La storia dell’Occidente ha assegnato all’arte un ruolo di profonda interconnessione ai dispositivi del potere, dunque una dimensione politica intrinseca. L’arte è sempre anche politica. Può di volta in volta segnalare o amplificare la corte del Principe, può abbracciare i disegni ecumenici della Chiesa, può imporre decoro all’interno borghese, oppure può incarnare la critica delle merci, delle istituzioni, raccogliere l’aura caduta dall’oggetto di culto e introdurla nelle modalità espositive. Le avanguardie storiche hanno chiarito come anche la più radicale negazione del pubblico inaugurasse in realtà un nuovo modello d’interazione con lo spettatore, traumatico e provocatorio, ma funzionale a un incremento dei mercati e dei consumi. Per questo le arti sono state sempre un grandissimo serbatoio per l’industria culturale, per questo tra istituzionalizzazione e opposizione si è creata una sorta di gioco delle parti, per questo la morte dell’arte è diventata oggi tema dell’arte.

La gabbia della legalità

La secolarizzazione del potere ha sacralizzato l’arte elargendole una sua sovranità, perciò ogni azione, ogni evento, ogni processo che appartenga al suo territorio è “costituzionalmente” legale: partecipando dei suoi rituali, del suo ordine, partecipa anche dei privilegi del suo status. Beninteso, i circuiti dell’arte possono non essere sempre all’altezza della propria funzione: possono esserci chiusure, resistenze, umane e culturali, possono esserci momenti in cui il sistema restringe il suo campo concentrandosi sull’innovazione di prodotto, sulla messa a fuoco dell’oggetto, e quindi sembra respingere ed espungere, almeno per poco. Ma nella sua globalità il meccanismo è inclusivo e potentemente dialettico. Perfino neutralizzante, a rischio di spoliticizzazione. Un dispositivo immunitario che lavora sull’esenzione e sulla salvaguardia rispetto ad altri tipi di esperienza.
Secondo Alberto Abruzzese la stabilità del prestigio dipende dal fatto che l’arte ha sperimentato a lungo i suoi linguaggi tenendo ben separati finalità e contenuti, obiettivi e conflitti espressi. La tecnica serviva all’artista per creare le condizioni di partecipazione e di consenso che legassero lo spettatore al messaggio, e così il medium ha acquisito potere e riconoscibilità del tutto indipendenti dai messaggi veicolati. «Quanto più un artista conquistava la fama, tanto più il Principe amava averlo al proprio servizio e contribuire al suo riconoscimento per accrescere la propria grandezza. Quanto più un artista è riuscito ad avere successo veicolando opinioni contrarie al mercato e al potere, tanto più è cresciuta la sua appetibilità tra i mercanti delle gallerie d’arte e i politici del consenso» (Il Crepuscolo dei Barbari, p.141).
Questo può spiegare perché, ad esempio, parlare di arte illegale è in qualche modo un ossimoro. Tuttavia, sostiene Roberto Esposito citando Benjamin, «l’immunizzazione ad alte dosi è il sacrificio del vivente» (Termini della politica, p.129). Accade allora che il “costituito” ceda al “costituente”, che sulla legalità prevalga un nuovo ambito di legittimità, che l’arte si esponga come divenire dinamico, qualcosa che diviene e nasce sempre di nuovo.
Come è accaduto con le avanguardie, come continua ad accadere nel presente, all’improvviso un qualche evento interstiziale mostra che l’arte non è solo sistema, non è solo culto, non è solo legalità, non è solo funzione istituzionale. È anche evento. È anche tecnologia che trasforma. Il momento creativo che fuoriesce dall’ambito della gestione cerimoniale impone un habitat nuovo con la forza sorgiva di un potere istituente. È l’immagine del barbaro, che illude o promette nuovi modi di essere al mondo. Da un territorio senza legge, dal sacro, urge prepotentemente legittimazione, aggiornamento del canone e della produzione di senso. L’eccezione accende il conflitto e nella decisione da prendere, nel distinguere amico e nemico, rivela il potere originario, l’essenza politica dell’arte. «Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione», aveva scritto Carl Schmitt nella Teologia Politica (Le categorie del “politico”, p.41). Se il sistema fosse solo garante della norma, sarebbe neutralizzato e spoliticizzato, riassorbito senza residui; mentre il corpo a corpo con la vita concreta spinge il sovrano a ridisegnare i confini dell’antitesi politica.

«Lo chiamate uccello, ma non è un uccello»

C’è un episodio molto noto tra gli addetti ai lavori che forse vale la pena di far conoscere a un pubblico più vasto, ed è il processo che vide in campo lo scultore d’avanguardia rumeno Costantin Brancusi contro gli Stati Uniti d’America: un caso in cui la legittimazione comportò di per sé un riconoscimento legale. Questi i dati. Nell’ottobre 1926 approdò a New York una nave dalla Francia da cui sbarcarono alcune sculture di Brancusi destinate ad essere esposte in una mostra a breve, e Marcel Duchamp che le scortava nel trasporto, avendo lui stesso selezionato le opere per la galleria e curato la vendita di una di esse al fotografo e collezionista Edward Steichen. Al momento di pagare il dazio per l’introduzione degli artefatti su suolo americano, l’ufficiale di dogana non volle riconoscere all’opera in bronzo Uccello nello spazio lo status di opera d’arte, perché in nessun modo riusciva a riconoscere un uccello in quella forma astratta, levigata e allungata, più simile semmai a un mestolo, a un attrezzo da cucina o da ospedale. Il problema era serio, perché la legislazione vigente, protezionista, applicava una tassa molto alta ai prodotti industriali d’importazione, mentre le opere d’arte erano defiscalizzate in base al Tariff Act da poco in vigore, purché fossero prodotte manualmente e non avessero funzione utilitaristica. Il processo iniziò nel 1927 e terminò l’anno dopo con la vittoria artistica e legale di Brancusi, ma è rimasto esemplare per diversi e contrapposti motivi. Per quanto infatti il giudice Waite esentasse Brancusi dal dazio, le sue motivazioni – che istituiscono una legalità – non legittimano tuttavia l’opera d’arte come tale. «L’oggetto considerato […] è bello e dal profilo simmetrico, e se qualche difficoltà può esserci ad associarlo a un uccello, tuttavia è piacevole da guardare e molto decorativo, ed è inoltre evidente che si tratti di una produzione originale di uno scultore professionale […] accogliamo il reclamo e stabiliamo che l’oggetto sia duty free», si legge nella sentenza. Tuttavia alcuni paletti furono posti, tanto che lo storico dell’arte Denys Riout pone esemplarmente la data del 26 novembre 1928 a indicare la fine della storia dell’arte (che procede per giudizi estetici) e l’inizio di una sociologia dell’arte (che analizza il “mondo dell’arte”, i suoi attori, territori, regole); per giungere alla sentenza egli aveva infatti chiamato a testimoniare i protagonisti di quello che abbiamo chiamato “sistema” (artisti, galleristi, critici, collezionisti) e dalle loro risposte aveva estratto la sentenza legale.

Cos’è legittimo?

Molte altre considerazioni meriterebbe l’episodio, che qui non è il caso di proporre. Ma già l’esposizione nuda dei fatti può indurre a una visione generale del rapporto legalità/legittimità.
Il contatto col vivente rompe e riassorbe continuamente i confini del recinto, obbligando a capovolgere prospettive, a riformulare i criteri del giudizio, a confrontarsi con le trasformazioni indotte nella società da altre tecnologie, assorbendole a sua volta ed essendone assorbita. Così i writers mettono in dubbio il concetto consolidato di bene pubblico e di turbativa della proprietà privata: un graffito abusivo è imbrattatura del muro, e dunque attentato punibile contro la proprietà di quel muro, o sua valorizzazione, nel caso ad esempio che quel graffito entri gloriosamente nel mercato dell’arte incrementando esponenzialmente il valore economico del muro? Chi prevale nella decisione, il servizio contravvenzioni del Comune, o la vendita all’asta che riconosce il graffito di Banksy come grande arte?
Naturalmente si potrebbero elencare moltissimi esempi di esperienze artistiche che sconfinano nell’estremo, dell’etica, o della scienza, come gli esperimenti sulle biotecnologie delle cosiddette sk-interfaces; o della legalità politica, come le performance sugli immigranti e i progetti di “Arte Util” di Tania Bruguera; oppure che mettono in discussione i temi cruciali dell’identità e della proprietà privata, capisaldi del sistema capitalista, per smascherare responsabilità e incompetenze dei curatori, come il famoso caso di hackeraggio realizzato da Cornelia Sollfrank nel partecipare a un concorso di net.art con la sua Female Extension. Sono esempi che, per il solo fatto di accadere, cambiano lo scenario in cui accadono. Eversivi, non illegali; fondativi di nuovi cieli e nuove terre. E tuttavia hanno bisogno del sistema-arte non solo per avere risonanza, ma per esistere.

Tra “pre” e “post”

Ogni evento fondativo dell’arte necessita di un che di originario (pre), e di un che di riflessivo (post). Il riflessivo appartiene al sistema della critica, delle antologie, delle esposizioni, delle scuole, dei musei, agli apparati della legalità; il sorgivo appartiene all’evenienza della legittimità autocostituentesi, che però ha sempre richiesto una parallela fondazione di legalità. Ogni evento è hacker di un linguaggio precedente che viene ridotto in sistema dall’apparato. Perciò tra evento e sua normalizzazione esiste un circolo virtuoso, almeno più virtuoso rispetto ad altre forme di potere, perché il sistema dell’arte produce innovazione per non auto-immunizzarsi. Ha bisogno di innovazione perché l’innovazione si vende, attira e attiva interessi economici e ideologie, produce senso nell’habitat in cui tutti viviamo; contemporaneamente il nuovo non uccide il vecchio ma si somma ad esso, Duchamp non uccide Picasso e Michelangelo, ma include tutti in un processo riflessivo continuamente aggiornabile. Il sistema agglutina e assimila anche i fenomeni antagonisti, li domina e li fa vivere tra diversificazione e omologazione.
Per quanto la storia dell’arte abbia inanellato l’esperienza rivoluzionaria di Duchamp dentro il rosario asettico delle scuole e dei movimenti, essa rende tuttavia fruibile a tutti, sia pure in modo appannato, frammentario, diluito, un pezzetto di quella straordinaria esperienza umana ed estetica. Certo, è la distanza/tradimento che esiste tra sacro e religioso, ma ogni tradimento è pur sempre anche una traduzione.

[Quest’articolo è stato pubblicato la prima volta sulla rivista “Outlet, per una critica dell’ideologia italiana”, n.5 del 2013, con il titolo: “Solo perché l’artista l’ha chiamato uccello, questo le fa dire che è un uccello?]

La fotografia di copertina è una rielaborazione di Alessio Ceccherelli