La mission dei grattacieli

Dubai non è certamente una città che ci dice da dove veniamo. È, invece, una città che ci dice dove stiamo andando. E lo dice con lucidità perché è una città brillante. Una brillantezza non trasmessa dal mare trasparente e amniotico che ne ha segnato la storia, facendone un porto franco nelle rotte dei commerci verso il lontano Oriente o garantendo risorse per infaticabili pescatori di perle. Una brillantezza non dovuta neppure a quel particolare labirinto borgesiano che circonda la città e la cinge: la sabbia levigata del deserto è indubbiamente abbagliante per i viaggiatori occidentali ma non ha la compattezza dello specchio che induce riflessione. Né il mare né il deserto spiegano la particolare brillantezza che caratterizza Dubai o almeno non la spiegano del tutto. Qualcos’altro ne segna irrimediabilmente il profilo e la superficie. Qualcosa che non riguarda bellezze naturali. Qualcosa in tutto e per tutto legato al lavorio dell’uomo, al suo volere e sapere costruire una seconda natura in cui immergersi e abitare quotidianamente. Qualcosa che fonde i materiali edilizi per eccellenza degli ultimi secoli: il cemento, l’acciaio, il vetro. Qualcosa che si erge potente a riformulare la piattezza di un paesaggio segnato, ancora nella seconda metà del secolo scorso, solo dal mare e dal deserto. La brillantezza è dovuta ai grattacieli che, con le loro superfici levigate e splendenti, sfidano la volta celeste. E poiché l’umidità che viene dal mare e la sabbia che viene dal deserto impediscono un sole accecante, la luce che emana da Dubai è come interiore agli enormi edifici che si ergono in ogni zona della città, da quelli che costeggiano la parte più interna del Dubai Creek a quelli di Jumeirah, da quelli lungo la Sheikh Zayed Road agli eleganti alberghi di Dubai Marina.
Il primo, il World Trade Centre, fu costruito nel 1979 ed è alto 184 metri. Da allora ad oggi si sono costruiti settanta grattacieli sopra i 200 metri. Dei cento edifici più alti al mondo, venti si trovano a Dubai, tutti sopra i 300 metri. Con una serie di primati via via raggiunti e superati, in una sfida ai cieli che è innanzitutto una sfida di alta tecnologia. Infatti, costruire questi giganti significa affrontare diverse questioni legate all’ingegneria e ai materiali: dagli impianti energetici, idraulici e di raffreddamento a elementi legati al contesto come i venti del deserto che provocano vibrazioni degli alti edifici o la desalinizzazione e il pompaggio dell’acqua di mare necessaria per il loro rifornimento idrico.
La forza dei grattacieli di Dubai si esprime non solo nel costruito, nelle sfide vinte, in ciò che ormai è consolidato negli immaginari globali come il Burj al-Arab (l’hotel a sette stelle conosciuto come “la Vela”) o il Burj Khalifa (il grattacielo più alto al mondo con i suoi 828 metri, sulle cui lucenti superfici Tom Cruise svolge la sua mission impossible), bensì anche nei moltissimi cantieri aperti in ogni dove, con le gru pronte a sollevare sempre nuove cattedrali di fronte al deserto in quello che è il più grande esperimento di urbanistica offshore del mondo. Cantieri che si fermano giusto poche ore al giorno quando la temperatura raggiunge le sue punte massime, arrivando anche a cinquanta gradi. Cantieri che mostrano un ventre della città palpitante anche al calar del sole, davvero come se fossero ulteriori zone di movida notturna.
In questa città verticale si muove il protagonista del romanzo di Joseph O’Neill: L’uomo di Dubai (in originale The Dog) è un giovane avvocato che decide di lasciare New York per cercare fortuna nell’Emirato, “una città fantastica, reale e/o prossima ventura, un’abracadabrapoli dove gli edifici pendevano uno sull’altro e i grattacieli parevano vacillare […]; una città il cui litorale presentava strane penisole create dall’uomo assieme agli isolotti artificiali all’epoca già ben noti col nome di The World in quanto erano raggruppati in modo tale da evocare, allo sguardo di un uccello, una mappa fisica del mondo; una città dove, dalla terra, spuntavano trampoli che svanivano in una nuvola sintetica a trecento metri d’altezza”.
Si entra così in un regno ai limiti dell’innaturale, in una città eccitante che mette in mostra le sue superfici brillanti: il suo aeroporto ricco di stimoli, le facciate dei suoi grattacieli, le vetrine dei suoi centri commerciali, i suoi condomini esclusivi che rispondono alle aspirazioni di una raffinata clientela offrendo comfort di ogni genere. E questo tipo di aspettativa è condivisa anche dai turisti che soggiornano negli alberghi dubaini, con i loro numerosi piani, i tanti e veloci ascensori, i molti servizi a disposizione. A Dubai tutto è eccessivo, tutto mostra al massimo grado lo sfavillio del mondo contemporaneo.

Vettori economici

Lo sviluppo ininterrotto di Dubai è dovuto a tre vettori che si sono saldati nel tempo: materie prime, turismo e finanza. Il petrolio, certamente. Anche se quello di Dubai è il meno esteso degli Emirati Arabi Uniti e anche se le entrate del petrolio incidono solo del 5% sul suo reddito, un certo ruolo nell’abbrivio iniziale dell’ascesa della città va riconosciuto a questa materia prima. Raffinerie e infrastrutture di trasporto hanno giovato nel far pesare il petrolio come possibile elemento di una sorta di accumulazione originaria. Il petrolio è stato necessario, inizialmente, ma sicuramente non sufficiente, in seguito, per spiegare i progressi di Dubai.
Le scelte politiche degli emiri hanno diversificato l’economia dubaina. Già snodo di scambio tra l’Occidente e le Indie orientali, negli ultimi decenni turismo e finanza hanno determinato il successo strepitoso di Dubai. Un turismo cosmopolita e anche in transito verso l’estremo Oriente. Un turismo che si alimenta di sé stesso più che di monumenti storici o risorse naturalistiche. Un turismo inventato attraverso un’incessante produzione di novità e di attrazioni. Un turismo che trova nelle proprie piattaforme motivi di richiamo: gli alberghi e i centri commerciali sono già motivi sufficienti per andare a Dubai. Insomma, questa città nel deserto è diventata un marchio: un marchio che, richiamando di per sé così tanti visitatori, ha reso ormai Dubai la quarta città più visitata al mondo.
La finanza globale ha trovato a Dubai un punto di approdo: qui si aprono succursali delle grandi multinazionali e si fanno affari con gli sceicchi. Del resto, già intorno all’anno Mille, a proposito delle città, Pirenne segnala che “i principi avevano tutto l’interesse di attirare i mercanti verso i loro paesi, dove essi portavano una nuova attività ed aumentavano fruttuosamente il gettito del teloneo”. Un millennio dopo, gli sceicchi hanno cercato di fare lo stesso: attirare i flussi globali di denaro. E senza nessun teloneo: anzi propri la totale assenza di tasse dirette sia sul reddito che sui profitti è stato il vero magnete per attrarre le multinazionali. Dubai è un paradiso fiscale, forse – qualcuno denuncia – una capitale mondiale del riciclaggio di denaro.
Questa affluenza di turisti e denari spiega inoltre la grande crescita del mercato immobiliare, la necessità compulsiva di spingersi sempre oltre, di continuare a costruire. Anche dopo qualche rallentamento (la crisi del 2008, per esempio), si è ripartiti in nuove avventure immobiliari: tutto affinché il cerchio denaro-turismo-edilizia continui a girare.
Nella strategia di diversificazione, adottata dagli sceicchi sin dall’inizio della loro storia indipendente, va segnalato anche un quarto vettore, più recente ma assai promettente, rappresentato dalle tecnologie di comunicazione con la costruzione di Dubai Media e Internet City dove i grandi big dell’hi tech – dalla Microsoft alla Apple – hanno ormai loro importanti sedi. Petrolio, turismo, finanza e tecnologia: vettori che nei grattacieli trovano l’espressione plastica della loro potenza. Tutto ciò rende Dubai una città lucida, addirittura brillante. Una delle città globali del turbo capitalismo, che ha subito una frenata negli ultimi anni ma che è sempre pronta a riprendere la sua corsa.

Una seconda natura

La brillantezza di Dubai, espressa verticalmente dai suoi grattacieli, non è però immune da polarità, da increspature che, da un lato, mostrano con ancora maggior vigore la condensazione del potere globale; dall’altro, ne rivelano gli irriducibili scarti. Gli sceicchi di Dubai hanno saputo realizzare un controllo profondo sulla natura ricalcando un modello simile a quello presentato nel film Salmon fishing in Yemen di Lasse Hallstöm, nel quale uno sceicco yemenita pretende di portare i salmoni nella sua terra. A Dubai sono riusciti, invece, a portare una pista da sci nel cuore del deserto. Nel Mall of Emirates, infatti, si può risalire con la seggiovia a quattro posti nelle stazioni in cima a quella che è una delle piste indoor più alte del mondo e fare lo slalom sulla “vera” neve caduta nel corso della notte. E una pista ancora più lunga è prevista in un nuovo centro commerciale, posto all’interno del quartiere in costruzione chiamato la “Città di Mohammed”. La neve nel deserto è emblema della capacità di costruire una seconda natura, di porre una “sfida luciferina alla Natura”, come colta da un viaggiatore-osservatore acuto quale Walter Siti. Ma la neve nel deserto è anche un modo emblematico di tenere insieme gli opposti – il deserto e la neve, appunto – e proporne una brillante sintesi.
Una sfida che si è spinta, come abbiamo accennato, a ridisegnare la geografia del suo piccolo territorio. Ridisegnare non la mappa ma proprio il territorio o almeno il tratto balneare: penisole e arcipelaghi artificiali che hanno aumentato notevolmente la linea di costa. Gli emiri hanno coltivato l’ambizione di ricostruire il loro paesaggio attraverso progetti di espansione sul mare, poiché hotel e ville che sul mare affacciano valgono di più. Escrescenze della costa: Palm Jumeirah, Palm Jebel Ali, Palm Deira. E poi arcipelaghi di isole artificiali dai nomi altisonanti: The World e The Universe, arcipelaghi che dall’alto dovrebbero ricordare queste figure del nostro cosmo. Naturalmente l’impatto ambientale sulla fauna e flora è stato alto, alterando le correnti marine, distruggendo barriere coralline, producendo scarti in uno sviluppo che non riconosce limiti. La crisi finanziaria ha bloccato questi progetti: The Universe, infatti, non è stato avviato; Palm Deira interrotto a un quarto; The World e Palm Jebel Ali costruiti ma inutilizzati, abbandonati senza essere mai diventati centri attrattivi di investitori e turisti. Di questi progetti si può cogliere la magnificenza solo nel tronco e nelle fronde di Palm Jumeirah, l’unico sinora davvero realizzato e utilizzato: una penisola di hotel e ville di lusso capace di attirare l’attenzione degli investitori immobiliari (prima di rivelarsi una bolla a seguito della crisi del 2008). Ma forse Dubai rilancerà su questi progetti falliti o su nuovi progetti (come per esempio è successo in relazione all’Expo 2020) perché il suo modello di sviluppo è basato su annunci, aspettative, rilanci, perché Dubai non può smettere di crescere.
La sintesi che Dubai ricerca tra i suoi opposti, tra aridità del deserto e piste da sci, tra caldo torrido e aria condizionata, tra piattezza ed elevazione, tra medioevo e postmoderno, non viene messa in discussione neppure dai souq e dalle dimore delle zone storiche come Deira e Bastakiya. Infatti, se ritmi, colori, odori, suoni e materiali possono rinviare alle tradizionali città arabe, il tutto è confezionato e servito con attenzione postmoderna ai dettagli. Così le poche torri del vento delle antiche case sono restaurate o ricostruite con precisione. Nulla rimanda alle crepe del tempo trascorso. Nulla può passare per rovina piranesiana. Così i souq, dove pure si svolge un’intensa attività di contrattazione su beni di ogni tipo appena scaricati dai variopinti dhow, sono inquadrati da bei portici e inseriti in ben curate infrastrutture frutto del premuroso intervento dei governanti. Nulla è lasciato al caso, all’imprevisto. Neppure lasciando le strade principali e avventurandosi in stradine secondarie si sfugge al capitale globale: i salesman, che acchiappano al volo i clienti per condurli nei loro bugigattoli abusivi, mostrano e cercano di vendere abiti o orologi che non sono altro che imitazioni, più o meno perfette, di quei marchi globali che si ritrovano nei tanti centri commerciali in cui si vive a Dubai e che rappresentano la location principale in cui si svolge la vita pubblica delle donne arabe raccontate nel romanzo di successo Desperate in Dubai della blogger conosciuta con lo pseudonimo Ameera Al Hakawati.
Insomma, the show must go on, sotto le volute degli shopping mall che ospitano le boutique delle grandi firme o sotto forma di contraffazione e vendita abusiva. Il logo vince sempre. Benvenuti nella capitale mondiale del turbo-capitalismo. Benvenuti nella riproposizione consumistica delle esotiche mille e una notte. Welcome to the happiest city in the world, come recita lo slogan che accoglie i viaggiatori appena scesi dagli aerei.

Scarti

Il benvenuto che Dubai dà ai suoi visitatori (Welcome to the happiest city in the world) potrebbe essere riformulato nella frase che Morpheus rivolge a Neo, il protagonista di The Matrix, il famoso film di Andy e Larry Wachowski: Welcome to the desert of the real. Nel film la cancellazione del reale è legata alle tecnologie dell’informazione e produce una simulazione distopica. Nella nostra città, sono il consumo totale e il conseguente benessere materiale che ammantano di sé ogni altra dimensione dell’esistenza, presentando Dubai come “l’ultima utopia”. “L’ultima visione di felicità terrena, che si affaccia alla ribalta della Storia, dopo il fallimento dei sogni (o incubi) del Novecento […] Il benessere materiale garantito a tutti, o almeno a tutti i cittadini, grazie ai prodigi del capitalismo e alle virtù del mercato. Di fatto, uno splendore consumistico che non ha eguali al mondo”, come segnala l’economista Emanuele Felice. Insomma su quest’ultima avveniristica e brillante città, Aldous Huxley dovrebbe insegnarci qualcosa di più che George Orwell.
O, sempre per rimane nel genere della fantascienza, ancor meglio rileggere Herbert George Wells che nella sua Macchina del tempo mostra un’umanità divisa in due razze, gli Eloj e i Morlock, padroni e schiavi di quel mondo. Infatti, ancora Felice segnala che “Dubai è una società altamente polarizzata, dove in basso abbiamo una stragrande maggioranza di immigrate e immigrati sfruttati, al vertice una minoranza di mantenuti; appena sotto la cima, un esile strato di lavoratori occidentali altamente qualificati”.
Così la brillantezza di Dubai, che riesce persino a mettere in scena confronti dialettici per poter poi presentare sintesi più complete e avvincenti, non riesce a emanare dagli occhi dei filippini, degli indiani, dei pachistani, degli africani che si incontrano nei ristoranti, nei taxi, nei souq o che si vedono da lontano nei cantieri dei prossimi giganti di vetro e acciaio. Quando si parla con costoro e si viene a sapere che lavorano dodici ore al giorno a un euro all’ora, quella brillantezza si offusca. Quando il tassista, nonostante lavori dalle 5 del mattino per dodici-quattordici ore consecutive, fa notare la sua condizione fortunata rispetto agli operai dei cantieri che sono costretti a lavorare all’aperto e cioè dentro il forno acceso dalle condizioni climatiche di Dubai, ci si rende conto che quelle superfici brillanti nascondono delle ombre profonde.
Dalle nostre stanze, accessoriate e refrigerate, al ventesimo piano di un grattacielo, dominiamo le baie artificiali e quegli immigrati apolidi, piccole formiche che lavorano nel caldo torrido dei cantieri perenni di questa città in costruzione o negli stessi anfratti misteriosi del nostro hotel, come indistinto se non invisibile personale addetto alle pulizie. Sebbene non ci attardiamo sui bidun (parola araba per “senza”, senza patria, senza nulla), essi punteggiano con la loro indicibile presenza di sfondo la nostra permanenza nella città più felice del mondo e rendono imperfetta la sintesi proposta da Dubai, la cui società rimane letteralmente scissa in universi paralleli: gli sceicchi sempre con l’aria condizionata e gli schiavi sempre al caldo asfissiante. Ecco su queste vite di scarto si infrange quella luce che viene fuori mirabilmente dai grattacieli, dall’hybris dell’uomo postmoderno.
Qui dove il regno è dinastico e la democrazia non esiste, dobbiamo ricordarci che a fare la differenza è una dimensione politica che rappresenta ancora la speranza di riconoscere quelle che nella brillante Dubai appaiono, purtroppo, irrimediabili e irredimibili vite di scarto. La loro invisibilità e la loro afonia rivelano le crepe di una certa partizione del sensibile, di certi modi percettivi, di un certo mondo esclusivo, rispetto a cui si danno scarti che è compito della politica globale far diventare visibili, dicibili, udibili.

Isolamenti e attraversamenti

L’uomo postmoderno immerso a Dubai rischia di non cogliere i suoi scarti umani, di estraniarsi dalla dimensione politica, una dimensione che è pubblica e collettiva per definizione. Pur consentendogli di assaporare il suo lusso e la sua fantasticheria, di godere del suo benessere materiale, Dubai rischia di lasciare, invece, costantemente un senso di isolamento, di solitudine, addirittura di ansia che né gli altri espatriati né gli inservienti né le prostitute d’alto bordo riescono a colmare. E forse non può che essere così visto che la nostra epoca “impone alle coscienze individuali esperienze e prove del tutto nuove di solitudine, direttamente legate all’apparizione e alla proliferazione di nonluoghi” da cui Dubai si direbbe costituita. Come confermano tanti lavoratori stranieri, anche italiani, che si incontrano nei nonluoghi di questa città, vivere a Dubai e lavorare per gli arabi del petrolio e della finanza comporta una certa alienazione. Di più: quando le cose volgono in malo modo per l’anonimo protagonista del romanzo di O’Neill, L’uomo di Dubai, la città dei grattacieli e lo stesso condominio in cui vive si rivelano quasi prigioni o possibili prigioni che lo costringono a una precipitosa fuga. Dubai si rivela null’altro che un ammasso di stanze, piuttosto un miraggio che una meraviglia. Una città che dà l’impressione di offrire una seconda occasione, un’altra vita, ma che, in definitiva, si rivela un’illusione, come le tante sue strade non finite, attraverso le quali gli spostamenti naufragano nei mucchi di sabbia del deserto circostante.
Nel riconoscere questa segreta vendetta del miraggio, si coglie con maggior profondità il senso di una città brillante come Dubai: quello di dispiegare sulle sue lucide superfici le certezze “naturalistiche” dell’homo oeconomicus globale e, attraverso questo dispiegamento eccessivo, sollecitare lo sguardo a cogliere i parossismi a cui queste stesse certezze conducono. A cui conduce la sua hybris.
I tentativi delle megastrutture volti a dominare non soltanto il calore, la sabbia del deserto ma finanche il mare e il sole, dispiegano una meraviglia del mondo, un sogno ad occhi aperti. E proprio in questo modo ribadiscono quell’indicazione che Calderón de la Barca dava sin dal riconoscimento barocco delle ambivalenze della modernità: “la vita è sogno”. Rispetto all’isolamento di Sigismondo, protagonista del dramma di Calderón, nella torre della modernità, noi attualmente abbiamo a disposizione una seconda occasione, una second life: quella offertaci dai gadget e dalle piattaforme tecnologiche. Soli ma tecnologicamente insieme ad altri, definiamo la nostra identità di viaggiatori elettronici, comprendiamo che nell’attraversamento si offre una possibilità, ulteriore o forse unica, di abitare il mondo contemporaneo. In questo attraversamento continuo dello spazio dei flussi, possiamo sperare di sviluppare una certa consapevolezza critica: l’uomo di Dubai descritto da O’Neill, attraverso email immaginarie esprime le sue rimostranze verso i datori di lavoro e verso l’impianto del capitalismo finanziario postmoderno, del quale egli capisce essere semplice ingranaggio.
Tanto la permanenza a Dubai quanto le piattaforme tecnologiche, dunque, sono necessarie a riconoscere l’artificialità della vita moderno-contemporanea. Un’artificialità che però non significa o non comporta di per sé inautenticità e definitiva alienazione. Se, da un lato, il nostro uomo di Dubai con il suo inesorabile humor e il suo linguaggio burocratico pare esprimere cinismo e sconforto, dall’altro, è proprio in questo modo che destabilizza il comfort umanistico e ottimistico dell’élite cosmopolita. Alla fine, Dubai e le tecnologie sono state utili a riconoscere che, nonostante il “Robinson che è in noi”, “neppure l’uomo senza persone a carico è un’isola”, che “la sopravvivenza solitaria non è e non è mai stata umanamente fattibile” neppure nel luogo brillante, nell’oasi dorata che emerge dalle sabbie del deserto. Il protagonista del nostro romanzo prende atto che solo dagli incontri, anche da quelli telematici, dagli sfregamenti voluti o imprevisti si aprono scenari, opportunità, contingenze. Effettivamente, è stato un incontro fortuito in un guardaroba di New York con un suo compagno ai tempi del college, a portare il protagonista su questa costa d’Arabia. Ed altri incontri a Dubai già gli preannunciano che gli spostamenti non hanno termine negli Emirati Arabi: questo è solo un luogo di passaggio verso le prossime mete, verso quelle invisibili città dell’estremo Oriente che annunciano riconfigurazioni del sistema urbano transnazionale. Dopo Dubai c’è Shangai. E così a seguire. Un futuro aperto che sfida l’uomo globale ad attraversare in continuazione spazi reali e virtuali, che offrono opportunità ma oppongono anche barriere e resistenze, che presentano increspature nonostante li si immagina e promuove come piatte e lisce superfici di scorrimento.

[versione rivista, originale pubblicata su: presS/Tletter, dicembre 2021]

Fotografia di copertina di Antonio Tursi