Dobbiamo essere il più lontano possibile dal luogo del nostro pensare per poter pensare con ordine, con la massima intensità, con la massima chiarezza, sempre solo il più lontano possibile dal luogo del nostro pensare.
(Thomas Bernhard, Correzione)
Guardare dentro, guardare da dentro
Il prolungato isolamento domestico che le politiche di contrasto alla pandemia hanno imposto su scala globale ha prodotto, al di là delle concrete restrizioni alle libertà individuali, conseguenze non irrilevanti sulla percezione del mondo e della propria condizione di chi lo ha subito.
Per circa due mesi, per riferirsi alla durata del lockdown italiano, non solo è stata confinata la vita, ma anche lo sguardo di chi è «restato a casa» – come recitava il mantra imperante nella scorsa primavera, assunto persino a motto di uno dei Decreti emanati dalla Presidenza del Consiglio (11 marzo) – è stato forzatamente rivolto verso l’interno: l’interno della propria abitazione, l’interno della propria famiglia, l’interno di sé stessi. Anche la nostra vita digitale, che sembrava rappresentare una plausibile via di fuga dalla prigionia del privato, si svolge in fondo all’interno di una bolla di interessi, opinioni, sensibilità, orientamenti culturali e politici: il miraggio della libertà online ha corrisposto nella maggior parte dei casi ad una cattività in forme diverse, soltanto un poco meno palpabile (e dunque più subdola). D’altronde le riunioni condotte su piattaforme per videoconferenze – giunte ormai ad essere quasi insopportabili – consentono soltanto di guardare dentro altre vite, altre case, altre librerie: altre (in)sofferenze, soltanto a fatica celate da stanchi sorrisi di default. Il moltiplicarsi degli interni sullo schermo del computer assomiglia ad un inquietante gioco di specchi che, lungi dall’aiutarci a fuggire perlomeno psicologicamente dalla prigione in cui eravamo materialmente costretti, ha finito per accrescere il senso di claustrofobia, gettandoci nell’incubo di non poterne uscire mai più.
Non si è trattato soltanto di una costrizione a guardare all’interno, ma anche a guardare dall’interno: anche volgendo lo sguardo fuori, esso era pur sempre lo sguardo di chi è rinchiuso, e dunque condizionato e orientato dalle limitate possibilità di contatto con l’esterno, che fossero rappresentate da una finestra, un balcone o, nei casi più fortunati, da un giardino.
Guardare da fuori, guardare da lontano
Questa condizione psicologica, accanto a innumerevoli ricadute negative, ha il merito di aver reso evidente quanto sia importante – essenziale – per molti di noi e per la società nel suo complesso la dimensione pubblica e collettiva. Non è però solo questione di «tornare a riabbracciarci», per usare l’espressione dell’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che sembrava suggerire il ritorno ad una melassa appiccicosa fatta di aperitivi in piazza, partite di calcetto, cene con gli amici e shopping sotto i portici, quando invece la vita sociale è anche conflitto, necessario tanto quanto gli abbracci; ciò di cui ci siamo accorti di aver bisogno è anche e forse soprattutto di tornare a vedere la nostra vita nel contesto della società, il nostro privato nell’ambito del collettivo, la nostra casa nella città, la nostra famiglia in una rete di relazioni più ampia e complessa. Al contrario di quanto ci propina la retorica del «guardare dentro di sé», abbiamo necessità di vedere noi stessi da fuori, e possibilmente da una certa distanza, per ridimensionare, comparare, contestualizzare, «mettere in prospettiva», orientarsi, vedere alternative, condividere, politicizzare. Basterebbe soltanto riflettere su quanto sia vitale per chi affronta situazioni di prevaricazione psicologica o fisica all’interno della famiglia, riuscire a collocare questa sofferenza in un quadro sociale, legale, politico più ampio, arrivare a parlarne con interlocutori esterni, comprenderne l’assurdità, intraprendere iniziative legali, unirsi a chi si trova in condizioni simili, e quanto invece possa essere stato terribile trovarsi rinchiusi, psicologicamente prima ancora che fisicamente, nella propria vita.
Guardare l’architettura da fuori, da lontano
Queste considerazioni mi hanno spinto a riprendere con maggior convinzione una serie di riflessioni intorno alla natura e ai compiti della teoria di architettura, che in precedenza avevo iniziato ad abbozzare di fronte alla sensazione che si trattasse di un’espressione ormai inflazionata, tanto inclusiva da apparire vuota di senso. Poiché l’intenzione era quella di risalire ad un significato andato perduto, ripulendolo dalle incrostazioni che ormai lo ricoprono, mi sono rivolto, con programmatica ingenuità, all’etimologia. Nelle polis greche i teori erano cittadini che in occasione di importanti cerimonie ginniche e religiose – i vari giochi panellenici, o la consultazione dell’oracolo di Delfi – venivano inviati ad assistere in qualità di rappresentanti della città; la teoria era precisamente una delegazione di teori. Essi avevano il compito di osservare la cerimonia, di parteciparvi ma dall’esterno, da spettatori, necessariamente posti ad una certa distanza.
Questo osservare da fuori, pur continuando a rappresentare una delle parti in competizione, potrebbe ben essere preso a modello per la teoria architettonica: essa dovrebbe in fondo guardare alla disciplina da una posizione esterna, senza perdere del tutto il legame con l’azione in campo, ovvero con la prassi professionale. In questo senso una teoria dell’architettura è precisamente una visione dell’architettura, o anche un’idea di architettura, un altro termine etimologicamente legato al verbo «vedere» (ἰδεῖν).
Osservare un oggetto dall’esterno significa comprenderlo all’interno di una visuale ampia, vederlo insieme ad un contesto, metterlo in relazione con ciò che lo circonda. Osservare un evento da lontano significa percepirlo con un certo distacco, nonostante il coinvolgimento personale che ci ha condotto ad essere spettatori. È pur vero che ogni visione, anche la più ampia, in quanto caratterizzata da un punto di vista (per quanto esterno e distaccato) e da un angolo visuale (per quanto aperto) sarà sempre parziale, e quindi certamente incapace di abbracciare tutto; d’altronde altrettanto certamente ogni visuale esterna, per quanto parziale, sarà capace di cogliere di volta in volta l’oggetto insieme a qualcosa di altro con cui esso si trova in rapporto.
Osservare l’architettura dall’esterno significa per esempio chiedersi che cosa essa sia (e che cosa non sia), ovvero provare a definirne lo statuto ontologico e a disegnarne con più chiarezza i confini con altre discipline e, al tempo stesso, ad acquisire maggiore consapevolezza dei casi in cui quei confini si fanno più incerti, fino quasi a scomparire. Uno sguardo esterno può inoltre contribuire a porre il problema dell’autonomia rispetto ad una più generale struttura del sapere e dell’operare umano e in particolare rispetto ai campi dell’etica e della politica, o ancora possono essere indagati i riferimenti ai principi di autorità che ne garantiscono la dignità, le relazioni con i significati che essa vuole incarnare, le concrete condizioni di produzione; più in generale l’architettura, se guardata dall’esterno, può essere collocata in rapporto con altri oggetti sociali che la comprendono, o la trascendono, o si collocano in posizione adiacente.
Come durante il lockdown salutare i vicini dal balcone costituiva soltanto un surrogato della dimensione sociale e collettiva, così se ci si limita a guardare fuori da una posizione tutta interna alla disciplina architettonica si finisce per assorbire acriticamente parole d’ordine formulate in altri contesti: «sostenibilità», «resilienza», «smart» per menzionare solo i casi più eclatanti; si tratta di sguardi fugaci lanciati dalla stretta feritoia della nostra prigione, pensando che il mondo sia tutto lì, come nella parabola cinese della rana in fondo al pozzo. Al contrario uscire dal recinto disciplinare e allontanarsene aiuta a percepirlo come una gabbia ideologica, ovvero come uno strumento di sottomissione utilizzato dal capitale per asservire ai propri fini l’architettura e l’urbanistica, anche e soprattutto nelle loro declinazioni più progressiste. La teoria così intesa costituisce dunque uno strumento per demistificare l’ideologia, come ha fatto notare Pier Vittorio Aureli – non per niente una delle poche figure che nel panorama contemporaneo si meritano la definizione di teorico dell’architettura – nel suo Il progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo; Aureli, descrivendo la posizione di Mario Tronti, confronta la capacità di «rendere visibile» propria della teoria con l’ideologia come «fede cieca nel progresso»: per Tronti la teoria è «la costruzione di un punto di vista basato sul terreno solido di concrete categorie concettuali».
Probabilmente non si tratta di riflessioni scisse dai concreti problemi connessi al fare architettura. Lo sguardo esterno della teoria può infatti aiutare a definire il senso complessivo e profondo della propria prassi, in relazione al contesto economico, sociale e culturale, etico, politico nel quale essa è inserita; essa assomiglia ad una mappa o persino ad un servizio di navigazione gps – dove possiamo osservare i nostri stessi spostamenti integrati nella cartografia digitale – in grado di orientarci nelle scelte professionali. Karl Popper nella Logica della ricerca scientifica citava in esergo un passo dei Dialoghi di Novalis: «Le teorie sono reti: solo chi le butta pesca»; e, riprendendo il medesimo concetto, scriveva nella propria Autobiografia intellettuale: «senza teorie non possiamo nemmeno cominciare». Niente di meglio per spiegare il valore pragmatico della teoria. D’altra parte la versione aggiornata dei teori greci – il tifo sportivo moderno – suggerisce come sia possibile osservare e allo stesso tempo partecipare a ciò che si osserva, anche con una certa veemenza.
Uscire da sé stessi
Spostare il punto di vista all’esterno della disciplina, possibilmente lontano da essa, per costruire una teoria, costituisce certamente un’operazione intellettuale, un’astrazione metodologica.
Forse però il modo migliore per praticare questa operazione è intenderla come una forma di esercizio spirituale; Jack London, in un romanzo un po’ strampalato, suggeriva che evadere da una prigione – quale che sia – vuol dire prima di tutto (o forse soltanto) uscire da se stessi:
Non fui più che un puro spirito, un’anima, una coscienza morale. Chiamatela come volete questa cosa senza nome, che occupava sempre un punto del mio cranio, ma che continuava ad espandersi, ad andare oltre. E arrivò l’istante in cui mi sciolsi dalla terra e partii. D’un solo balzo, mi trovai oltre il tetto della prigione, nel cielo di California, e fui tra le stelle…
(Jack London, Il vagabondo delle stelle)
*La fotografia di copertina fa parte del progetto del fotografo Andrea Bosio “Viaggio dentro”.