Emanuele Piccardo

Campo Profughi di Jalozai , Peshawar, Pakistan, Ottobre 2001

Ufficio Richieste Visto di Transito per le zone Tribali , Peshawar, Ottobre 2001

Miliziano Dell’Alleanza del Nord, Confine di Torkham tra Pakistan e Afghanistan, Novembre 2001

Kabul dalla finestra del mio albergo, Novembre 2001

Periferia di Kabul, Novembre 2001

Kabul, Novembre 2001

Periferia di Kabul, Novembre 2001

Check Point di Miliziani dell’Alleanza del Nord all’entrata di Kabul, Novembre 2001

Carristi  dell’Alleanza del Nord preparano l’attacco finale ad un Villaggio ancora in mano Talebana, Maidanshahr Village, Kabul, Novembre 2001

Ex base carri armati Talebana , Kabul, Novembre 2001

Andrea Dapueto, è un fotografo di reportage. A metà degli anni novanta lavora per i quotidiani, poi la conoscenza dei grandi autori, in particolare Gianni Berengo Gardin, gli aprono la mente per orientare la propria ricerca sui fenomeni sociali contemporanei. Nel 2006 vince con il progetto “Camere con vista”, una ricerca sulla prostituzione negli anfratti ai bordi delle strade italiane, il Premio Marco Pesaresi. Lo abbiamo incontrato nella quiete della sua casa in campagna per parlare del viaggio che nell’autunno 2001 compie in Afghanistan, per raccontare con la fotografia le storie di un popolo dopo l’attentato alle torri gemelle l’11 settembre 2001.

EP: Nel 2001 vai in Afghanistan dopo il crollo del WTC che ha cambiato il mondo non solo nell’iconografia mediatica ma anche nel modo di viaggiare e comportarsi…

AD: Nei miei anni precedenti tra Inghilterra e Danimarca mi avevano attratto i pochi lavori fotografici fatti in Afghanistan, in particolare a Kabul. Poi è accaduto 9/11 e tutto è cambiato. Così alla fine dell’estate 2001 ho deciso di andare in Afghanistan per raccontare la mia storia su quel popolo, curioso di vedere dal vivo com’era la situazione che in maniera omologata i media ci descrivevano. Era metà ottobre e gli americani stavano ancora bombardando Kabul. Il problema maggiore era decidere dove passare per entrare nel paese. L’unica possibilità era entrare dal fronte nord-est del Pakistan a Peshawar attraverso il Khyber Pass. Durante il mio soggiorno a Peshawar, in attesa che riaprissero il confine, ho iniziato a fotografare le manifestazioni anti-americane il venerdì dopo la preghiera alla moschea. Sono rimasto lì per quindici giorni…

EP: Nel tuo lavoro il tema del viaggio è sempre centrale, anche in questo caso… puoi raccontarci come è avvenuto l’ingresso dal Pakistan verso Kabul?

AD: In tutti i miei viaggi cerco sempre delle storie da raccontare con la fotografia. Quando viaggio e incontro le persone spesso poi divago rispetto all’idea iniziale. Mi dedico ad altri temi che all’inizio del viaggio non avevo pensato di trattare. Per poter entrare nel paese dovevo aspettare il permesso delle tribù locali. Sono andato nell’hotel dove alloggiavano i giornalisti occidentali per aggregarmi nei primi bus che partivano per il Khiber Pass. Sono arrivato di notte, ho dormito nel bus e la mattina seguente dovevo trovare un mezzo per raggiungere Kabul. Così insieme ai giornalisti, tra i quali c’era Giuliana Sgrena, abbiamo noleggiato un van con un fixer (una guida che si occupa della logistica) che ci avrebbe condotto fino alla capitale. In realtà ci siamo fermati a Jalalabad perché le strade non asfaltate non consentono di percorrere grandi distanze in poco tempo. Attraversando i villaggi, i ragazzini mettevano sulla strada le pietre per costringere le carovane di giornalisti a fermarsi per pagare una sorta di tassa, siccome molti di loro giravano con centinaia di dollari erano dunque appetibili. Nella stessa strada il giorno successivo fu uccisa la giornalista Maria Grazia Cutuli. D’altronde in quei giorni, vedendo quel paesaggio montagnoso e arido, pensavo che Bin Laden non l’avrebbero mai trovato in Afghanistan, come poi è successo…

EP: Raccontare storie è una prerogativa di una certa fotografia di reportage, come sei stato accolto dal popolo afgano?

AD:Il popolo afgano era terrorizzato dopo anni di regime talebano, con una situazione umanitaria pessima. Ovviamente molti non avevano mai visto un occidentale, sono stato accolto con curiosità da alcuni e diffidenza da altri. Volevo fotografare l’ambasciata dell’ex Urss occupata da famiglie indigenti ma la tensione era troppo alta così il fixer mi ha portato via.

AD: Qual’è il tuo approccio quando ti trovi in contesti di guerra?

Per me era la mia prima esperienza e dovevo prendere le misure. Muovendomi per Kabul ho iniziato a fotografare l’ospedale della Croce Rossa gestito da Alberto Cairo e l’orfanotrofio Children Center.

Soprattutto in condizioni estreme e di pericolo cerco sempre di essere “invisibile”, ovvero fotografare senza essere visto. Essenzialmente per due ragioni, la prima riguarda la spontaneità delle persone ritratte a loro insaputa, nella stessa modalità applicata dal grande Gianni Berengo Gardin, la seconda per evitare una rappresentazione stereotipata della realtà.

Un giorno il fixer mi informa che nella ex base talebana di carri armati, sotto il controllo dell’Alleanza del Nord, c’erano prigionieri talebani, era una occasione da non perdere.

Nei dintorni di Kabul sono stato nel villaggio di Maidanshahr nella scuola dove i capi talebani trattavano la resa con quelli dell’Alleanza del Nord, lì ho vissuto una situazione surreale dove entrambi sembravano vecchi amici. Dopo la nostra visita sulla via del ritorno hanno sparato col mortaio contro di noi… ogni situazione era potenzialmente pericolosa soprattutto per un occidentale e un fotografo…Nonostante le difficoltà logistiche sentivo la necessità di raccontare la rinascita di un popolo, una nuova “normalità”, anche nelle piccole cose quotidiane, ad esempio i giochi dei bambini o la riapertura delle librerie.

EP: Cosa ti ha lasciato l’Afghanistan?

AD: Dopo vent’anni sento ancora la curiosità che mi ha spinto ad andare in quel territorio la prima volta. Ora sono alla ricerca delle risorse per ritornare a fotografare a Kabul, ho un progetto finalizzato alla pubblicazione di un libro. C’è sempre una sorta di inquietudine nel mio lavoro che si attenua solo andando sul campo instaurando, empaticamente, una relazione con le persone per raccontare le loro storie con la macchina fotografica.