Alexis Tzompanakis

A differenza dei territori non-urbani a bassa densità della città diffusa (Indovina 1990), imperniati sui percorsi-matrice delle direttici infrastrutturali, i paesaggi urbani mediterranei sono intrinsecamente caratterizzati dalla persistenza della tradizione urbana e dall’ibridazione tra la densità mediterranea della premodernità e la rarefazione diffusa della città contemporanea.

Permanenza e ipermanenza caratterizzano un paesaggio urbano strettamente legato alle tracce che su di esso si sono sovrapposte determinandone la stratigrafia e definendone la forma. Allo stesso tempo, tale paesaggio urbano si trova immerso nella modernità avendone a disposizione solo le forme, passepartout morfologici pronti all’uso, ma senza averne assimilato i valori.

Nell’introduzione all’edizione ellenica della Storia dell’Architettura Contemporanea, Frampton ebbe a definire Atene «città moderna per eccellenza», in quanto alla modernità della città neoclassica che si sostituiva al borgo ottomano premoderno, faceva seguito il Moderno del cemento armato come cifra della tecnica.

La tecnica, con la sua supposta neutralità, nascondeva, sotto il tappeto della città moderna, quel processo brutale di sostituzione edilizia che andava inesorabilmente cancellando tanto l’architettura vernacolare premoderna, quanto l’esperienza della città neoclassica sedimentate nella lunga durata (Braudel 1987). Atene, oltre a essere «moderna per eccellenza», è anche violentemente moderna, di una modernità non di principi, ma di tecnica.

La tecnica agisce, dunque, sia sui processi edilizi (tecnica del cemento armato) che sui processi di piano (tecnica del piano), in maniera pervasiva eassai meno oggettiva di quanto si sarebbe portati a pensare. Essa è lo strumento nelle mani delle classi dirigenti uscite dalla guerra civile (1945-49) per creare consenso senza ampliare le pratiche democratiche attorno alla costruzione della città.

Il Moderno come strumento di egemonia

Il necessario patteggiamento con la premodernità, dato dall’impossibilità della modernità di essere moderna tout-court (Latour 1995, Genovese 1995), lascia dietro di sé residui dove premodernità e modernità si sovrappongono, ibridandosi a vicenda. La produzione architettonica stessa risente di tale ibridazione. Le opere di architettura degli anni tra le due guerre, infatti, dimostrano una ricerca impregnata dello spirito rivoluzionario del funzionalismo mitteleuropeo (Gakoumatatos 2001) così come questo veniva recepito dall’elite borghese e declinato dagli architetti (con intonaci”ruvidi”di graniglie di marmo), sub specie mediterranei. Al contrario, le opere successive al Secondo Dopoguerra sono di un Moderno monumentale e brutalista “di ritorno”, non elaborato autonomamente dall’interno, ma “importato” dagli Stati Uniti dove stava diventando il linguaggio dell’egemonia mondiale.

«L’eclettismo classicheggiante e vernacolare» (Zevi 1950) del meraviglioso volume di vetro aggrappato a un monumentale architrave, che Gropius progetta per l’Ambasciata degli Stati Uniti ad Atene, è un magnifico pezzo di architettura e un chiaro esempio di questo ibridismo; un volume didascalico che vuole proporre, in terra Attica, una formidabile rielaborazione del classico (seconda forse alla sola Nationalgalerie di Mies), imponendo l’architettura moderna made in USA come s’impone la pizza importata da Little Italy invece che da Napoli: entrambe fanno vedere chi comanda.

Quando dall’architettura si passa alla città, al suo disegno e alla sua gestione, tale ibridismo diventa ancora più chiaro: non vi è una dialettica tra classi all’interno di un quadro istituzionale in cui si media il conflitto, ma una lotta tra bande (di Stato e di speculazione) interessate a negare il conflitto favorendo la nascita e lo sviluppo della para-urbanistica (o urbanistica “informale” (Filippidis 1990) come valvola di sfogo delle disfunzioni accumulate.

Se in Italia l’architettura Neorealista, strapaesana e catartico-paternalista, ha un chiaro progetto politico attraverso cui attutire il conflitto, qui, il progetto politico è la negazione stessa del conflitto. In tale progetto, il ricorso alla tecnica trasforma l’architettura in un cinico strumento di produzione dello spazio urbano (Lefebvre 1976) e di perpetuazione delle sue contraddizioni.

Dal punto di vista della costruzione edilizia, infatti, il tipo della “polykatoikia”, la palazzina a schiera con fronte urbano continuo, viene a dar man forte alle truppe cammellate della tecnica, assurgendo a strumento principe del consenso. La “polykatoikia” è un tipo moderno prodotto attraverso un meccanismo premoderno che non prevede la circolazione di denaro. E’ il sistema dell’antiparochì, dello “scambio in vece di prestazione”, una specie di baratto premoderno tra il costruttore che costruisce con mezzi propri e il proprietario che fornisce il lotto. Entrambi vengono ricompensati “in natura”, attraverso la percentuale pattuita sulla cubatura costruita. Tale pratica, basata su piccole società di costruzione e su manodopera non specializzata, si sostituisce di fatto allo Stato nel regolare la politica abitativa, creando, allo stesso tempo, un ceto di piccoli proprietari.

Come gestire il consenso

Dal punto di vista della prassi urbanistica, invece, il ricorso all’urbanistica “informale” sembra essere adottato come prassi-ombra da uno stato sgangherato, le cui disfunzioni, tuttavia, si dimostrano non casuali ma indirizzate a creare e gestire il consenso, usando lo stumento del piano (e le sue innumerevoli deroghe) a volte come bastone e a volte come carota.

In un mostruoso accavallarsi di premodernità, modernità e postmodernità ante litteram, l’urbanistica “informale”, producendo junkspace (Koolhaas 2006), legittima la tecnica come meccanismo di costruzione della città. Al rafforzamento dell’urbanistica “informale”, corrisponde l’autolegittimazione della macchina statale. I pochi interventi di edilizia residenziale pubblica, infatti, devono dimostrare che lo Stato esiste, ma, non potendo ampliare la platea degli assegnatari, lascia campo aperto all’urbanistica “informale”, legittimando di fatto un nuovo contratto sociale cui la (piccola e grande) speculazione partecipa in prima persona.

Stuoli di lumpenproletari, contadini inurbati che diventano piccoli proprietari, partecipano allegramente a un banchetto di razzia del territorio di cui spettano loro solo le briciole, ma tant’ è: il conflitto sociale è disinnescato e con esso anche il valore redistributivo del Piano. L’ibridazione tra modernità e premodernità ha creato i suoi mostri.

In questa galassia pulviscolare che diventa città, lo spazio pubblico come luogo privilegiato di elaborazione della sfera pubblica (Habermas 1977) non esiste. Ovvio. Perché dovrebbe? Consenso ed egemonia non si concretano nella sfera pubblica ma sono il prodotto di pratiche informali e premoderne, residui di una modernità fallimentare.

Premodernità e nemesi

Lo spazio abitativo della palazzina moderna è il campo di battaglia della schizofrenia della nemesi: il contatto con il suolo è edulcorato, mediato da un piano terra rialzato e da superfici impermeabili, perché l’affrancamento dal suolo agricolo è stato arduo e difficile e adesso non possiamo tornarvi a cuor leggero, mentre l’antropologia urbana premoderna delle terre di origine, con i nuclei familiari organicamente dislocati nel tessuto,viene riprodotta nella sezione della palazzina con l’aggiunta dei ferri di richiamo per eventuali “organici” sopralzi.

Il corpo moderno della palazzina viene così pian piano eroso da abusi e corpi estranei premoderni che su di esso si incistano: cataste di legna e depositi vari nei piani pilotis, mentre il tetto a falde o il portico in legno e coppi con la loro dirompente potenza archetipica e vernacolare vanno a coprire il terrazzo del piano rientrante, confermando la sgarrupatezza endemica all’organicismo della tecnica.

Se nel Campo Marzio di Piranesi l’eccesso di storia porta a collidere i singoli tipi edilizi annullando qualsiasi intenzionalità urbana, qui nella periferia mediterranea è la città stessa che, implodendo, giunge al paradosso di negarsi. La sommatoria di microcosmi premoderni, enclaves autocostruite basate sulla griglia come matrice urbana, nega di fatto la forma urbana significante. Le molteplici griglie urbane in ossessiva paratassi non definiscono una “città per parti”, autonome e formalmente definite, ma un brodo urbano in cui galleggiano frammenti che collidono tra loro formando un tetris “generico” ma tuttavia ancora capace di produrre tessuto per virtù di densità. Tale tessuto, variegato e vivace, non imbalsamato nelle logiche compartimentate della carta di Atene, deve la sua vitalità proprio a quei processi “informali” secondo cui l’architettura della serie e del catalogo (Lanzetta 2012) parte da modelli “alti”, li massifica e li disloca a creare morfologia urbana. E’ tuttavia nei territori estremi della città diffusa che tale pratica si dimostra incapace di produrre urbanità: le griglie si erodono a vicenda negando il luogo e il contesto, in una vorace conquista di territorio dove la campagna si fa palazzina e dove strette lingue di asfalto separano i lotti ex agricoli della metropoli della periferia mediterranea.

La città che si fa da sé

In questo territorio allo stesso tempo congestionato e a bassa densità, oggi appannaggio del banale, dell’”informe” e del non-finito, gli architetti guardano (vergini) la città che si fa-da-sé, malgrado loro. La buona architettura nulla può, se non altro per ragioni legate alle ridicole percentuali delle cubature da essi costruite.

La malcelata falsa coscienza di questo Junkspace “generico” trova i suoi sepolcri imbiancati nei concorsi di achitettura. Negli ultimi dieci anni, infatti, la stragrande maggioranza di essi riguarda il settore scientifico-disciplinare del paesaggio: gli interventi nei brownfields e nelle aree dismesse di ogni ordine e grado (industriali, portuali, militari, estrattive, finanche cimiteriali) sembrano essere la panacea di tutti i mali della città mediterranea. I problemi della progettazione della città vengono saltati del tutto in favore di soluzioni che cercano di farsi spazio attraverso il ricorso a una specie di autismo/automatismo paesaggista; si tratta di soluzioni in definitiva di decoro, che non mettono in dubbio, ancora una volta, gli strumenti di costruzione della città

Di nuovo una grande opera, la Fondazione Niarchos progettata da Renzo Piano, è lo specchio della nuova egemonia della mimetizzazione: sotto un bellissimo piano inclinato di terra battuta, punteggiato di ulivi mediterranei disposti a creare un giardino neoclassico alla francese (sic), si inseriscono il nuovo Teatro dell’Opera e la nuova Biblioteca Nazionale. Il dorso di questo dinosauro buono è una copertura praticabile che conduce alla grande loggia dalla quale si vede il Golfo del Falero, cui l’accesso è precluso da un fascio di infrastrutture. Se lo spazio pubblico nella città non c’è, dunque, poco male, perché ce lo forniscono gli armatori che hanno donato l’opera allo Stato. Se la Fondazione è troppo fuori scala, poco male, perché le polykatoikie-nani che caratterizzano il tessuto circostante continueranno a relazionarsi alla propria enclave e a guardare con diffidenza il nuovo dinosauro così come prima guardavano con indifferenza uno smisurato terrain vague.

Il paesaggio sembra essere dunque la nuova tecnica, la nuova strategia neutra, capace di aggirare i reali problemi nascondendoli, come il dorso del dinosauro buono, sotto una coltre permeabile e perbenista. Questo tentativo di evasione è di certo il risultato di un riflesso pavloviano che ci guida, dopo decenni di cementificazione, verso una sorta di automatismo della falsa coscienza secondo cui “tutto è paesaggio”, lasciando da parte, una volta ancora, domande e responsabilità.