La forma segue la finzione

È il 1989, il cantautore Raffaele Riefoli, in arte Raf, si domanda in una canzone Cosa resterà degli anni ’80 anticipando di qualche mese la chiusura di un decennio che si fa coincidere con la caduta del muro di Berlino:

“Anni come giorni son volati via…Delle nostre voglie e dei nostri jeans, che cosa resterà…Di questi anni maledetti dentro gli occhi tuoi…Una verità dentro una bugia… Anni ballando, ballando, Reagan-Gorbaciov… Noi siamo sempre più soli, singole metà”.

Gli Ottanta sono un decennio cruciale, ricco di vitalità e allo stesso tempo di disincanto e malinconia, caratterizzati da posture, atteggiamenti grotteschi e da un’atmosfera decadente.  Cogliere gli elementi culturali per rappresentare un decennio come gli Ottanta non è operazione semplice, occorre ricercare, individuare minimi comuni denominatori per un periodo estetico, sociale, culturale. È il decennio in cui i figli del boom e del consumismo di massa diventano maggiorenni. Si va nelle grandi città per sognare, per non sentirsi tagliati fuori, le nuove divinità sono i supermercati e le loro merci.  Si vive in un periodo di radicali mutazioni politiche, sociali e culturali, caratterizzato da dinamiche disorientanti, attitudini sempre meno convenzionali che hanno sgretolato le grandi narrazioni causando una perdita di punti di riferimento. In Italia il decennio è segnato sin dall’inizio dalla gravità di alcuni eventi che si susseguono. Solo per citarne alcuni: nel 1981 esplodono un aereo nel cielo di Ustica e dopo qualche mese una bomba alla stazione di Bologna, nello stesso anno scoppia lo scandalo della loggia massonica di Licio Gelli. Due anni dopo Papa Giovanni Paolo II viene gravemente ferito in piazza San Pietro, nel 1984 muore Enrico Berlinguer e il decennio si conclude con la morte di Sandro Pertini. Eppure nell’immaginario collettivo gli anni Ottanta sono un periodo dominato dalla cultura dell’immagine e dell’apparenza, dal consumismo, dal mito del piacere e della ricchezza. È il decennio degli happy hour e della Milano da bere, dei giovani rampanti e del craxismo. Sono gli anni della tecnologia, nasce Internet, si affermano le televisioni commerciali. La complessità del momento storico si esprime nella policromia come linguaggio, l’ornamento non è più bollato come anti-moderno, il citazionismo non è più considerato unicamente un gioco intellettualistico, e soprattutto l’ironia diviene utile strategia non solo per l’interpretazione critica del quotidiano ma elemento decifrabile degli spazi e dei luoghi popolati da oggetti banali. È proprio l’elogio del banale attraverso il design di Alessandro Mendini, Paola Navone, Daniela Puppa, Franco Raggi e Alessandro Guerriero con Studio Alchymia a dare forma a una temperatura, a un climax relazionale e sociale che abbandona il rigore ideologico dei Settanta per aprirsi all’effimero, a un edonismo malinconico che non è altro che una rinnovata esigenza di creatività e immaginazione. L’estetica del banale diviene presa di coscienza del quotidiano, un segno, un livello di energia riscontrabile nel dipinto La città banale di Arduino Cantafora. Le profetiche pre-visioni di Jean Baudrillard declinate ne Il sistema degli oggetti (1968) trovano negli oggetti banali, il loro territorio elettivo. Tutto si fa comunicazione, finzione, spettacolo. Nel momento in cui l’oggetto, non più semplice prodotto e merce della società industriale, diventa messaggio e segno tutto si muove verso il suo modo di significazione, di comunicazione. Se il Bauhaus dà vita a una semantizzazione dell’ambiente, per cui tutto diventa oggetto di calcolo, di funzione, il design del banale ribalta e sfrutta la capacità pervasiva del design a tutto il campo dei segni, delle forme e degli oggetti. In questa logica in cui tutto è funzionale, nulla in realtà lo è. La forma segue la finzione.

Il Bauhaus e il design, che pretendono di controllare i significati, soccombono al gioco dei significanti, delle forme, del banale. Al di là del valore d’uso, del contenuto (produzione e significazione), prevale la forma, il codice, i segni. Tutto l’ambiente in cui viviamo appartiene al design, cioè alla logica del valore-segno, che si è ulteriormente radicalizzata con l’avvento della società informatica. Aveva colto la drammaticità sottesa a questo scenario Ettore Sottsass ne Il pianeta come festival (1972/3).

Attraverso la lente del progetto

Sviluppato con la complicità di Fernanda Pivano, il progetto si compone di una serie di visioni ambientate in un immaginario mondo di domani e Sottsass consacra le terre al di sotto dell’Equatore a luogo di festa permanente. Tra ironia e critica alla società dei consumi declina un mondo distopico, indipendente frutto della contaminazione tra culture e linguaggi, il pianeta come festival, composto prevalentemente di disegni in cui forme architettoniche primarie vengono assemblate sull’equilibrio delle emozioni, mette al centro la propria personalissima instabile esistenza. È un invito al coraggio e alla voglia di sognare, ad una generazione consapevole su come “anche sulla palla del pianeta, il tempo oramai è compresso come un foglio di laminato plastico, o è dilatato come un’eternità…Occorre un design che permetta concentrazioni decondizionanti, meditazioni rivelatrici, identificazioni globali, o permetta esperienze pulsanti o ricerche liberatorie, o movimenti disintegranti e può venire in mente di usare le macchine e adattarle a questa idea, può anche venire in mente di usare il consumismo e adattarlo…così che il consumo diventi liberatorio invece che condizionante… questo è molto difficile si sa che è molto difficile, ma non è detto che non si possa provare, tanto finora, che la prova funzioni, non è ancora dimostrato.” Sottsass ci restituisce qui (Il pianeta come festival, “Casabella” n. 365, 1972) un’immagine caleidoscopica di un mondo del progetto che si apre su sentieri al principio poco frequentati, e che però col passare del tempo si allargano a ritmi sempre più incalzanti lasciando disabitate le strade maestre con l’intensità di chi sa raccontare con la grazia e la verità dei poeti che quando non capisci dove stia andando a parare come ci ha insegnato Roberto Bolano ”si mette a cantare all’orecchio una canzone da ubriachi che parlava della morte e dell’amore, le due uniche cose vere della vita”. La vitalità della sua lezione trova in Memphis, uno spazio di azione e critica al sistema industriale del design. Alchymia, Memphis e la Tendenza di Aldo Rossi segnano la cultura del progetto degli Ottanta. È emblematica in questo senso la fotografia di Gianni Berengo Gardin (1985) che immortala nelle Officine Alessi di Omegna, Achille Castiglioni, Aldo Rossi, Enzo Mari e Alessandro Mendini insieme ad Alberto Alessi. Il tentativo di Memphis e Alchymia è quello di ri-disegnare e ri-significare il mondo attraverso materiali in apparenza incoerenti, colori stridenti nel tentativo di generare una scossa elettrica, un pensiero critico. Da radicale, politico, ideologico il design degli Ottanta sceglie la strada della finzione emozionale. Il mobile infinito di Alessandro Mendini (1981 Alchymia) restituisce il desiderio del progettista di condividere un viaggio alla ricerca di complici capaci di disegnare una biblioteca di forme, un mobile filosofico come amava definirlo. Un sistema di pensiero mutualistico e collaborativo che si rinnova grazie alla partecipazione di tanti suoi compagni come Andrea Branzi, Michele De Lucchi, Mimmo Paladino, Francesco Clemente e altri. Sul versante Memphis è la Libreria Carlton di Ettore Sottsass a restituire la temperatura degli Ottanta. Il capitalismo dei consumi è sempre più pervasivo, agli oggetti per la massa ha sostituito oggetti e progetti capaci di identificare i consumatori e i gruppi sociali non per la classe ma per le attitudini, i comportamenti, i linguaggi, gli stili e i riferimenti culturali diversi e frammentati, pulviscolari.

Nasce la globalizzazione sulla scorta delle politiche neoliberiste del presidente attore americano Ronald Reagan e della lady di ferro britannica Margaret Thatcher. There is no alternative è il claim per giustificare le riforme che demoliscono il welfare state aprendo la strada alla precarietà esistenziale contemporanea. Trasformazioni, tensioni che trovano una forma nella prima Biennale di Architettura di Venezia (1980) La Strada Novissima curata da Paolo Portoghesi in cui al rigore e alla pesantezza razionale del moderno si sostituisce la leggerezza della superficie, del banale, appunto. Il disincanto politico e la frantumazione dei grandi ideali collettivi, lasciano spazio al citazionismo, a nuove scansioni cromatiche all’estetizzazione del progetto e  della vita. Emerge un campionario di strategie progettuali che esorcizza la paura di ricadere nell’ombra e nella pesantezza degli anni di piombo, del terrorismo ideologico. Da qui la ricerca di un progetto di una nuova leggerezza.

Nel 1979 ne La condizione postmoderna, Jean-François Lyotard registra molte caratteristiche degli Ottanta, in particolare la frammentazione delle esistenze, gli individui atomizzati perdono sia la capacità di guardare al passato e quindi di sentirsi in continuità dialettica con una storia, che quella, fondamentale, di pensare e immaginare il futuro. II capitalismo degli Ottanta dà forma a un mercato che delinea molteplici opportunità soltanto al suo interno. Gli effetti collaterali sono ampiamente in atto nel nostro presente come il rapporto con lo straniero, sempre ambivalente, teso fra accettazione e rifiuto, il distacco inesorabile dalla politica, l’incertezza del vivere quotidiano sullo sfondo di città impermeabili, nella loro struttura, alle interazioni umane altre rispetto alla forma merce.

È forse questo che resta degli anni Ottanta?

[La foto in copertina è Poltrona Proust, di Alessandro Mendini, 1978]