Fioriera di lixo

fig. 6

Pinocchietto

Monnezzao lixo

Chiaramente l’ossessione romana (e non solo) sono i rifiuti urbani e ora racconto quello che ho visto e capito abitando per anni in un predio di media-piccola borghesia (impiegati, funzionari, studenti). I piani sono 17 e abito al 13. Ciascun piano ha 8 appartamenti e sui due lati di ogni piano si trova un sistema a porte di legno dove, quando aperte, si mettono i rifiuti, tranne carta ferro ecc. che vanno al piano terra. La sera passa un operaio che prende il lixo (pr. liscio) e lo mette dentro grandi buste di plastica nera ben chiuse. Poi il tutto si mette su una specie di fioriera di fronte all’entrata in ferro sollevata da terra (fig. 5). A volte passa un senza-casa che apre le buste, prende qualcosa e le richiude, sotto lo sguardo attento del portiere in guardiola fumé. Tra l’altro dei sensori accendono la luce se qualcuno cammina di fronte all’ingresso. In nottata passa il camion su cui stanno attaccati diversi uomini che scendono velocemente dinanzi la fioriera-di-lixo. Il camion non si ferma, rallenta solo, gli operai prendono i sacchi e li lanciano dentro, poi risalgono sui predellini. Il tutto va scaricato nei depositi su cui sono state girate memorabili novelas. In tal modo, le strade rimangono pulite per una sorta di alleanza tra un senso civico diffuso tra i paulistani e una mano d’opera a bassissimo costo. Detto in termini socio-antropologici, questo sistema perfetto funziona in quanto riproduce un modello sociale dove la questione coloniale ancora non è stata risolta: anzi, riproduce una eredità che sembra inossidabile come il concreto, il cemento armato che è l’identità urbana. Ora uso termini superficialidi cui mi vergogno alquanto: in questo quartiere e nel mio palazzo in particolare vivono solo “bianchi”, mentre gli addetti al lixo sono nordestini (virgolette che non bastano a scusarmi della mia bassa volgarità). In realtà, sono tutti paulistani però il sistema di classe si mescola a quello “etnico” e “cromatico” il cui risultato è il paradigma del Brasile: il sistema monnezza/lixo riproduce all’infinito l’incompiuta democratizzazione del paese dalla matrice schiavista-coloniale. Il Brasile è stato l’ultimo paese ad abolire la schiavitù (1888) e nei primi anni delle mie ricerche una mãe de santo (autorità della religione afro-brasiliana Candomblé) mi disse: “mia nonna che era nata schiava…”. Insomma questa incredibile pulizia stradale è in realtà una macchia politica, forse anche una sporcizia etica, simbolo di una questione “razziale” irrisolta. Oggi camminando vicino casa ho incontrato un giovane sui 30 con due eleganti cani al guinzaglio, mentre la mano libera raccoglieva la cacca tenendo una bottiglia di acqua e alcol per disinfettare l’urina canina che appesta il Pigneto…

Nelle zone della movida, invece, i consumatori poggiano le lattine di birra nei marciapiedi non perché insolenti, ma perché si sa che arriveranno i raccoglitori per guadagnare qualcosa sul riciclo, figura urbana su cui sono stati scritti saggi filosofici e letterari infiniti. Le lattine si acciaccano e vengono messe su sacchi trascinati a spalla. Il Brasile è il più gande riciclatore di latta del mondo. Ma non è un esempio di economia/ecologia circolare. Al contrario: è una rigida linea retta razzializzata mascherata da empatia…

Follia liberata

Nel 1992 mi trovavo a Genova per un’iniziativa critica sui 500 anni del “descubrimento delle Americhe”. L’evento si svolse nell’ex ospedale psichiatrico di Quarto, chiuso grazie alla legge Basaglia, la migliore legge dell’Italia repubblicana. Lì incontrai una persona che aveva preferito rimanere a vivere e a lavorare dentro. Era stato in Argentina e in Brasile dove aveva vissuto l’esperienza del Museo do Incosciente a Rio de Janeiro. Aveva un’agitazione interiore, mi disse, e trovava soluzione andando nei boschi, raccoglieva pezzetti di legno e a casa li assemblava con posizioni contorte e asimmetriche (fig.6). Come le sue angosce. Li chiamava Pinocchietti. Poi tornò in Italia ed ebbe l’avventura che tutti possono immaginare, rinchiuso, “curato”, finché arrivarono i medici basagliani che lo liberarono. E allora iniziò di nuovo a camminare lungo i boschi sempre alla ricerca di frammenti di “corpi-di-legno”. Inseriva fili di ferro tra le giunture che i legnetti avevano teneri e forati (forabili) come ossi buchi. Ai piedi e alle mani infilava bacche connesse tra loro e in testa una noce su cui disegnava occhi-naso-bocca. Ne aveva tantissimi di Pinocchietti nel suo atelier. Ne rimasi colpito e affascinato. Lui aveva il viso rigato da pieghe infinite e senza dir nulla me ne regalò tre. Ci abbracciamo e andai via turbato. Ho ritrovato due Pinocchietti nella casa paulistana. Ho pensato che la loro storia dovrebbe essere conosciuta. Quella che si chiama “follia” in lui era un malessere che sento affine al mio. Una agitazione interiore cui cerco di dare soluzione scrivendo brevi note e collezionando immagini. Certo, lui si era ritirato dal mondo e si era costruito un suo proprio cosmo di legni umani dove l’ansia si placava. Oggi devo parlare online sul nuovo film di Cronenberg “Crimes of the Future”. E ho immaginato che alcune delle protesi che si svelano nel film sono affini ai Pinocchietti. Soluzioni diverse a tremori simili. Un’arte sottile e inquieta di trovare soluzione a un corpo da erotizzare e liberare attraverso le contorsioni dell’arte chirurgica del regista o manuale del mio sconosciuto genio.

80

Il 12 agosto compio 80 anni. Sono orgoglioso di essere coetaneo di grandi musicisti che mi hanno ispirato. Per il resto, non vorrei auguri. Questo compleanno per me è un lutto. Si mescolano elementi rituali tra loro non solo diversi ma inconciliabili. La nascita è una felicità, quasi sempre, eppure la festa (almeno la mia) ha il segno oscuro di una fine. Non della morte nel suo senso biologico ma di un lungo tratto della mia vita che collassa nel suo contrario quando avrebbe potuto raggiungere la meraviglia. Perché scrivere su Asfalto questo mio collasso esistenziale? Lo ignoro. Sento l’esigenza di comunicare anche con amici intimi o mai visti di persona che la mia festa si è rovesciata in disperazione. São Paulo per me è stata la seconda città, direi quasi coeva a Roma. La conoscevo bene, pensavo, mi ha invitato nel 1984, poi ci ho fatto ricerca e vissuto. L’ho definita polifonica in quanto aveva cambiato la mia vita, non solo per i suoi flussi così diversi dalle mie esperienze urbane, ma per una passione che si è accesa suoi molteplici ambiti che qui sarebbe troppo lungo narrare. Certo, anche amorosi ma soprattutto che estendevano la mia sensibilità, specie tra le culture indigene. Bororo, Xavantes, Krahò, Guaranì… Ho viaggiato tantissimo per questo Brasile, credo di essere stato quasi dappertutto con calma o veloce: oltre l’infinta Sampa, l’amata Rio, l’affascinante Florianopolis, l’orgogliosa Salvador, la malridotta  Roraima, la nostalgica Manaus, la colta Porto Alegre, la riformista Curitiba, l’elegante Belo Horizonte, l’eccessiva Fortaleza, la dura Recife, le fiamme Cuiabà, l’incompiuta Brasilia, le dune di Natal, il noioso carnevale di Olinda, Goiania dalle belle donne, Santos di caffè e Pelè, Foz de Iguaçu che mi rapì, per non dire di piccolissime città con università vive o isole dai paesaggi mozzafiato. Le amicizie intime per un giorno e per la vita. Viaggiare per il Brasile è sempre stato una bellezza. Mai un incidente, un furto, un’aggressione, una violenza verbale. Per me, dicevo, è un paese senza violenza, anche se so bene la catastrofe prodotta dal commercio di droga, cui non si vuole trovare soluzione che non sia repressione militare, parte del problema. Ora sto qui, invitato da una dolce amica per fare un corso sul “corpo-d’occhio” e a proclamare il mio addio a questa città e a questo paese tanto amato nonostante Bolsonaro e i suoi tanti, troppi seguaci. Tornerò a Roma fratturato ma pronto alle sfide che mi attendono e che sono fantastiche. Rigenerarsi potrebbe essere la parola guida per l’innocenza dei miei Ottanta. Così cercherò di guardare Roma al ritorno come fossi fanciullo che esce dal suo Palazzo Federici per conoscere il mondo… E torno al mio Pigneto pieno di cacche e monnezze ma vivo.

[immagine in copertina di Davide Costanzo]