Antonio Tursi

Concentrazioni umane

“Messico e nuvole”, recitava la canzone di Enzo Jannacci, forse pensando ad Acapulco o a Cancún. Perché, anche la domenica mattina sul presto, quando ancora la capitale non si è messa in movimento, dalla centrale e novecentesca Torre Latino-Americana si scorge solo una densa foschia, senza soluzione di continuità e senza orizzonti che la delimitino. Una foschia, una nube di smog ed esalazioni, che ricopre tutti i quartieri di Città del Messico, anche in una giornata che si preannuncia assolata. Una foschia che nella sua impalpabilità rende quasi percepibile la distesa infinita di questa megalopoli latina e globale. Le dimensioni della città o meglio e soprattutto la sua densità abitativa si percepiscono dall’alto del grattacielo attraverso l’estensione della foschia, così come la stessa percezione si ha camminando tra la folla in molte sue strade, a iniziare dalla centrale e commerciale avenida Francisco Madero, proprio ai piedi della Torre, tra chiese e palazzi nobiliari di secoli passati costruiti con la tipica pietra vulcanica color rosso tenue. Si tratta in effetti di un mostro abitativo di ventuno milioni di abitanti o forse anche di più, che nei decenni hanno preferito la città per eccellenza alle campagne e ai centri minori. Questa concentrazione è dovuta ai vantaggi che Città del Messico ha offerto rispetto a un Paese povero e, soprattutto all’interno, ancora premoderno. Ma, a sua volta, determina anche la crescita delle opportunità culturali, sociali, economiche del luogo abitato. Tante persone che convergono portano con sé storie, capacità, desideri che accrescono il valore di risiedere nella capitale. Anche per questo, Città del Messico è una città moderna, con un reddito più alto del resto del paese, politicamente più avanzata ed emancipata, con una massiccia offerta culturale di musei, teatri, università. Come insegnava lo storico Fernand Braudel, già a proposito del Mediterraneo ma non solo, la storia è innanzitutto storia di uomini, della loro presenza o della loro assenza, della loro concentrazione o della loro rarefazione, dei loro incontri e dei confronti, dei loro numeri. E lo stesso Braudel segnalava che, almeno sino al principio dell’Ottocento, “per quanto splendide possano essere Messico, Lima o Rio de Janeiro, stentano a riunire entro di sé masse importanti di abitanti”. Mentre oggi queste stesse città scoppiano di abitanti. Città del Messico, in particolare, è un vero e proprio catalizzatore di uomini ma anche di investimenti e di imprese, nazionali e multinazionali: così si è inserita pienamente e peculiarmente nella rete ormai consolidata di città globali.

Tanti uomini che insistono su un territorio generano, però, anche difficoltà e problemi. Le classiche linee di divisione della storia messicana in base al colore della pelle non sono affatto scomparse. Ai bianchi, i güeros, eredi dei colonizzatori spagnoli, sono riservate opportunità a cui i meticci, gli indigeni e i neri certamente non hanno accesso. La polarizzazione tipica dei paesi sudamericani si manifesta con forza anche a Città del Messico: c’è chi compare nelle classifiche di Forbes e chi non compare neppure nelle anagrafi municipali. E questa distanza sociale si manifesta, in primo luogo, come una polarizzazione spaziale: c’è chi vive in spazi ampi con giardini e parchi, come della zona occidentale dove ogni abitante gode di undici metri quadrati di verde, e chi comprime la propria esistenza in spazi angusti, con meno di un metro quadrato di verde pro capite, come succede nella zona orientale della città; c’è dunque chi può respirare in spazi aperti e chi non può inalare altro che i profumi del cibo di strada, dell’immancabile mais delle tortillas, una vera e propria pianta di civiltà. C’è chi viaggia in auto blindate con aria condizionata o addirittura con l’elicottero e chi stipato in metropolitane e autobus strapieni e soffocanti.

In equilibrio instabile

Prima ancora degli uomini, Braudel invita a guardare la geografia per comprendere la lunga durata della storia. Quella di Città del Messico è assai peculiare. La si coglie pienamente nella centrale avenida Madero che sbuca sulla piazza dello Zócalo con la sua Cattedrale e gli imponenti palazzi del potere politico. Ai lati di questa strada, infatti, le chiese sono tutte poste più in basso del livello stradale. Si raggiungono attraverso gradini o passerelle. Come mai questo dislivello? Perché quegli edifici seguono l’andamento del terreno sottostante. Un terreno che sta sprofondando pian piano, in quanto questa megalopoli è stata costruita, in parte già prima della colonizzazione, sui fondali di un grande lago e per giunta in un altopiano vulcanico. I vari villaggi indigeni che sorgevano inizialmente ai bordi del lago hanno costruito nel tempo passaggi, palafitte, collegamenti tra loro, hanno interrato zone acquitrinose, hanno costruito giardini galleggianti utilizzando canne e fango, hanno innalzato su terreni argillosi i loro edifici e persino i loro imponenti templi. Gli spagnoli a loro volta hanno continuato quest’opera di riempimento. Anzi sono andati oltre: hanno tentato di drenare le acque e sostituire canali e fossati con strade e piazze. L’intera piazza dello Zócalo è sorta su una copertura del precedente centro atzeco. Così oggi gli edifici del centro storico, tra cui il retro del Palacio Nacional, “somigliano a disegni cubisti, con finestre pendenti, cornicioni ondulati e porte non allineate con lo stipite”, osserva un cronica.

Un’opera di appropriazione che è continuata e continua con il massiccio sviluppo urbano, fatto di cemento e di asfalto, materiali che cristallizzano il sottostante terreno poroso. Un’appropriazione che si declina anche come sfruttamento delle falde acquifere sotterranee, necessario per dissetare i sempre più numerosi abitanti. Sfruttamento che, a sua volta, rende sempre più instabile il terreno.

Ogni anno, soprattutto con le piogge, la natura reclama e riprende ciò che le è stato sottratto dall’uomo. Inesorabile, puntuale nei suoi centimetri annui, invincibile. Determinando quel fenomeno di sprofondamento noto come subsidenza, oltre a tante inondazioni e frane nel corso dei secoli. Ciò costringe a sua volta l’uomo a nuove imprese, a dispiegare le sue tecnologie, a riguadagnare i suoi spazi, a differenziare le sue fonti di approvvigionamento idrico. Se non notiamo immediatamente la differenza di livello tra la Cattedrale e l’enorme piazza è perché, sotto l’imponente edificio, sono stati posti centinaia di meccanismi a pompa idraulica che lo sorreggono e ne evitano lo sprofondare con il terreno friabile.

Città del Messico è dunque una città friabile, fatta di sedimenti e, come la Napoli porosa di benjaminiana memoria, richiede ai suoi abitanti questo sforzo continuo, questo adattamento, questo arrangiamento. Persino i nomi della città e dei suoi spazi principali sono frutto di adattamenti continui. Dall’atzeca e magnifica Tenochtitlán a México, come era chiamata in spagnolo la capitale della Nueva España; dalla sigla DF che stava per Distretto federale all’attuale sigla CDMX; sino ad arrivare al nomignolo ironico ma anche reverenziale con cui è chiamata da chi ci abita: El Monstruo. La piazza dello Zócalo, che ufficialmente è adesso Plaza de la Constitución, in precedenza è stata Plaza Real e ancor prima Plaza de Armas.

“A Città del Messico tutto cambia e niente cambia. L’unica certezza è che niente è certo: qui tutto può tremare, tutto può cadere. Tutto è promessa, tutto è minaccia. Tutto è sorpresa, sempre”, come avverte nei suoi vagabondaggi in città lo scrittore argentino Martín Caparrós. Non è un caso, perciò, che la sua piazza principale sia stata teatro di un intervento spettacolare dell’artista-architetto Rafael Lozano-Hemmer: l’Alzado Vectorial ha progettato l’illuminazione spettacolare della piazza attraverso un’architettura nello stesso tempo relazionale e istantanea, effimera. Dunque, da un lato, coinvolgendo le persone attraverso le reti di comunicazione e, dall’altro, mostrando consapevolezza del carattere transeunte delle stesse strutture architettoniche, rese in questa circostanza interattive. Si è trattato, dunque, di una metafora, attraverso le nuove tecnologie, della storia instabile di questa città.

La perra vida

Una certa indolenza e spensieratezza dei suoi abitanti è solo il contrappasso di una situazione da sempre instabile e precaria, che impone capacità di resistenza e perseveranza. Se nella storia questo carattere indomito ha portato spirito guerriero, lotte tra civiltà, guerre di liberazione, rivoluzioni e guerre civili, oggi esso si intreccia, da un lato, con una forte polarizzazione sociale che scava divari abissali e, dall’altro, con la corruzione dei pubblici poteri, a iniziare da quelli di polizia. In definitiva, Città del Messico è una città pericolosa. Soprattutto per le persone più deboli e indifese, soprattutto per le donne, vittime di molestie, abusi, rapimenti e crimini spesso efferati. I grandi affari dominati dai cartelli della droga si svolgono accanto a tante azioni di microcriminalità.

I romanzieri non hanno mancato di cogliere questa tensione criminale, questa atmosfera di incombente pericolo. È in questa megalopoli rancida, tentacolare, matrigna che svolge le sue indagini il detective Héctor Belascoarán, personaggio memorabile creato da Paco Ignacio Taibo II, perché “la città si nutre di carogne. Come un avvoltoio, come una iena, o come il messicanissimo zopilote, si avventa sui morti nazionali. E la città aveva fame. Proprio per questa ragione quel giovedì la cronaca nera ancora una volta grondava sangue”. Carlos Fuentes immagina, addirittura, il trasferimento a Città del Messico di un nuovo e famoso concittadino: “ora mi perdo nella città più popolosa del pianeta. Mi confondo tra le sue moltitudini notturne, assaporando già l’abbondanza di sangue fresco, pronto a farlo mio, a rinnovare con la mia sete la sete dell’antico sacrificio che è all’origine della storia… Ma non lo dimentichi. Sono sempre Vlad, per gli amici”. Così il conte Vladimir Radu, il famoso e ottocentesco conte Dracula, dalle lande balcaniche arriva sull’altopiano messicano, pronto a rinnovare i suoi sacrifici di sangue ma anche quelli delle antiche civiltà indigene, pronto a innestarsi negli attuali flussi delittuosi della megalopoli e a gustarli con la sua eleganza aristocratica. Anche il cinema ha rispecchiato questo inferno metropolitano: Amores Perros di Alejandro Gonzáles Inarrìtu con la sua storia a mosaico, oltre al lancio internazionale di una nuova generazione di raffinati cineasti di successo, ha offerto in primo luogo una ricognizione amara, dura, disperata sulla violenza criminale a cui la perra vida, la vita da cani, conduce i ragazzi di strada, quelli che conducono le loro vite negli slums, agglomerati di baracche fatte di mattoni e lamiera ma anche di plastica e cartone, con servizi carenti o del tutto assenti, arrampicati sulle pendici delle montagne che circondano la megalopoli.

Questo clima difficile, pesante, ansiogeno rende faticosa l’espressione della socialità gioiosa dei latinos e spesso non rende possibile appropriarsi degli spazi pubblici. Città del Messico è una città di punti discontinui: si tenta di andare da un punto all’altro, da un quartiere all’altro, evitando il percorso, il cammino intermedio, per quel che il traffico permanente permette. Questo clima genera gated communities, come Santa Fe che, con i suoi brillanti grattacieli, il suo laghetto artificiale, i suoi lussuosi centri commerciali e i suoi vigilantes armati, riproduce uno spazio pubblico privatizzato e recintato ad uso esclusivo dei possessori di credit card. Ormai i ricchi lasciano le tradizionali zone borghesi del secolo scorso, come colonia Roma, il quartiere residenziale mostrato da Alfonso Cuáron nel omonimo film vincitore del premio Oscar 2018, per vivere nella tranquillità rarefatta e artificiale di queste zone di città separate dal resto della città, dal suo caos, dal suo traffico, dai suoi pericoli.

Devozioni divergenti

La situazione sociale difficile, la precarietà esistenziale, il senso del pericolo portano con sé un’impellente necessità di credere, di manifestare atti di fede. L’anelito ad una dimensione sacra si coglie in tutta la sua diffusione e intensità di fronte all’effigie della Vergine di Guadalupe, padrona del Messico. Tra la chiesa antica e quella nuova, nello spiazzo immenso di fronte agli edifici religiosi va in scena quotidianamente la spiritualità cattolica importata dai missionari spagnoli e tradotta nella Vergine che parla agli indigeni e ai meticci. La religione cattolica per tutta l’America Latina è stata un vettore di incontri anche cruenti tra civiltà diverse, ognuna delle quali nell’incontro ha portato qualcosa di sé, sino alle forme di sincretismo osservabili nel candomblé di Salvador de Bahia. In Messico, oggi la religione cattolica costituisce un sostrato comune che tiene e sostiene una società anche nei momenti di difficoltà estrema. Rispetto a catastrofi naturali, come i frequenti terremoti, o agli incidenti della vita quotidiana, l’appello devozionale alla Nuestra Señora è il rimedio più frequente. Rispetto a una politica che garantisce assai poco i diritti civili e sociali, rispetto a una società che non agevola affatto la mobilità al suo interno, la fede è il pilastro al quale tutti possono sperare di appoggiarsi. Ogni giorno la chiesa nuova, quella nella quale è conservato il mantello-effige della Vergine, straripa di fedeli provenienti da ogni dove ed irradia la sua luce di speranza in tutte le direzioni.

Ma a Città del Messico la religione istituzionale della Chiesa cattolica sta trovando ultimamente concorrenza. Una strana concorrenza che, a suo modo, sprona atti di devozione e offre vie di speranza: il culto della Santa Muerte, delle statuine che raffigurano il cadavere di una donna, di una sposa, forse di una bambina, con il vestito bianco ma più spesso con il manto scuro, e con falce in pugno. Nel suo inno “si vede, si sente, la Morte è presente!” risuona anche la storia antichissima del memento mori, che ricorda a ciascuno la caducità dell’esistenza, che reinquadra in una giusta prospettiva le vicende umane, troppo umane. È questo culto, in alcuni quartieri, il riferimento forte o forse unico di chi vive e si sente sempre più ai margini delle istituzioni, anche di quelle ecclesiastiche. È il culto di chi trova un senso nel mondo della criminalità e ricerca, anche in questo caso, appigli valoriali trascendenti. Invocare la Santa Muerte significa sperare di veder realizzati, anche per vie traverse, i piccoli obiettivi della vita quotidiana. Così tra i mercati variopinti e traboccanti di Tepito, zona di spaccio per eccellenza, si vedono spesso le statuine, impasti di cartongesso, di stoffa, di metallo e persino di ossa, sfilare in processione e ottenere l’attenzione degli umili e disperati, esclusi dal sistema pubblico di protezioni sociali e forse anche dalla carità dei prelati cattolici. Anche in questo caso, si può notare quello spirito di arrangiamento tipico di Città del Messico. Ci si arrangia anche in fatto di fede. Ci si costruisce i propri santi.

Le parole di Martín Caparrós, flâneur in questa capitale della hispanidad, condensano magnificamente questo groviglio urbano, friabile ma in continuo fermento: “Città del Messico è questa violenza e questi insulti, questa disuguaglianza e questa cultura, queste parole e questa musica, sette secoli e milioni di auto, di corpi e di rumori, la capitale più grande della lingua spagnola. È la città per eccellenza. Una città è materia che trabocca, energia in movimento incontenibile, folle, macchine e soldi che si muovono, ansie, appetiti, paure che si muovono per niente, per continuare a muoversi. Un’enorme quantità di energia per creare più energia da spendere per creare più energia per”.

Fotografia di copertina Luis Andrés Villalón Vega on Unsplash

[versione rivista, originale pubblicata su: presS/Tletter, gennaio 2022]