Asfalto Marginal

Arrivo al São Paulo alle 5,30 di mattina. La polizia di frontiera mi ferma per una quindicina di minuti e penso al peggio: qualche anno fa avevo restituito all’allora presidente Temer la mia onorificenza (Cruzeiro do Sul), con l’accusa di essere un presidente golpista. La notizia ebbe alquanto risalto perché una giornalista importante della Folha de São Paulo pubblicò la notizia con risalto. Come è facile immaginare, ebbi solidarietà e ancor più accuse: che restituisca i soldi l’italiano… In realtà era solo una collana di pietre mineiras e una pergamena. Poco dopo Temer fu arrestato, destituito e poi ovviamente scarcerato. Invece è solo burocrazia, perché erano tre anni che non venivo. Devo solo riempire e firmare due carte.

Il taxi inizia a scorrere sulle otto corsie in un senso e altrettante in senso inverso, corsie che si incrociano, sovrappongono, allontanano, sprofondano. È la Marginal, un GRA moltiplicato per quattro. Le auto si mantengono sulle corsie e quando cambiano mettono la freccia per tre secondi. Traffico ordinato alle 6h e quindi veloce. Si affacciano i grandi edifici che mi pare di ricordare, mentre un tenue sole riscalda le finestre. Mi ritorna l’impressione delle prime volte: una metropoli senza inizio e senza fine, uno spazio che non ha ammesso nessun piano regolatore. Solo mutazioni continue, sovrapposizioni, eliminazioni, coesistenze: tutto gigantesco ai miei occhi “provinciali” affascinati da questo disordine creativo.

L’asfalto è predominante, sua è la legge urbana e urbanista di São Paulo: asfaltare tutto. Ho capito ieri che è l’asfalto che “guida” le macchine, tipo tapis roulant continuo. Le indicazioni in alto sulla Marginal sono tante, troppe per me, sollecitano i guidatori a fare scelte che devono essere rapidissime altrimenti sono (siamo) perduti. Il motorista fa un itinerario che non riconosco, poi capisco leggendo una targa che mi trovo vicino alla mia rua… Rallenta e si ferma davanti al numero che gli avevo dato. Sono perplesso, penso che si sia sbagliato e glielo dico ma lui conferma. Controllo e il numero è proprio esatto. Scendo e vedo che hanno fatto un restyling dell’ingresso, con il portiere sorvegliante in una garitta vitrea-fumé da cui apre le porte rimanendo invisibile, per scongiurare eventuali ladrões.

Insomma quella che era la mia città polifonica si rivela come estranea proprio là dove mi era più familiare. Oppure sono io che per amnesie o rancori o insoddisfazioni pretendo di essere estraneo a me stesso e quindi replicare questa estraneità dappertutto, anche in quella che era o dovrebbe essere casa mia. Ma una cosa è certa e farà incavolare i romani: le strade sono tutte pulitissime, neanche una traccia di “monnezza” o di cacca di cane, mai un materasso abbandonato o sacchi di plastica aperti come corpi feriti da cui invece di sangue e budella escono torsi di mela, resti di spaghetti, bottiglie sfasciate. Lo immaginavo. Perché conosco il segreto di come funziona il lixo qui e lo racconterò.

Ascia ingegnera

La FAU è la celebre facoltà di architettura disegnata da un vero maestro del modernismo, J.B. Villanova Artigas, fondatore di una scuola famosa nel mondo, tra cui il premio Pritker Paulo Mendes da Rocha, il caro Decio Tozzi, la “nostra” immensa Lina Bo Bardi. Negli ultimi anni, la FAU si è chiusa in sé stessa e ha favorito (è una mia ipotesi) l’affermazione senza limiti degli ingegneri. Questi ingegneri sono anche bravi, ma non hanno una visione estetica né urbanistica. Così hanno riempito il vuoto lasciato dalla FAU e hanno affilato l’ascia golosa. Nel mio quartiere (Perdizes), che è una città media italiana, la scintilla l’ha data un progetto ottimo: creare la sesta linea amarela della metro (fig.1). Un imponente progetto sta sezionando due delle vie principali: Cardoso de Almeida e Sumaré. Accanto all’importanza decisiva di estendere la metro (è bella e pulita ma piccola per questa megalopoli e scoppia all’ora di punta), si è avventata la speculazione edilizia guidata proprio dagli ingegneri. Questi hanno subito iniziato a tagliare aree tradizionali, quelle che a me hanno suggerito il titolo di “città polifonica”, che mescolavano la co-presenza di casette basse, dolci villette unifamiliari, colorate e ben disegnate un secolo fa, con edifici ad alta intensità abitativa (fig.2). In queste stradine si stanno innalzando edifici che oscurano panorami e luci, spingendo un’attrattiva di mobilità futura-prossima verso queste nuove abitazioni insieme a traffico già asfissiante, negozi vari, centri di consumo e fitness ecc. (fig.3). Insomma la metro, prima ancora che si realizzi, sconquassa il disegno urbano del mega-quartiere favorendo l’attrazione di professionisti, studi vari, attività ricreative o costruzioniste, lojas di lusso per vestiti cibi e corpi (ho ammirato la recente scuola di fitness senza pesi!). Così a me pare che la tendenza generale abbia come centro decentrato la sottile svaporazione della distinzione moderna tra pubblico e privato. COME NEI SOCIAL, COSÌ NELL’ASFALTO: la metro pubblica si mescola con l’edilizia privata. E sono gli ingegneri – possenti e lucidi come tastiere iPhone – che tagliano con l’accetta le casette del passato come i Bandeirantes paulistani tagliavano foreste. GLI INGEGNERI SONO BANDEIRANTES METROPOLITANI. Chi non sa cosa siano stati, è ora che si informi. Il colonialismo portoghese ha massacrato culture indigene e foreste tropicali attraverso la caccia di questi avventurieri senza scrupoli, cui la città ha persino dedicato un orribile monumento. Partivano in colonne armate con davanti la bandiera (bandeira) e radevano tutto quello che incontravano, esseri umani, alberi, animali. Quel dominio che in passato indirizzava verso l’esterno la missione della “civiltà” occidentale, ora gli Ingegneri lo praticano all’interno: urbanizzare l’urbano. In Italia ancora non ci sono le Gate Community (almeno credo): qui ne ho visitata a lungo una, enorme, circondata da mura, con guardie private all’ingresso generale e ad ogni singolo palazzo (tutte “chiaramente nere”). È impressionante che le “gate” non hanno un disegno che un normale architetto, il più sfigato, potrebbe inventare: è il grigiore “circondato-che-si-circonda” e che si isola per vivere al peggio. A Perdizes non è possibile fondare queste community, manca lo spazio, così si sceglie l’ascia di guerra che taglia ed erige il futuro grazie alla mobilità della metro pubblica che fa schizzare verso l’alto affitti e vendite private. E l’arte degli architetti è andata in esilio… I palazzi altissimi in via di costruzione, alcuni già finiti (pare da cinesi) sono decine e decine. Vorrei tornare tra uno-due anni solo per vedere i cambiamenti.

Casina fiabesca

Di fronte a casa mia, a quella che era casa mia e che la lascio a fine mese, è possibile assistere a un evento poetico portentoso (“stupente”). Attraverso la strada e lei sta là, sola, abbandonata, tra ciuffi d’erba incolta e qualche cartaccia: casetta ristretta e solitaria (fig. 4). Le radici dell’albero elaborano un disegno – un merletto ligneo – che si dipana ai due lati della porta, porta serrata da secoli, millenni… Le radici circoscrivono una finestrella ovale per non curiosare dentro, con rispetto e delicatezza. Il risultato sembra un Gaudì spontaneo, dove lo sprofondare inesausto delle radici crea ossa e cartilagini che fuoriescono dal corpo-casa. Le scale di legno sono sconnesse e inutilizzate. È un modello di casa unifamiliare destinata a una sola persona come nelle fiabe. Casetta bassa, stretta e sottile. La sorpresa sta nel vedere che in alto l’albero è vivo, continua a fiorire di foglie e di rami. Stupore floreale. Se le radici serrano porta e finestrella in basso, in alto l’albero continua a crescere, si espande libero al di sopra del tetto traforato, lo sovrasta. I rami si allungano in verticale e le foglie aspettano fiori colorati in primavera… Allora sento che questa casa abbandonata, nodosa di radici ossee e libera di foglie verdi, è allegoria della mia vita. Ho vissuto a lungo dall’altro lato della strada, su un predio di 17 piani, secco ed efficiente come la morte. Di fronte – il terzo margine della strada, per evocare un racconto inesorabile di Guimarães Rosa, il rio dove scorre la canoa-bara del padre alla ricerca della terceira margem– avevo negli occhi quello che insegnavo: roots e routes. Le radici ossee hanno senso solo in quanto ci si innalza verso itinerari sconosciuti. Mi immagino volare su foglie caduche verso rotte impossibili, trascinate dal vento o dal caso. “Lei” – questa casa-allegoria – invecchia e ringiovanisce, sprofonda e innalza, scurisce e inverdisce, rugosa e liscia. È proprio come me…

Fig. 1

Fig. 1

Fig. 2

Fig. 2

Fig. 3

Fig. 3

Fig. 4

Fig. 4

[immagine in copertina di Paulien Osse]