Tenda ’80

Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 nella via Galvani di Testaccio mise letteralmente le tende il Teatro Tenda. Era uno spazio non molto grande, con panchine di legno, dove si respirava ancora quel clima culturale che Nicolini – indimenticato assessore alla cultura di Roma – aveva favorito mescolando sperimentazioni di avanguardia e pratiche popolari. Fu così che ascoltai per la prima volta dal vivo Meredith Monk, dalle poliedricità timbriche, vocalità inaspettate, tonalità estese, brusche afasie.

Qualche giorno dopo assistetti a un evento sorprendente che modificò la mia formazione: quella sera qualcosa entrò urtando il mio panorama musicale e corporale. E politico. Purtroppo non ricordo in nome del gruppo tedesco, ma non erano i celebri Einsturzende che conobbi più tardi. I musicisti erano tre o quattro e non si poteva dire che facessero musica, almeno nei diversi significati a me noti. Non c’era voce umana né stumentazione conosciuta. Sul piccolo palco erano presenti strumenti di lavoro industriale che venivano messi al “lavoro” da questi operai-suonatori, riempiendo la sala di torsioni acustiche violente. Trapani che tonfavano, una fresia manovrata con acceso furore emettendo scintille e asperità taglienti. Il tutto in crescendo che spiazzava ogni mia coordinata estetica. Quelli che erano gli strumenti del lavoro industriale – su cui avevo appreso concetti di matrice marxiana, quali alienazione del lavoro manuale, reificazione del corpo assoggettato al lavoro morto ecc. – si erano alterati.

Improvvisamente in quel piccolo spazio, uno stridore lancinante e ossessivo sembrava mettere in discussione tutto quello su cui mi ero formato politicamente (Quaderni Rossi). Quegli strumenti forgiati dal capitale industriale, per favorire la valorizzazione delle merci, erano sottratti al loro luogo produttivo per cambiare di segno e di senso. Un’operazione che non mi fu chiara subito, ma che mi lasciò una marca acustica e ancor più “sociologica” sul destino della fabbrica taylorista. Le macchine le avevamo studiate e conoscevamo anche le torsioni dello stesso Marx nei Grundrisse e poi nei filoni del cosiddetto neo-marxismo. Da capitale fisso, le macchine diventavano elemento centrale in un processo di valorizzazione che decentrava il “potere operaio” e la sua forza strutturale nel ciclo produttivo. Forse decentrava era un concetto delicato e troppo “per bene”. Dopo le grandi stagioni di lotte dentro le fabbriche, sembrava che la soluzione della crisi fosse gestita da una nuova rivoluzione cui non si poteva dare il nome di industriale, mentre fantasie idealiste stavano svendendo l’appassito operaio sociale all’emergere niente meno dell’Impero. In realtà, il processo non era comprensibile per le lenti operaiste.

Gli anni ’80 misero in scena un evento realmente rivoluzionario nelle fabbriche dismesse. Non fu opera di sociologi, economisti, politologi: furono alcuni gruppi musicali che nacquero – ovviamente – in quello che fu il cuore della grande industria manifatturiera in Gran Bretagna (Engels il giovane!). Alcune fabbriche iniziarono ad essere abbandonate, ma non dipendeva dalle categorie cui si era abituati, tipo la ristrutturazione. Era un evento gigantesco che non ristrutturava nulla, anzi, abbandonava perché il nuovo stava nascendo e il vecchio sistema non serviva più a nulla. E così alcuni innovatori iniziarono a mettere in scena rumori.

In Italia questo emergere di un diverso panorama sonoro poteva essere ben riconosciuto. Sono stati i Futuristi, infatti, i primi a inventare la macchina intonarumori (Luigi Russolo) con cui offendevano le orecchie ben temperate di borghesi e operai. Eppure la lacerazione tra futurismo e comunismo (e poi operaismo) è stata una delle tragedie incomprese di quell’Italia che favorì la presa di un fascismo già pronto a restaurare presunte romanità.

analogico/digitale 2000

Era iniziata quella sfida oltre-politica, poli-culturale, tecno-comunicazionale tutt’ora “contemporanea”: il passaggio dalla “città industriale” (centrata su produttività taylorista, conflitti di classe, dialettiche “analogiche”, egemonie del “Partito”) verso la “metropoli comunicazionale”, segnata da soggettività mutanti, culture digitali, movimenti tra asfalto lacerato e social ingigantito. La logica dualistica della città industriale tende a essere sostituita dal pluricentrismo metropolitano basato su cultura, consumo, comunicazione, in cui le tensioni tra analogico e digitale determinano i nuovi livelli del potere. I cosiddetti “users” mescolano tempo libero e tempo di lavoro, contribuendo con piacere asessuato flessibile a co-creare un inedito processo di valorizzazione, impossibile da quantificare con le tradizionali categorie.

Nel parlare di spazio pubblico, si utilizza ancora una concezione basata sulla modernità borghese che differenzia lo spazio privato dell’interiorità dalla scena pubblica della collettività. Da tempo è in atto una transizione in cui il concetto di spazio pubblico non è definito dalla distinzione dualistica pubblico-privato: c’è un’espansione del privato in quel territorio che prima era pubblico; e c’è un’espansione asimmetrica del territorio pubblico in un luogo che prima era privato. Ad esempio, la comunicazione digitale è spazio pubblico-privato, il cui tempo si è mescolato con l’ubiquità: ciascuno ha diritti indiscussi di dire tutto su tutto, senza auto-controllo o senso della morale, tanto meno tabù. Lo schermo del mio computer vive lo spazio/tempo dell’ubiquità identitaria che, nel praticare un social network o una conferenza zoom, unifica pubblico-privato, tempo-lavoro e tempo-libero, rende il metodo dialettico o la logica dualista obsoleti.

Rumore’90

Intorno agli anni ’90, venne da me uno studente smarrito che mi chiese la tesi sui Throbbing Gristle. Conoscevo il gruppo non profondamente, avevo visto all’ICA di Londra le loro opere visuali estreme. L’esperienza della tesi fu l’occasione di riprendere il filo interrotto col gruppo industrial sentito al Teatro Tenda. Già, industrial… L’era industriale, la più accelerata e distruttiva della storia umana, aveva mutato di senso per diventare un genere musicale.

Il gruppo britannico Throbbing Gristle è stato tra i primi a sentire e praticare la transizione post-industriale. Il fondatore Genesis P-Orridge affermava “I’mat war with the mass media” con la sua Psychic-TV, praticava l’oltre i tabù del genere con la pandroginia, sperimentava il noise elettronico e droning ossessivo. Gli strumenti del lavoro manuale dell’industria diventarono strumenti musicali di avanguardia. Il ronzio rumoroso diventava soundscape inaudito. Nelle loro foto, si auto-rappresentavano tra scenari industriali diroccati, indossando vestiti disegnati da loro ad hoc, fuori dai canoni tradizionali. La musica rumorosa emerge dalla morte della factory. Le due personalità più significative sono il fondatore Neil Megson, alias Genesis P-Orridge morto recentemente, e Cosey Fanni Tutti. Lui intacca non solo la morte della fabbrica e la sua resurrezione industrial con l’etichetta discografica Industrial Records, ma anche l’identità di genere: la pandroginia. Insieme alla seconda moglie, Lady Jayne, hanno applicato la tecnica del cut-up di Burroughs al proprio corpo trasformandolo attraverso chirurgie estetiche in un “terzo corpo” che mescolava pasti nudi e sessi indecenti. Insomma il corpo come opera d’arte a partire da Fluxus ha coinvolto tanti artisti famosi, tra cui P-Orridge dai pronomi complicati:

“Distruttrice di civiltà o ingegnera culturale. Artista totale o abile, controversa performer. Occultista, provocatrice e, forse, manipolatrice. La più freak di tutti i freak e, soprattutto, un gran casino per chi ne deve scrivere scegliendo il pronome personale più adeguato. S/He, he/r, they… Lui, lei, loro” (Rolling Stone, 2020).

Free ’77

Stava accadendo una rivoluzione molto più complessa che unicamente sonora. Dalle catastrofi dell’era industriale si liberano identità contorte e dissonanti oltre le musiche. Sesso, genere, etnicità, erotismo, pornografia si mescolano in eccessi corporei e sonici imprevedibili e inclassificabili. Tra cui il free jazz

Il concerto indimenticabile dell’Art Ensemble di Chicago in pieno ’77 in un cinema abbandonato al Nomentano è stato l’analogo – su scale musicali diverse- del gruppo industrial-senza-nome, svolto su un piano “etnico” o, meglio, razzializzato. Conoscevo di fama questo gruppo: nelle loro prime performance si presentavano al concerto vestiti in pseudo-stile “africano”, falsi turbanti, pitture sul viso, caffettani colorati con linee geometriche. Poi iniziavano a suonare swing, cioè un jazz “bianco” ballabile, scaldando la platea che si riconosceva in quei ritmi ben sincopati. Improvvisamente si fermavano, pausa di concentrazione, ed esplodeva il free jazz: onde sonore libere, autonome per ciascun solista, verso esplosioni oniriche e acute che lasciava il pubblico stupito, in silenzio, indeciso se capire il senso della provocazione o scappare.

Quella sera il cinema-teatro sulla Nomentana era strapieno. Il movimento del ’77 liberava energie sperimentali che attraversavano le onde della politica, una politica che tentava (riuscendoci ahimè) di incanalare tutto questo arcipelago in transito dentro le “sue” leggi. Nel mio ricordo indelebile (oltre a Lester Bowie), c’è l’a-solo di Roscoe Mitchell, con un mini-sassofono con cui svolse improvvisazioni visionarie attraverso cascate di note che mettevano in relazione angoscia e liberazione, dominio e anticipazione, razzismo bianco e corporeità afroamericane. Occhi dilatati, guance gonfie, corpo inclinato, dita erranti: tutto in lui era alterazione. E quella parte di movimento in sala prima comprese e poi si arrese. L’improvvisazione come disciplina forse era incomprensibile. E altrettanto l’emozione dell’inaudito in quanto irriproducibile.

Panasonic ’90

L’evento dei PanSonic al centro Petra Lata fu un altro evento memorabile, assieme ad Aphex Twin alla ex Fiera di Roma. Avendo una passione musicale trasversale, l’ascolto-visione degli stridori dissoluti e oscuri dei Pan Sonic mi hanno segnato l’esperienza non solo acustica. In realtà si chiamavano all’inizio Panasonic, ma – come è facile immaginare – il colosso nipponico intentò causa e loro cambiarono, secondo me in meglio, il nome: Pan Sonic. L’esperienza sonica coinvolge il tutto. Insieme a loro, Kraftwerk, Aphex Twin, Eistürzende Neubauten costituirono la mia formazione non solo tecno-musicale quanto di una antropologia a venire e che so bene non è arrivata né mai arriverà…

L’ex-fabbrica fu ripresa da una cara amica, Anna Catalano, che sperimentava teatro, musica, arte. Lo spazio a via Pietralata, da cui prese il nome, era offerto a chiunque volesse sperimentare. Nella semi-oscurità di quella serata, le persone si aggiravano come ombre in cerca del nulla. Lo spazio del concerto è di quelli che definiscono il suono. Spazi aperti di cemento scrostato sostenuti da colonne artigliate. Una sorta di enorme loft scoordinato. I Pan Sonic stanno su uno dei lati: sono in due e usano il computer come strumento musicale con una fissità corporale inquietante. Su uno schermo in alto, è proiettato un cubo nero, un essere che si contorceva sulla base delle distorsioni soniche crescenti fino a diventare una linea arricciata e disperata, una sottile tremante linea d’ombra scura, una variazione geometrica costruita di volta in volta dal pan-suono. La musica cigola tra rumorismi post-industriali mixati elettronicamente, perché tutto è suono; le distorsioni timbrico/acustiche sono causate dalle frequenze che raggiungono altezze difficili da udire nei CD. Il rumore-di-suono è forte, a volte fortissimo, è accelerato, raschia ogni possibilità elettroacustica. I due rimangono immobili, muovono appena le mani sulle tastiere, il viso impassibile, l’espressione lontana, direi cupa e indifferente allo stesso tempo, il corpo dritto e leggermente piegato sui visori per seguire o inseguire le torsioni timbriche sul display.

Il concerto, dopo un inizio fosco, si avvita su frequenze sporche, trova tensioni residuali, tenta di placarsi su rivoli acustici elettromagnetici, ma si sente che loro stanno cercando il climax. Infatti, un diluvio parossistico di accelerazioni rumoriste sommerge l’intero loft. Sento tensione e anche qualcosa che ha a che fare con l’angoscia. Forse è la loro angoscia, la cupezza pansonica arriva dentro il corpo aiutata da frequenze che forano. O forse quel contatto tra agonia e orgasmo cercato da Bataille o Burroughs rivive in queste torsioni acustiche.

2022

Il degrado industriale è letteralmente un discendere da un modello industrialista in via di esaurimento verso qualcosa di diverso, di altro, ancora indefinito ma che ha il battito industrial. La parola inglese (come altre che verranno dopo, tipo social) non ha il significato storico: la relazione tra parola e significato non è statica ma cambia nel tempo e nello spazio. In questo caso, industrial è il totalmente altro rispetto a industriale. È la liberazione dal fordismo/taylorismo con un uso distorto degli strumenti ripetitivi e alienanti. Si affaccia un altro tipo di ripetizione, per così dire, i battiti-per-minuto. Era arrivata la tekno nei rave, senza biglietti né DJ tra fabbriche diroccate (Fintek). De-gradarsi, quindi, può significare scendere di grado, abbandonare il grado di operaio per assumere quello del pulsare musica, rumore, noise. E danzare su quelle macerie. Il senso di questo excursus dovrebbe affermare l’impossibile: che cioè certa musica performativa, che esplora l’innovazione acustica oltre i confini dei generi musicali, sessuali, razziali, potrebbe anticipare radicali alterità panumane. Ma ormai è chiaro che queste improvvisazioni sono destinate ad affermare la loro radicale inutilità politica. La citazione iniziale tratta da Muro di classe è, purtroppo, solo una citazione: il testo scritto con stile contrappuntistico tenta di dare senso alle esperienze dell’autore sui circuiti dei rave europei. Le due pagine migliori sono estrapolate dal bel saggio di Francesco Macarone Palmeri sui Free Parties.

Immagine di copertina: Massenzio 80, la proiezione dei film d’essai alla Basilica di Massenzio a Roma, Archivio-Giuseppe De-Boni e Ugo Colombari