Parigi cambia, ma nulla nella mia malinconia si è mutato: palazzi nuovi, massi, vecchi borghi, impalcature, tutto si trasforma in allegoria.
(Baudelaire, 1857, Le Cygne)

Questi versi di Baudelaire su Parigi sono stati strappati dal loro inquieto riposo tra i “fiori del male” per essere vivificati nei perturbati paesaggi romani. Nessuna metodologia quantitativa è paragonabile a questo approccio, dove ogni singolo muro, sasso, pietra o animale si “trasforma in allegoria”. Tale allegoria – sorella povera, più materialistica e temporale del simbolo – ha l’incarico di dare un significato altro a una stornante manifestazione della vita urbana. L’allegoria urbana si dispone come metodo qualitativo, dunque, che cerca di decifrare i significati altri, visibilmente nascosti tra noi, anche attraverso immagini uraniche di uccelli urbanizzati.
Qualcosa di performativo avviene da qualche tempo nel cielo, negli alberi e nelle strade di Roma. Nei mesi freddi, il centro arboreo di questa città si è trasformato in residence per migliaia di storni svernanti. Di conseguenza il paesaggio urbano è mutato in alto, al centro e in basso, secondo uno schema triadico che è inseribile nel campo di una nuova allegoria ecologica. Il dramma degli storni al tramonto sarà interpretato come una successione allegorica di tre fasi.

Alto: da qualche anno, sulla base di mutazioni ecologiche, alcuni caratteristici quartieri romani post-unità – dai grandi palazzi, larghi viali, alti alberi come quelli di piazza della Repubblica, piazza Indipendenza, viale delle Milizie – hanno subito una trasformazione ambientale che viene dall’alto. D’inverno il cielo si anima improvvisamente al tramonto. Il crepuscolo diventa un occaso: un dramma uranico che innumerevoli storni, riuniti in gruppi incostanti, disegnano nel cielo crepuscolare. Questi disegni puntiformi, una sorta di divisionismo volatile live, sono come merletti che si dilatano improvvisamente, esplodono quasi con forze centrifughe, per riunirsi e accorparsi come animati da forze anche contrarie, centripete. Esplosioni e implosioni si alternano e si sovrappongono come fuochi d’artificio viventi, pattuglie acrobatiche, frecce azzurre sotto forma di storni. Sembra una danza cosmica piena di deliri etologici e dolori ecologici. La morte del sole può essere placata e annullata solo da esagerate circonvoluzioni, segni arabescati dell’irraffigurabile ansia per un dio analogamente morto.
Nei dintorni della vecchia piazza Esedra, con ninfe, tritoni e zampilli – dove stava la Facoltà di Sociologia, la redazione di Repubblica e persino le Terme di Diocleziano – studenti frettolosi, turisti smarriti, impiegati indifferenti, intellettuali scettici si fermano e alzano la testa al cielo, aprendo bocca e occhi alla contemplazione di un rito azteco, che rivive misterico e parodico a opera di infiniti storni quetzalcoatl.
I barboni di Zavattini e De Sica in Miracolo a Milano guardavano stupiti e rapiti il tramonto, allineati su vecchie sedie, quotidiano mass medium gratuito e popolare programmato dalla natura. Invece l’ecologia romana dagli anni Ottanta in poi sembra spinta all’omologazione con le produzioni alla Spielberg, in cui le emozioni devono essere esagerate, moltiplicate per unità di immagine, tecnicizzate. Al neorealismo postbellico subentra la nuova spettacolarità digitale anche in “natura”. Gli storni capitolini – mini-super eroi – hanno inserito, adeguandosi, nei tramonti intorpidenti e piagnoni, grafie da video-art, computer graphic, laser puntiformi.
Forse gli antichi aruspici sarebbero inorriditi di fronte a tanta esplicita ammonizione di un caos incombente: un caos naturale e, insieme, divino. O forse tutto artificiale. Gli spettatori attuali, sbigottiti da un fenomeno incontrollabile e timorosi di apparire anti-ecologici, alternano occhi in verticale tra cielo e strada con sorrisi in parallelo ai vicini occasionali per rassicurarsi rassicurando.

Centro: con l’esaurimento del chiarore solare, gli storni, come tante Cenerentole impazzite, si precipitano tra i rami degli alberi, allineati sui viali o sulle piazze, col terrore di trovarli esauriti. Forse esiste anche un ordine di precedenza relativo al tempo di arrivo nel cielo sovrastante le rispettive zone alberate, per evitare il rischio di scontri nell’eventuale discesa. Questi alti alberi si trasformano in insufficienti alberghi per un numero crescente di ospiti. A ben guardare i folti alberi sempreverdi diventano contenitori di una danza infinitesima e sfibrante, come un formicaio capovolto e scoperchiato. Ogni minuscola foglia è agitata dall’emozione degli uccelli che va progressivamente placandosi. Foglie e ali, nel buio crescente, diventano indistinguibili: entrambe appaiono tremanti. Contemporaneamente il cinguettio corale si fa stridulo,per poi attutirsi in un “pianissimo”. Poi è l’ultimo tremolio: uno stridìo finale spenge la luce. Tutto è pronto per il sonno notturno. Ma, chiusi gli occhi e allentata la tensione, finalmente si allarga l’ano.

Basso: da piazza Indipendenza all’Esedra, il “basso” corporeo e stradale si unifica, in un elogio a Rabelais e a Bachtin. Ogni testa è minacciata da calde gocce bianco-scure che, soffici, si adagiano sopra indifesi passanti, i cui piedi cominciano a scivolare tra i grumi crescenti di guano che dilaga per le strade, rischiando non desiderate contaminazioni. Se dal cielo cade anche la pioggia, la situazione diviene incontrollabile: anche le auto rischiano l’ingovernabilità. L’acqua unita al guano produce un liquame vischioso. Gli storni, potenza ormai invisibile del paesaggio urbano, in quanto perfettamente mimetizzati, circoscrivono il loro territorio irrorandolo con la rapida digestione di olive della campagna romana, da loro “beccata” durante il giorno. I parcheggi si vedono trasformare le auto in sosta in deformi e inutilizzabili maschere di cera al guano. Le fermate degli autobus diventano delle trappole: se il bus ritarda, il pedone è “truccato” come in un film dell’orrore. Tutti guardano ora solo in basso per protezione e per schifo, il naso offeso da odori inattuali, come provenienti da un pollaio modello, i cui resti il sole mattutino avrà il compito di surriscaldare ed essiccare. Le eventuali piante dei giardinetti sottostanti si bruciano a causa delle eccessive irrorazioni, i marciapiedi diventano biancastri: una sorta di paesaggio lunare deforma quello che era un panorama urbano ordinato, un diffuso terriccio informe confonde, come risultato finale, tutto il territorio sottostante.

Nella citata poesia di Baudelaire, all’inizio compare un cigno che, «ridicolo e sublime come gli esuli», cammina inesplicabilmente tra le strade di Parigi, invocando il «bel lago natale»: la sua immagine di natura diventa allegoria di un mondo armonico che la nuova città ha ingoiato. Per questo l’uccello è ridicolo solo all’occhio cittadino oramai disabituato ai paesaggi naturali.
Nella spettacolarità dei crepuscoli romani, gli storni danzanti ed evacuanti sono la nuova allegoria urbana. Le loro vibrazioni nel grande schermo celeste – che segnala il ritorno imprevisto della natura sullo spazio urbano – significano la fine del terrore azteco (a cui da tempo anche i volatili non credono più) per un sole che muore e la nascita del loro allineamento a un display tecno-morphizzante. L’ambientalista ingenuo vede in ciò l’equilibrio raggiunto tra storni e piazze, da difendere in nome della nuova ecologia. Egli immagina di proteggere una natura sempre vergine, non evolutiva, mentre legittima il contrario, cioè un risultato dissoluto della mutazione storica nel rapporto città-campagna, di cui anche gli storni sono parte ecologicamente connessa agli abitanti urbani. Egli crede di difendere la purezza di una natura “buona” in quanto tale, mentre azzera e immobilizza la complessa storia natura-cultura (antropocene). Sull’altro fronte, il cittadino offeso e inerme applica nelle zone contaminate altoparlanti che diffondono richiami registrati (il “grido d’angoscia”) che si vorrebbero etologicamente minacciosi per terrorizzare e, quindi, dissolvere gli storni; questi ultimi, invece, sempre più tecnologicamente avvertiti, continuano ad aspettare solo il tepore primaverile per il loro armistizio stagionale.
Gli storni romani sono immagine dissonante-polifonica di una metropoli che è investita da fenomeni estranei alla sua tradizionale percezione dello spazio. Uno spazio in cui il mito della natura animale sembra unirsi con la techno della storia urbana. L’arcaicità del tramonto si trasforma in allegoria dell’eterno ritorno per lettori frettolosi. L’evocazione preistorica di uccelli incontrollabili cerca di allacciarsi all’utopia di ecologie rinnovabili impastate da b-movies hollywoodiani. Il terrore arcaico si trasforma in epifania di un mondo a venire che si annuncia pieno di allegorie funeste e incomprensibili. Sembra un paradosso, ma il rito rinnovato quotidianamente dagli storni mette sotto scacco l’impotenza della cultura “umanista” di affrontare la potenza sacrale e temporaneamente solidale del rituale. In queste scenografie sempre rinnovate dalla bellezza geometrica-volatile, chi si dovrebbe interrogare non dovrebbe rivolgersi verso retrogradi ambientalismi o igienisti del guano, bensì interrogarsi sul perché troppi umani stiano perdendo la potenza rinnovata ed enigmatica del rito.

La fotografia di copertina è una rielaborazione di Alessio Ceccherelli