parallelo è perfettamente calzante, anche per la considerazione, banale, ma alla quale raramente si pensa, che le connessioni internet non viaggiano in un etere fantasmatico, ma sono veicolate da cavi che ormai avvolgono il pianeta e che si dipanano come vere e proprie strade, sebbene principalmente sul fondo dei mari.

L’ipertrofia della rete

La strada, almeno nel nostro paese, da lungo tempo non produce più alcuna dinamica di conflitto, asservita alla sua dimensione consumistica. In questo, probabilmente, scontiamo secoli di spettacolarizzazione religiosa della strada, in particolare urbana, ma non solo. La sua controparte di rete, invece, pare essere affetta di un processo di ipertrofia tale da far perdere ogni senso alle singole modalità in cui è usata – il famoso collasso dei contesti – in un bailamme di istanze difficilmente interpretabili come potenzialmente conflittuali, e anzi, probabilmente, funzionali al depotenziamento del conflitto stesso: una sorta di due minuti d’odio protratti. D’altra parte, in modo contro intuitivo, quanto più cresce la quantità e la percorribilità delle strade, quanto meno queste risentono di quell’aura di inquietudine e di pericolo che le connotava e dunque del loro valore critico. Per altro, basta avventurarsi in percorsi più isolati, per recuperare immediatamente questo senso di potenziale pericolo, ma anche di estrema solitudine, che è il contrario del conflitto moderno. Allo stesso tempo, nelle megalopoli contemporanee ipercontrollo e ipercomplessità si nutrono a vicenda, e riuscire ad intaccarne il funzionamento occupando, bloccando, presidiando o attraversando strade, diviene assai complesso, specialmente per il progressivo specializzarsi, parallelo a quello delle istanze di rete, delle tattiche di controllo e di repressione. La chiave di volta di questa sottrazione di incisività del conflitto “di strada” è la scomparsa dei luoghi fisici del potere.

Consumo vs potere

E qui torniamo alla piazza. Negli ultimi decenni l’immaginario dell’opposizione ha individuato nella piazza il luogo della propria rappresentazione e rappresentanza, recuperando la più autentica tradizione nostrana di piazza civile. Ma questo ha voluto dire ogni volta, in modo sistematico e tragico, repressione, controllo, arresti, contenimento, sterilizzazione. Guardiamo al decennio appena trascorso: le piazze che hanno inteso costituirsi come luoghi di aggregazione – con l’idea stantia di mostrare “quanti siamo” (senza pensare a quanto facilmente questa proposizione sia letta dall’apparato repressivo in termini di obiettivi disponibili) – e che si sono trasformate in perfetti luoghi di repressione, è eloquente. Egitto, piazza Tahrir, 2011; Stati Uniti, Wall Street-Zuccotti Park, 2011; Turchia, piazza Taksim-Gezi Park, 2013. Tre piazze tatticamente folli in un’ottica di scontro, e politicamente fallimentari, sia per le ambiguità che le hanno attraversate, sia per l’inconsistenza delle piattaforme rivendicative. Se infatti il conflitto di strada può anche essere privo di rivendicazioni politiche, sconfinando nella devastazione e nel saccheggio, la piazza, implicitamente, vuole essere luogo di affermazione politica. Questa carenza ha mostrato come in realtà, per i dimostranti, la piazza fosse semmai più simile a un centro commerciale che contiene le merci per soddisfare i desideri di ciascuno.

Se da un lato la strada soffre di ipertrofia consumistica, e le forme di conflitto che produce sono essenzialmente dedite al saccheggio – individuando così il vero luogo di scontro, il mercato, pur senza la capacità di elaborare piattaforme politiche – il vero spettro nero è la piazza, dove ci si illude di poter rappresentare proposte politiche, mentre al contrario ci si costituisce come officianti di logore celebrazioni o meglio come vittime volontarie dell’illusione democratica, gregge fisico e mediatico ammassato per la tosatura.