Emiliano Laurenzi
Isolare le caratteristiche che nel tempo denotano e insieme connotano una città non è mai un’operazione semplice e si rischia facilmente la banalità, in special modo in un paese come il nostro, gravato dal peso di una storia millenaria e dalle sue concrezioni architettoniche, urbane, paesaggistiche; per non menzionare quelle culturali e religiose. Da questo punto di vista Milano, e con lei il suo enorme hinterland che ne costituisce una peculiare forma estensiva, non rappresenta un’eccezione. Quello che la distingue, invece, è la sua capacità di interpretare lo spirito del tempo attuale – lo Zeitgeist verrebbe da dire- configurando in maniera storica questa sua attitudine per altro non nuova. In questo senso, di là da ogni valutazione valoriale/ideologica, è un caso forse unico in Italia, di certo l’unico se si parla delle nostre metropoli (sostanzialmente tre: Roma, Napoli e la Milano estesa, con i comuni di prima, seconda e terza fascia, e con le propaggini extra provinciali). Questa sua capacità, però, non mi sento di attribuirla, come generalmente viene fatto, esclusivamente alla sua indubbia capacità di far circolare capitali e costituirsi come capitale economico-finanziaria del paese – un fatto oggettivo, sottolineato in ogni modo possibile, ma dopotutto ascrivibile alla sua modernità otto-novecentesca. Quest’ultima attitudine storica, dovuta anche alla sua posizione geografica che intercetta gli scambi di merci e servizi sull’asse Nord-Sud ed Ovest-Est (basta dare un’occhiata alla rete autostradale per rendersene conto), riceve semmai ulteriore enfasi da una capacità che invece è oggi centrale nel delinearne l’identità
La capacità del recupero
La cifra fondamentale che identifica Milano agli albori del XXI secolo è la sua capacità strutturale di recuperare all’interno del vocabolario del capitale e dei consumi qualsiasi fenomeno sociale, includendo fra questi anche, se non soprattutto, quelli che in prima battuta parrebbero darsi come conflittuali, “alternativi”, radicali e di rottura. L’elemento catalizzatore di questo processo è l’intero spettro della comunicazione, da quella che passa via internet ai media generalisti, dall’arredo urbano alle vetrine, dalle app sviluppate senza posa ai gerghi imposti al resto del paese. Un termine chiaro che sussume in sé il senso tutto milanese di questa catalizzazione è quello di evento. Dalle sfilate di moda alle manifestazioni come la MayDay, dal più banale degli aperitivi alla cucina dei ristoranti, tutto diviene evento. Dirò di più: sono proprio quei fenomeni che ad una lettura classica sembrerebbero, appunto, di conflitto – ma anche la marginalità, il degrado, le subculture di periferia e illegaliste o para-criminali – a costituirsi, nel particolare laboratorio sociale, ideologico, economico e comunicativo che è l’humus meneghino (sussumibile appunto nel proliferare di eventi), come precursori delle nuove tendenze di mercato, degli stili di vita, in altre parole a dare ciclicamente forma a quel particolare umore vacuo in cui si sostanzia il nichilismo di fondo di qualsiasi metropoli autenticamente capitalista, come appunto è Milano. Volendo portare un esempio arcinoto di questo processo, si guardi alla trap, un connubio perfetto di immaginario da periferia, vocabolario subculturale e forme esteriori e di diffusione perfettamente patinate, tarate attraverso le più adeguate strategie di rete, così come di mediatizzazione social. Questo processo di recupero attraverso la trasformazione in evento, cioè fenomeno che dovrebbe essere eccezionale ed unico, accomuna gli enormi impianti di cartellonistica pubblicitaria che mascherano i cantieri edili così come i murales dello Spa Leoncavallo (dove Spa, in un grottesco gioco di parole, sta per “Spazio pubblico autogestito”), la riparazione di una moto – nascono qui le rielaborazioni retrò delle moto, come a suo tempo la rivisitazione modaiola del mito americano dell’Harley Davidson fatta dalla Number One – o l’apertura-chiusura compulsiva di temporary shop. Tutto è evento, cioè accadimento estratto dal tempo storico, che è la condizione base per il darsi di qualsiasi fenomeno mediale nel regime capitalistico attuale.
Le culture di rete hanno per altro fornito a questo tipo di recupero un’accelerazione ed una diffusione – due vettori del mutamento sociale odierno – enorme. Una peculiarità dell’egemonia linguistica che esercita Milano su questi processi mediatici, infatti, passa attraverso un uso capillare non solo e non tanto della tradizionale comunicazione broadcasting – pleonastico ricordare Mediaset – ma soprattutto di una capillare utilizzazione ed implementazione di applicazioni per smartphone, tablet e portatili che incidono nel concreto della mobilità, della socialità e dell’economia, da quella professionale a quella più minuta ed informale. Per altro inizia a diffondersi anche, in maniera trasversale, l’uso di app per le operazioni finanziarie e con cripto-moneta. Questa interconnessione fra tecnologia, forme di socialità e mobilità sul territorio rappresenta per così dire la dark matter che alimenta la trasformazione in pratiche di consumo di ogni forma di socialità: uno degli esiti, appunto, del recupero.
Questa contiguità fra forme di vita, comunicazione e capitale, in ogni caso, fa parte della tradizione novecentesca di Milano e nel ventennio berlusconiano ha raggiunto le dimensioni di una dittatura culturale ed economica, saturando lo spettro della comunicazione tradizionale e surriscaldandolo fino al suo capovolgimento attuale in un’esplosione di forme sempre più parcellizzate e personali: in sostanza il regime mediale del prosumer. Questa dinamica mediale del recupero investe ormai lo stesso territorio. Icastica è l’ubicazione in via Monte Rosa, difronte la sede del Sole 24, quotidiano confindustriale, del centro sociale il Cantiere. La palazzina occupata, per altro, era stata sede del “Derby”, storico cabaret dove si esibivano Cochi e Renato. Un luogo potenzialmente ad alto conflitto sociale e culturale lasciato prosperare in uno dei quartieri più benestanti di Milano. Il fatto che nel 2006 la festa del comitato di redazione del Sole 24 Ore si tenne proprio lì, esemplifica quanto da lontano venga e quanto potente sia questo processo di recupero. Un altro esempio è la storia del locale Spazio Ligera di via Padova – ormai chiuso dopo quindici anni, causa Covid – che operando in quello spazio a metà fra cultura underground e mercato, composizione multietnica e patrimonio immobiliare a basso costo, ha di fatto svolto il ruolo di battistrada per la gentrificazione di uno dei quadranti a più alta tensione di Milano, quello a Nord-Est di piazzale Loreto, da cui la sigla NoLo (NordLoreto). La gentrificazione: un’altra delle declinazioni, appunto, di quel processo di recupero di cui Milano è il più avanzato laboratorio d’Italia.
Nel circuito internazionale del lusso
E poi, sconosciuta a qualsiasi altra realtà urbana italiana, c’è la dimensione che vede il capoluogo lombardo inserito nel circuito internazionale del lusso. Milano è la tredicesima città più cara al mondo (fonte Global Wealth and Lifestyle Report) dietro Bangkok e Dubai e subito prima di Sidney e Barcellona. La più cara in Europa dopo Monaco, Zurigo, Parigi e Londra. Una delle dimensioni più specifiche del lusso milanese però, la moda, non è più solo spettacolo, ostentazione, ricchezza, ma si è fatta essa stessa discorso pubblico, parcellizzata attraverso il caleidoscopio di prosumer attivi su Instagram, TikTok e tutta la galassia presente e ventura dei social a base iconica. In qualche modo il fashion attuale, un registro espressivo aperto, più che un’industria vera e propria come la vecchia moda degli anni ‘80, testimonia ancora una volta delle capacità di recupero del conflitto attraverso il consumo. Non a caso le tendenze non calano più dalle passerelle verso il mercato, ma sono elaborate rendendo glamour “usi e costumi” di un hinterland e di periferie spesso lasciate ad un degrado che non ha nulla da invidiare a metropoli di ben altro calibro, così come delle subculture giovanili. È una dinamica che svela il carattere potentemente classista di queste forme di recupero, che però riescono a spacciare per valorizzazione sociale un processo altrimenti definibile, invece, come prepotentemente coloniale.
La velocità di trasformazione
La velocità di trasformazione, sia delle pratiche di vita metropolitana che dello stesso tessuto urbano è un segno eloquente di quanto detto precedentemente. Una velocità che solo Milano ha saputo darsi negli ultimi venti anni. Un ultimo esempio incisivo di questa capacità di messa in produzione anche del tessuto urbano è la totale riconfigurazione dell’area della stazione Garibaldi. Nel 2006 era ancora quella tipica delle stazioni ferroviarie nelle città storiche, ma nell’arco di una manciata d’anni è stata convertita secondo i sintagmi globalisti di un’architettura da skyline. Piazza Gae Aulenti, in questo senso, non è che la rivisitazione colta di una piazzetta su cui gravitano una Feltrinelli, e negozi di abbigliamento sportivo, mentre l’Unicredit Pavillion, l’auditorium sito fra la piazza ed i giardini di Porta Nuova, è stato venduto all’IBM nel 2018 e funziona ora come “negozio icona”. A corredo del nucleo attorno al grattacielo Unicredit, le residenze di lusso – passate dai 20 mila euro al metro quadro nel 2013, agli 8 e rotti a novembre del 2021 – ed il decantato “bosco verticale” del Boeri Studio, che ha aspirato la quota di verde pubblico richiesto come compensazione rispetto alla volumetria in verticale, distribuendolo sui balconi delle residenze private, una perfetta metafora dell’attuale identità meneghina. Sulla scorta di quella riconfigurazione, sono partite innumerevoli operazioni immobiliari di dimensioni più o meno rilevanti – notevole per estensione e volumetrie quella relativa all’area dell’Expo – che ne ripercorrono le modalità, fra riconversione di aree dismesse e gentrificazione, sempre nel segno dei processi di recupero delineati.
La fotografia di copertina è di Massimiliano Donghi on Unsplash