Arturo Giammaresi è un rampante manager alle soglie dei cinquant’anni con l’ossessione (molto attuale) di rendere esattamente calcolabile l’efficienza e l’utilità di ogni singolo dipendente della società per cui lavora. Per questo elabora un algoritmo utile all’individuazione dei lavoratori non più necessari e procedere senza remore al loro licenziamento, eliminando così «le sacche improduttive superflue all’azienda». Un bel giorno, però, si ritrova lui stesso nell’indesiderabile posizione della risorsa non performante e ormai superflua e a perdere ipso facto il suo impiego prestigioso. Come se non bastasse, anche l’affascinante fidanzata lo liquida seduta stante, non appena scopre, grazie a un’altra infausta applicazione algoritmica, lo scarso indice di affinità di coppia che li accomuna: «È la fissazione del momento. Pare che se non te lo dice la app, non si può stare insieme», gli rivela infatti un collega col quale prova a confidarsi. Quello che proprio non lo fa rassegnare è che l’applicazione Happy Lovers, questa la sua fin troppo promettente denominazione, si sia pronunciata sulla base di soli tre parametri, ossia colore, piatto e cantante preferiti.
Arturo Giammaresi è lo sventurato protagonista dell’ultimo film di Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, che ha l’indovinato titolo, ripreso da un discorso di Andrea Camilleri, E noi come stronzi rimanemmo a guardare (2021), avvistabile da qualche tempo navigando nel mare magnum dell’offerta cinematografica in streaming. Scritto dal regista con la complicità di Michele Astori, ispirandosi evidentemente ad alcune più indovinate pellicole in tema e sbirciando qua e là tra le pagine di facili bignami di pensiero critico, il film è ambientato in un futuro assai prossimo, dando vita a una visione distopica che esaspera solo di poco le derive del nostro presente. Arturo, infatti, dopo insistenti e vani tentativi di trovare un lavoro adeguato alle proprie competenze – anche perché tutte le piattaforme online preposte alla ricerca considerano gli over quaranta fuori mercato –, si vedrà costretto ad adattarsi alla difficile quotidianità di un impiego mal retribuito per conto dell’inquietante e pervasiva multinazionale Fuuber, che incarna ed estremizza (non tanto, però) tutti i mali delle reali aziende dell’imperante internet economy.
Pif nel suo cinema si diletta di impegno civile e quasi mai va veramente a segno, ma va detto che con questa sua potabile commedia (a sfondo drammatico) coglie quanto meno il bersaglio di proporre uno sguardo sul mondo del lavoro (atipico, a chiamata, a termine, insomma quel lavoro che Douglas Coupland definisce da «paga irrisoria, basso prestigio, bassa realizzazione, futuro zero»), che è il grande assente della recente produzione cinematografica nostrana. Come affermava Oscar, il protagonista di un celebre film di Bergman (che però si riferiva al teatro), «capita che il mondo piccolo riesca a rispecchiare il mondo grande tanto da farcelo capire un po’ meglio», e in questo senso è evidente che a Pif le buone intenzioni non siano mancate, ma è come se nella sua sintesi distopica delle schizofrenie di una umanità tragicamente subalterna alla tecnologia, non fosse riuscito a mettere in ordine i vari spunti narrativi secondo un’idea concreta di cinema di genere. Affidandosi completamente alla sobria e stropicciata maschera comica di Fabio De Luigi, che si cala nel ruolo del protagonista con la solita apparente indolenza, il regista di fatto offre allo spettatore un film più ambizioso che riuscito, il cui registro sbanda dal tragicomico alla favola futuristico-sentimentale, fino all’apologo sociale, senza troppa convinzione. Eppure, nel personaggio di Arturo, vittima indifesa dell’algoritmo globale, si rintracciano segnali di un’inquietudine, di un ripensamento radicale delle dinamiche di sfruttamento e sottomissione che, per quanto esili e privi di consapevolezza politica, appaiono oggi quanto mai necessari.

Imprenditori di se stessi

In una delle scene più significative del film, scritto più per accenni e maldestre sottrazioni che inseguendo solide geometrie narrative, vediamo De Luigi muoversi spaesato nella sede di Fuuber, incantato dalla promessa di un impiego che «è più di un lavoro: è un modo per cambiare il mondo». Dopo essersi sorbito un filmato aziendale in cui il fondatore John Fuuber recita di fronte a un pubblico entusiasta e plaudente il consueto storytelling del nerd che, dallo spazio sgangherato della sua cameretta, armato solo di «coraggio, visione e molta, molta follia», crea un impero multimilionario, il malcapitato si sottopone sconsolato al surreale colloquio con il pimpante team manager di turno. Alla fine di una sequela di chiacchiere manipolative, Arturo scoprirà, con malcelata delusione, che il lavoro offerto è semplicemente quello del fuuberino di primo livello, ossia il rider di consegne a domicilio, schiavo del rating assegnato dai clienti e sottomesso al controllo dell’assistente digitale Little Fuuber (che «non ti lascerà mai solo»), per una retribuzione giornaliera «calcolata in relazione al value plan tabellare personale»! Il nuovo impegno, che Arturo accetta tristemente per mancanza di alternative, si rivela ben presto umiliante e poco remunerativo, finché l’ex manager, piegato da un rating troppo basso, deciderà addirittura di aderire al programma Fuuber Infinity, che prevede un’esistenza votata a un turno lavorativo unico, continuo, con solo una pausa di venti minuti ogni quattro ore, «perché i veri sognatori non dormono mai».
Il susseguirsi delle sequenze che descrivono il protagonista degradarsi a ritmi di consegna ai limiti delle possibilità fisiche e rapportarsi con una clientela dalle pretese che rasentano la perversione, vorrebbe ispirarsi, nelle intenzioni dell’autore, ai ritmi e alla comicità spiazzante di certe commedie classiche e finanche alla mimica stralunata di un Jacques Tati, invece perdono senza gara il confronto con altre prove cinematografiche dedicate, con ben altri risultati, alle inesorabili conseguenze della cosiddetta gig economy. È soprattutto al film di Ken Loach Sorry, we missed you (2019) che si pensa, esempio imprescindibile di un cinema militante che affronta senza remore uno dei temi più drammatici e urgenti della contemporaneità, in grado di svelare in presa diretta la realtà che si cela dietro la retorica dell’innovazione tecnologica e dei nuovi lavori sviluppatisi con la creazione delle piattaforme digitali, che in verità rinnovano vecchie relazioni di potere e vecchie pratiche di sfruttamento, fino alla sperimentazione di forme estreme di precarietà lavorativa.
La storia qui è incentrata sulla figuradi Ricky Turner, padre di una famiglia della working class di Newcastle upon Tyne, nel nord-est dell’Inghilterra, che, per affrancarsi da un passato di lavori temporanei e riscattarsi da una condizione di perenne difficoltà economica, si risolve ad acquistare un furgone usato e a impegnarsi come corriere freelance al servizio esclusivo di un gigante dello shopping online. Al colloquio con la ditta di consegne in franchising a cui offre la propria disponibilità, si sente rispondere le consuete formule ingannevoli: «Tu non sei assunto qui, tu sali a bordo…Non lavori per noi, lavori con noi… Se firmi con noi diventi il titolare di un’azienda affiliata: Padrone del tuo destino, Ricky, quello che divide i perdenti dai guerrieri». È così che il ferreo caporale motiva il team dei nuovi padroncini, come si sarebbero chiamati una volta, tutti fornitori di servizi ovviamente senza garanzie né assicurazione. In una scena successiva l’impietoso personaggio chiarirà inoltre ai suoi corrieri indipendenti che di tutti i pacchi in consegna «noi tracciamo ogni centimetro da qui alla porta di casa… Quelli sono tutti pacchi che vanno consegnati a un orario preciso», quindi bisogna seguire pedissequamente l’itinerario indicato dallo scanner palmare in dotazione e «spaccare il secondo». Così, attratto dalle lusinghe di un lavoro autonomo, Ricky si ritrova invece proiettato, come Arturo, in una forma di precariato ancora più dura dello sfruttamento del lavoro operaio. È quello che Loach definisce auto-sfruttamento, inteso come il rovescio della medaglia della mancanza di lavoro, ossia il super-lavoro autoimposto, «che ti intrappola fino a raggiungere effetti disumanizzanti, se non letali». Quella che si presentava come una scelta di libertà, altro non è allora che la conseguenza inevitabile di una disperante impossibilità di accesso a forme effettive di lavoro regolare e ben retribuito.
Nelle scene che mostrano con crudo realismo il corriere all’opera, vediamo ancora un’attività costantemente sottoposta all’opprimente e inesorabile algoritmodi controllo e di analisi della reputazione dei lavoratori, un sistema che non concede tregue e obbliga a ritmi forsennati che non consentono neanche il tempo di una minzione. Come tutti i colleghi più esperti, infatti, anche Ricky dovrà fare i conti con la degradante necessità di urinare in una bottiglia, pur di non rallentare il ritmo delle consegne. Eppure, quando un altro fattorino viene sospeso proprio per la sua difficoltà a rispettare gli standard dettati dall’algoritmo, sarà proprio lui a volerne prendere il posto. La perduta solidarietà di classe dei nuovi lavoratori, l’atomizzazione dei gig workers sono sottolineate ulteriormente nella scena in cui un anziano paziente della moglie del protagonista, infermiera a domicilio, le mostra alcune foto degli scioperi dei minatori che negli anni Ottanta condussero una lotta compatta contro le politiche thatcheriane di deregulation. Il regista inglese costruisce in questo modo una lucida, essenziale riflessione sulle drammatiche conseguenze della sconfitta del movimento operaio novecentesco, che ha aperto le porte a un nuovo capitalismo di cui tutti pagano il prezzo. La flessibilità premia i datori di lavoro, ma riduce i lavoratori a un disastroso precariato, fino alla condizione dei working poor, come vengono oggi chiamati coloro che pur essendo occupati non riescono a guadagnare abbastanza per sostenersi: è questa la semplice verità cui ci mette di fronte senza mezzitermini né concessioni a triti moralismi.

Road to nowhere

Ormai in guerra permanente con una condizione di indigenza che lo costringe a vendere il proprio capitale umano al capitalismo delle piattaforme, ridotto a un lavoro che gli ruba letteralmente il tempo, Arturo Giammaresi precipita nell’impossibilità di coltivare qualunque relazione o legame sentimentale. Non gli rimane allora che consegnarsi alla dipendenza dall’app Fuuber Friends,con la quale «avremo tutti la persona che ci serve, in ogni momento… Nel mondo Fuuber non c’è posto per la solitudine». Al suo fianco appare allora Stella, una proiezione olografica che ha le fattezze accattivanti dell’attrice Ilenia Pastorelli, nel ruolo di un’anima gemella virtuale, di una compagna di vita ideale, che non lo lascia mai solo, lo incoraggia e lo sostiene fino a farlo innamorare perdutamente.
Dopo che la digitalizzazione ha visto una profonda accelerazione con il lockdown imposto dall’emergenza pandemica, obbligandoci a vivere un nuovo rapporto con i nostri corpi, con la nostra fragilità fisica, fino a ridurre l’incontro con gli altri alla sola parola, quella immaginata da Pif ci sembra l’anticipazione inquietante di un tempo in cui il progetto tecnologico moderno di smaterializzare le relazioni umane è ormai drammaticamente compiuto. Eppure, come scoprirà finalmente Arturo, l’ologramma di Stella nasconde un corpo concreto, quello di Flora, un’addetta che interagisce con gli utenti da una postazione tecnologica all’interno del grattacielo Fuuber di Mumbai, dove è segregata come le principessa delle favole. E, in barba a ogni previsione algoritmica, anche Flora si è innamorata di Arturo, il quale non potrà fare a meno di andare a liberarla dall’incantesimo tecnologico del perfido tycoon John Fuuber. Dunque, la mega internet company che cannibalizza il tempo dei lavoratori non è più un fuoricampo spettrale, non è manovrata da un’intelligenza superiore che vive nell’Olimpo inavvicinabile del capitalismo finanziario, ma è invece una presenza che l’eroe riesce infine a violare, portando a compimento l’impresa di riprendersi la sua bella e fuggire con lei verso l’happy end conciliatorio.
Ma non finisce così: pur informato che i due sono riusciti a beffare le guardie e abbandonare il grattacielo-prigione, John Fuuber sa di non essere vinto. A chiudere il film saranno infatti il suo sguardo di ghiaccio e le sue parole lapidarie: «Mi fanno quasi tenerezza. Pensano di essersi liberati di noi. Ma sappiamo già quale compagnia aerea sceglieranno per tornare a casa, quale tariffa, quale posto… Noi sappiamo e sapremo sempre tutto di loro. Il passato, il presente e il futuro. Sai chi ci ha dato il permesso di accedere a questi dati? Voi. Non siamo ladri. Prima di entrare nella vostra vita, abbiamo bussato. Vi abbiamo chiesto se volevate condividerla con noi. Avete scelto di metterla nelle nostre mani».
In un mondo in cui ogni momento della vita sociale è assoggettato al monitoraggio e al tracciamento automatico; in un mercato in cui si consumano indistintamente persone e cose, e in un tempo in cui la tecnologia rischia di rendere gli uomini sempre più superflui (o di consegnarli alla definitiva alienazione nel metaverso), la distopica visione di Pif apre evidentemente uno squarcio, seppur didascalico e semplicistico, sul sottofondo più drammatico della realtà attuale del lavoro e dello strapotere dei monopolisti planetari dell’economia digitale. Il suo è insomma un film fin troppo trasparente, ma dai limiti e dalle contraddizioni comunque fertili, perché consente anche a un pubblico più disattento di misurarsi con le insufficienze e le instabilità dei sistemi socioeconomici in cui siamo invischiati. In definitiva, più che il futuro, Pif mette in scena l’immagine logora e assodata del nostro presente, deformandola appena con una sorniona punta di esagerazione, facendola apparire più vera del vero, quasi una prova generale del baratro che ci attende all’uscita dall’ultimo, estremo lockdown.

[L’immagine in copertina è una rielaborazione di Fabrizio Violante, a partire da un fotogramma del film E noi come stronzi rimanemmo a guardare]