Massimo Ilardi
Roma è stata per secoli il centro di un impero ed è da due millenni città santa per il mondo cristiano perché sede del suo capo spirituale. Una città dunque dal carattere universale ma che si trova continuamente a dover affrontare e risolvere problemi interni, locali, propri di una qualsiasi città. Questa contraddizione tra universale e locale si accresce drammaticamente nel momento in cui la si fa diventare anche capitale di uno Stato. Nel corso dei secoli perde l’impero ma non il papato, e soprattutto non l’immenso patrimonio archeologico e artistico che fa riferimento alla fondazione di quell’impero e di quel papato e solo in piccola parte al suo ruolo di capitale. Questo contrasto tra carattere universale e locale seguita anche oggi a esistere, continua ad avere una impronta determinante che condiziona la vita di questa città e dei suoi abitanti. Un localismo, occorre precisare, che non si proietta su una più intensa partecipazione e cooperazione tra i cittadini ma, al contrario, su una maggiore frammentazione del tessuto sociale dove sono i rapporti di forza a stabilire la spartizione del potere e la distribuzione delle risorse sul territorio. E’ questa la conseguenza di una crisi verticale dell’azione politica, l’unica che sarebbe legittimata a trovare un equilibrio tra l’universalità astratta dei messaggi e la particolarità concreta del territorio che va governata. Il vuoto lasciato dalla politica è stato invece riempito dagli universali, quelli etici, estetici, economici che, come l’esperienza ci dimostra, tutto producono tranne che gli strumenti di governo di una città.
A tutto questo si aggiunge il fatto che i romani, a differenza, ad esempio, dei napoletani o dei milanesi che mostrano, come afferma il nostro redattore Emiliano Laurenzi, “un’appartenenza orgogliosa ai limiti dell’insopportabile”, non hanno mai considerato Roma una città nel senso tradizionale del termine, e cioè come un insieme di cittadini legati da una storia, da un territorio e da fini che hanno in comune. Non a caso non c’è stato mai, almeno a forti tinte, un campanilismo romano. Sono i rioni e poi i quartieri e poi le borgate dove si vive ad assegnare una appartenenza e a essere nominati e considerati come una città. Roma rimane un’entità astratta, un’idea che tutto unifica e tutto comprende: anime, luoghi, storie, leggende, linguaggi. Un’idea troppo grande, però, per essere amata e fatta propria fino in fondo. Ma questa idea si respira nelle sue strade, aleggia intorno ai suoi monumenti, serpeggia nei suoi vicoli, si installa perfino nelle sue periferie, attraversa la vita dei suoi abitanti, che siano romani fin dalla nascita o immigrati poco importa, perché si imprime subito nei loro caratteri e nei loro comportamenti. Permane, insomma, uno Spirito della Storia che sembra non tramontare mai perché quotidianamente si alimenta dagli imponenti resti del passato e dalla autorità millenaria della Chiesa che rappresenta in ogni attimo il rapporto storico con l’incarnazione di Cristo, salvatore del mondo, e che entrambi alla fine rendono insignificante ogni evento del presente.
Da qui deriva quella atavica e aristocratica indifferenza dei romani, quel loro cinismo da antichi conquistatori, quel disincanto verso l’accadimento perché tutto è ormai accaduto che li connota e li rende insopportabili agli occhi degli italiani che infatti non hanno mai considerato Roma, e tuttora non la considerano, la loro capitale e che fanno a gara per denigrarla definendola, nel migliore dei casi, pigra, corrotta e assenteista. Roma, dal canto suo, ha risposto assumendo sempre un basso profilo rispetto alle vicende della storia nazionale: dal Risorgimento, al compimento del suo ‘destino’ come capitale, alla Resistenza la sua partecipazione è stata debole e defilata e tutto sommato fatta rientrare a forza dalle istituzioni nella storia di questo paese.
Da una parte, dunque, un’appartenenza dei romani ai luoghi che formano la città più che alla città stessa; dall’altra, invece, una loro relazione in termini di mentalità e di immaginario con tutto ciò che la città ha rappresentato e rappresenta agli occhi del mondo. Localismo+universalismo, una miscela micidiale che uccide qualsiasi idea di civitas che infatti non è più appartenuta a questa città dai tempi della fine della Repubblica e della fondazione dell’Impero, quello di Ottaviano Augusto naturalmente.
Roma, dunque, rimane ancora oggi e più di prima il centro di una cultura universale e ha mantenuto e potenziato questa forza di attrazione e di astrazione mentre i suoi territori sono devastati dai rifiuti, dall’incuria delle strade, dalla inefficienza dei mezzi di trasporto, da una burocrazia asfissiante e predatoria, dalle questioni mai risolte della immigrazione e degli alloggi, da una cementificazione illimitata, e da una crisi che sembra sia diventata il suo stile di vita. Più di prima, perché la sua storia millenaria, la sua grande bellezza e il messaggio cristiano sono i principali motori di un potente immaginario che penetra con lo sviluppo delle reti ogni angolo del mondo. Più di venti milioni di turisti è il valore di mercato che questo immaginario produce annualmente. Ma non solo la storia, la bellezza e la Chiesa, anche la sua sterminata periferia ha avuto e ha, rispetto alle altre grandi città italiane, un ruolo originale e fondamentale nelle trasformazioni culturali e sociali di questo paese, funzionando come laboratorio alternativo e creativo di nuova cultura e nuovi conflitti e disegnando un immaginario forte, amplificato da cinema e letteratura che nei loro racconti fanno di Roma e della sua periferia il loro ricorrente scenario. Tra l’altro è proprio nelle sue periferie, più che in altri luoghi della città, che si producono quei sentimenti della crisi, come il rancore, l’odio, il risentimento, che sembrano oggi i motori di una conflittualità diversa che si traduce nella illegalità diffusa e nella devianza. Una conflittualità non più collettiva, ma individualizzata, parcellizzata che però ha più presa sull’immaginario, mette più paura, richiede più sicurezza. Anche qui e ancora una volta universale e locale si confrontano e si confondono.
E così alla fine Roma sembra vivere in maniera schizofrenica due vite: una, innescata da un immaginario smisurato, creato dalla sua storia, potenziato dal consumo, alimentato dagli stessi romani e dall’oceano dei turisti che si insinuano in tutte le pieghe del suo centro storico e ai quali poco importa della condizione della città e dei suoi problemi, l’essenziale che il Colosseo, San Pietro e la Fontana di Trevi rimangano sempre lì per rinnovare continuamente il sogno, l’estasi e la fede; l’altra, che riguarda la dura realtà quotidiana vissuta in maniera precaria e male governata.
Un immaginario, nel caso dei romani, che, in assenza di un forte progetto politico e di una classe dirigente degna di questo nome, non fornisce però alcun motore per l’azione, diventa un sostrato di simboli e concetti presenti nella memoria che cerca di nascondere il mondo così come è, che si rifiuta di riconoscerlo e che rinchiude il suo ruolo nel motivare questo rifiuto. Un sostrato che se non incide sul mondo reale lo fa sul modo di vederlo, di interpretarlo e di viverlo. Un immaginario dunque che imprime sul pensiero un’impronta culturale profonda e che porta, nel caso di Roma, a una passività incomprensibile di fronte alla gravità dei problemi sociali non risolti.
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