Inizierei col pensare l’innovazione da un punto di vista teorico, cominciando da un classico come Joseph A. Schumpeter e la sua Teoria dello sviluppo economico (1912), secondo cui non c’è crescita senza che l’imprenditore innovatore operi cambiamenti radicali, nel prodotto o nel processo, nell’organizzazione, nelle materie prime, nel mercato. Le innovazioni rompono la routine guadagnando produttività e crescita. Inoltre, continua Schumpeter, lo sviluppo è legato al ciclo, per cui fasi congiunturali espansive generate da innovazioni anche radicali sono seguite da fasi recessive che però hanno anch’esse un ruolo vitale di ristrutturazione: le crisi che, recuperate all’interno del sistema, scandiscono le fluttuazioni cicliche. Diventa così centrale il concetto di distruzione creatrice, ovvero «il quadro in cui la vita di ogni complesso capitalistico è destinata a svolgersi». Le innovazioni, tecnologiche, gestionali, di mercato, rompono drasticamente gli equilibri, rivoluzionano dall’interno incessantemente il sistema, distruggendo chi è incapace di innovare e creando senza tregua strutture nuove (Capitalismo, socialismo, democrazia, 1942).
Più che al numinoso junghiano l’innovazione mi rimanda alle teorie del ciclo economico o a quelle dei paradigmi scientifici. Portando con sé i concetti di rivoluzione e di crisi. Perché, commenta Schumpeter, «queste rivoluzioni non sono, in senso stretto, incessanti; scoppiano a sbalzi discontinui, separati da periodi di quiete relativa. Ma il processo visto nell’insieme si compie incessantemente, nel senso che vi è sempre o una rivoluzione o l’assorbimento dei risultati di una rivoluzione, costituenti insieme quello che si chiama il ciclo economico».

Vecchi e nuovi paradigmi

Qualcosa di analogo è nella teoria dei paradigmi di Thomas S. Kuhn. La crisi avviene quando paradigmi vecchi e paradigmi nuovi coesistono, lottando tra loro; se un’anomalia non si spiega, e continua a non spiegarsi in base alle teorie e ai modelli epistemologici vigenti, compaiono paradigmi nuovi che non sono il puro sviluppo dei precedenti, ma piuttosto l’abbandono degli schemi dominanti, e la lunga lotta tra paradigmi diversi porta, infine, a una rivoluzione scientifica. Tuttavia, il paradigma vincitore non sarà il più “vero” – né verificabile né falsificabile – ma solo quello in grado di conquistare la fiducia della comunità scientifica in quella fase. La crisi del paradigma è perciò collegamento e discontinuità, funziona da ponte e da cesura tra scienza normale e scienza rivoluzionaria, due fasi anch’esse cicliche.
Crisi e critica si danno la mano, per Mario Tronti. «Perché krìsis è kairòs. È l’occasione, l’opportunità, il tempo adatto» e «la crisi è già un’autocritica di sistema». Quello che fa la differenza, per lui, è sempre l’esistenza o meno del soggetto politico in grado di vedere e organizzare la critica, specialmente nella crisi.
Applichiamo questi ragionamenti al campo delle arti. La distruzione creatrice è il movimento proprio anche dell’arte, e questo da sempre, non solo a partire dalle avanguardie storiche, nelle quali la capacità di rigenerazione a partire dall’eversione dello status quo si è imposta come paradigma vincente. Ma è sempre stato così, basta aprire un manuale di storia.
Il problema è: questo movimento di sistema, in sé oggettivo, è anche in grado di liberare soggetti capaci di critica politica, oppure la rivoluzione resta relegata ad un ambito “linguistico” e non fa massa con la crisi della società? E la funzione dell’artista è paragonabile all’imprenditore innovatore che ha effetti immediati nella società, o al ricercatore che scopre le anomalie ma non riesce da solo a cambiare i paradigmi? E il compito di organizzare la critica spetta al sistema dell’arte?

Andy Wahrol e la Brillo Box

Secondo il filosofo dell’arte Arthur C. Danto, innovazione e mutamento riguardano il concetto stesso di arte. Perché accade che qualcosa diventi opera d’arte solo in un particolare momento storico, e non prima? La sua prima intuizione è proprio figlia delle avanguardie degli anni Sessanta, quando una scatola di cartone per spedizioni, contenente spugnette abrasive in vendita nei supermercati, diventa la famosa Brillo Box di Andy Warhol (1964): se un oggetto che prima era niente affatto plausibile come arte a un certo punto lo diventa (e gli esempi abbondano all’indietro, vedi Duchamp, e in avanti, vedi Fluxus, Beuys, minimalisti, concettuali …), ciò significa che ciò che fa diventare opera d’arte un oggetto è esterno all’oggetto stesso. La rottura delle neo-avanguardie produce un salto teorico nel concetto stesso di arte, e Danto mette così a punto la sua destituzione filosofica dell’arte, ovvero il progressivo mutare dell’arte in filosofia dell’arte, che è pragmatica e non estetica: pragmatica, cioè riguarda gli effetti che si vogliono ottenere sul fruitore, e non estetica, cioè dipendente da presupposti teorici. Solo a ritroso, forti dell’autocoscienza acquisita, possiamo derivare dalla storia una teoria dell’arte, e tentarne una definizione solo a partire dall’onnicomprensività del pluralismo postmoderno: il relativismo di oggi spiega ciò che l’arte è stata anche ieri, l’arte è dopo la filosofia. Mi spiego con un esempio attuale, attingendo agli studi mediologici di un De felice o di uno Speroni: è il nuovo concetto di pratiche spaziali (Guida) come forme dell’abitare che moltiplicano l’esperienza dei territori mediali, distruggendo l’unitarietà dello spazio, a spiegare i paesaggi virtuali del presente, contemporaneamente ridefinendo anche il significato territorializzante che i monumenti hanno avuto nel passato. Oppure: l’Agopuntura Urbana che Salvatore Iaconesi e Oriana Persico realizzano usando dispositivi digitali serve per implementare nuovi modelli partecipativi di pianificazione territoriale in una deformazione performativa, co-creativa e open source del territorio, ma definisce anche per contrasto la pratica attuale di chiusura élitaria della governance e del progetto urbanistico.
Tornando al modello teorico di Danto, la sua posizione è un attacco metodologico alla storiografia lineare, un elogio della discontinuità, in cui ciò che altera o produce valore è non interno alla natura dell’oggetto (al suo essere arte di per sé), ma dipende da chi, dall’esterno, ne determina il senso. Una visione “debole” dell’arte, che si limita forse al solo aspetto linguistico senza connettere l’arte al mondo, ma intuizione formidabile per chi oggi ragiona in termini mediologici e vede ogni piattaforma espressiva come territorio complesso, conflittuale e contaminato da abitare.
Compito “politico” del filosofo è, per Danto, individuare il senso che si accumula nello scontro tra rapporti di forza, e dunque comprendere una distorsione, uno scarto mentale, un’alterazione eversiva, a partire da un punto di vista situato: ben sapendo che non c’è un’alternativa al mercato e al mondo, ma solo eventuali eterotopie.

Warburg e Benjamin

Prima di Danto, almeno altri due modelli ci aiutano a costruire una genealogia del concetto di innovazione nell’arte, criticando la linearità consequenziale del ciclo e connettendo presente/passato secondo la tecnica del montaggio: l’Atlante di Aby Warburg e l’immagine dialettica di Walter Benjamin. Warburg aveva lavorato su riprese e affioramenti come processo cognitivo in cui l’emozione della riscoperta è alternativa alla sequenzialità logica; Benjamin aveva unito presente e passato in relazione dialettica, a salti, non processo ma immagine, “dialettica in posizione di arresto”.
Il tipo di attenzione ai fenomeni proposto da Warburg e da Benjamin è fortemente selettivo delle emergenze, e implica un intenso coinvolgimento emotivo nella vitalità dell’accadere. Tuttavia, esso è più malinconico che politico.
Forte complessità innovativa è poi nell’iconologia critica di W. J. T. Mitchell a proposito dello statuto dell’immagine nell’epoca del Pictorial Turn. Più la rappresentazione visuale diventa onnipresente ed epocale (pensiamo allo spettacolo di Guy Debord o alla sorveglianza di M. Foucault) più l’immagine diventa qualcosa a metà tra ciò che Thomas Kuhn ha definito «un paradigma e un’anomalia». Si fa strada nella critica la consapevolezza che l’essere spettatore può essere una pratica altrettanto profonda della lettura, e che l’alfabetizzazione visuale non è solo testuale. Al punto che la categoria della spettatorialità è indagata da C. Bishop nella sua funzione politica dentro l’arte partecipativa, per la sua qualità produttiva di nuovi modi di essere nel mondo: vedi le sperimentazioni pedagogiche di Tania Bruguera.

Sistema e alterità

A livello di teorie critiche, in sintesi, l’innovazione mette in discussione anzitutto la quiete della sequenzialità logica, ed evidenzia le svolte, il montaggio, la dialettica come salti bruschi. Fondamentali sono dunque le retoriche, le pragmatiche dell’arte, ovvero le narrazioni che valorizzano le relazioni dinamiche, le qualità contaminatorie e combinatorie. In questo senso, ruolo paradigmatico è quello delle grandi esposizioni, in cui le curatele funzionano da organizzazione della critica e valorizzazione del mercato, e la quantità rimette in circolo la qualità. Gestione politica matura del sistema dell’arte, che riesce addirittura a cooptare l’alterità, talvolta perfino manipolandola con strumentazioni pedagogiche, come accade nelle diverse forme dell’arte “relazionale” o nei casi più “politicizzati” della cooperazione 2.0.
Proprio questo indirizzo “relazionale” è quello che maggiormente si candida ad una pragmatica “politica”. Quello in cui la sensibilità acuta per le questioni irrisolte e scandalose del nostro tempo produce un habitat animato da fortissima volontà pedagogica, comunitaria o di parte. La volontà individuale dell’artista tesa a denunciare un abuso di potere, un affronto alla persona, un attacco alle identità, e lasciare un segno che resti possibilmente come piaga aperta nella coscienza collettiva, è in questi casi la molla di una tecnopedagogia per la ri-creazione sociale. Cecilia Guida fa partire da Suzanne Lacy (proposta in una personale al Museo Pecci di Milano, 2015), la sua analisi delle spatial practises, ricondotte così genealogicamente al femminismo radicale degli anni Settanta. Ma, sia che si tratti di mappare la città con le evidenze degli abusi sulle donne, sia che si creino microeventi spiazzanti e interroganti come nelle pratiche performative di Cesare Pietroiusti, o si utilizzi il crowd-funding per riflettere sul valore di mercato delle performance relazionali come negli Esercizi di visione di Chiara Mu (AlbumArte, Roma, febbraio 2015), l’intento di ri-creazione sociale – proprio in quanto ciò che si realizza è un evento, limitato nello spazio e nel tempo, straordinario rispetto al fluire quotidiano, epoché e dunque sospensione – resta “sospeso”. Possiamo ricostruire il backstage, il perché di un’azione, le finalità dell’artista spesso biopolitiche (più che politiche in senso tradizionale), e declinate talvolta in modalità espressive e piattaforme comunicative di grandissima efficacia emotiva.

Fine del soggetto politico

Tuttavia, è impossibile sapere che ruolo giochi l’evento nel meccanismo generale della significazione, i riflessi o le elaborazioni che sarà in grado di smuovere a livello di società, e comunque essi non dipendono dal progetto dell’artista. L’impegno dell’artista è solo parte, e parte sempre più insignificante, come accade per ogni altra soggettività, all’interno di una globalità che chiamiamo mondo. Per qualcuno è dimensione postumana. Per qualcuno è organizzazione capitalista imperitura, dando ragione a Schumpeter. Ma se una cosa abbiamo appreso dalla fine del Moderno è che la volontà dell’individuo è sempre più négligeable rispetto alla potenza dei macromovimenti globali che ridefiniscono la nostra condizione. Cioè, non c’è più il soggetto politico in grado di organizzare la critica, e se ci fosse sarebbe impotente.
Se è così, cosa significa parlare di innovazione nell’arte? Può significare rivoluzione? Nel senso di essere capace di produrre effetti talmente devianti dalle regole del gioco da potersi sciogliere in politica? Direi di no, ma non è neppure pensabile il darsi un punto di vista unificante che tenga insieme territori separati, come quelli dell’arte e della politica. L’impegno innovativo in campo artistico può realizzarsi nel senso di una tecno-pedagogia, come vorrebbe Bourriaud, «una lotta per l’indeterminazione del codice sorgente dell’arte, per la sua dissoluzione, affinché sia irreperibile». La rilevanza di un progetto è data cioè dal riuscire a spostare qualcosa agendo all’interno della categoria arte, in modo da modificarne le regole interne: ma le regole di quel gioco, quello che chiamiamo arte, con i suoi spazi-tempi limitati, e le sue tangenze col mondo. Il massimo di comprensione “globale” dei fenomeni che possiamo avere consiste nel minimo dell’analisi degli attori in campo nei vari settori, osservandone le devianze rispetto alle regole vigenti. L’innovazione è un neologismo, non un fatto nuovo. È interna al sistema, non un salto di sistema. Non è crisi, non è autocritica del sistema, non comporta mutamento generale di paradigma. È un modo nuovo di dire le cose entro ambiti prestabiliti, che può servirci a ridefinire il passato. Per il futuro, non siamo attrezzati.

BIBLIOGRAFIA

Claire Bishop, Artificial Hells. Participatory Art and the Politics of Spectatorship, Verso, London-New York 2012 (ed. it. a cura di Cecilia Guida, Sossella editore, in corso di stampa)
Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia, Milano 2010
Nicolas Bourriaud, Il radicante, Postmedia, Milano 2014
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Arthur C. Danto, L’abuso della Bellezza, Postmedia, Milano 2008
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Massimo De Felice, Paesaggi post-urbani. La fine dell’esperienza urbana e le forme comunicative dell’abitare, Bevivino, Milano 2010
Cecilia Guida, Spatial Practices. Funzione pubblica e politica dell’arte nella società delle reti, Franco Angeli, Milano 2012
Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1999
W.J.T. Mitchell, Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale, duepunti, Palermo 2008
Joseph A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, ETAS, Milano 2002
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Franco Speroni, L’archivio post-testuale: Aby Warburg e il suo Atlante della Memoria, in Mediologia. Una disciplina attraverso i suoi classici, a cura di M. Pireddu e M. Serra, Liguori, Napoli 2012
Franco Speroni, Poesia senza rivoluzione. Per una teoria critica dell’arte pubblica, «ARTE 21», Vol. 1, núm. 2, Janeiro-Junho 2014, Centro Universitário Belas Artes de São Paulo, pp.96-106
Franco Speroni, Mercati dell’arte, in Alberto Abruzzese (a cura di), Grandi temi del secolo, Utet, Torino 2014
Mario Tronti, Parola chiave, Crisi, 1 giugno 2013: http://www.centroriformastato.org/crs2/spip.php?article492

[questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul numero 7 della rivista «OUTLET, Per una critica dell’ideologia italiana», dedicato all’Innovazione (febbraio 2015)]

La fotografia di copertina è una rielaborazione di Alessio Ceccherelli