Katia Ippaso

«La felicità non è grande, ingombrante, misteriosa. Non arriva all’improvviso come un raggio di sole che ti avvolge e ti scalda. E’ fatta di giornate laboriose, di senso di sé, di incontri, di affetti, di libertà»scrive Ritanna Armeni in un passo del suo ultimo romanzo, Per strada è la felicità (Ponte alle Grazie, 244 pp., 16 euro). Un libro magnifico, di scrittura limpida e respiro calmo, che si disallinea da tante narrazioni sul Sessantotto per maturità e joe de vivre. Come si può essere insieme così sapienti e così spudoratamente giovani? La risposta si trova nelle pagine di questo delicato oggetto narrativo che va maneggiato con cura, sospendendo ogni pretesa di aver già capito tutto del Sessantotto e del femminismo. E’ un patto che, da lettore, non è difficile fare, poiché sin dalle prime pagine si entra in un mondo avvolgente, capace di riattivare i sensi e la vita immaginativa di chi ha partecipato alla rivoluzione studentesca, e di parlare anche a chi non c’era e si è dovuto affidare al racconto di padri e fratelli maggiori per disegnare un perimetro al cuore in fiamme. Nel personaggio di Rosa, giovane studentessa di Lettere e Filosofia giunta dalla provincia nella capitale, Armeni deposita i semi del furore creativo, lasciando che l’iniziazione politica e amorosa della protagonista sbocci davanti ai nostri occhi partecipi, senza che la narratrice si faccia mai tentare dal giudizio storico rispetto ai fatti narrati.

Iniziazione sentimentale

Specchio dell’autrice da giovane, Rosa arriva dalla Piccola Città, padre operaio e madre impiegata part-time alla Standa. Nessun dramma particolare alle sue spalle: si percepisce, anzi, nel modo con cui la ragazza entra nella Grande Città la sicurezza ontologica (in questo caso non sfacciata, più interna che esibita) che hanno i figli molto amati, quelli che vengono lasciati in pace a crescere. Il processo di allontanamento di Rosa dalla provincia è un fatto naturale, che si modula attorno ai passi affebbrati e insieme consapevoli di una iniziazione sentimentale. Romanzo di formazione in senso compiuto, Per strada è la felicità segue Rosa nel suo apprendistato umano, sessuale, politico, anno per anno. Luogo dell’accadere mitico: Roma. Il 1968 entra in scena con la fatica dei ciclostili scaricata sul corpo delle giovani donne (agli uomini il privilegio della parola e del palco), con le occupazioni, la scoperta dell’eros e l’esperienza della Comune, la prima casa in cui vivere insieme agli altri studenti in rivolta. Nel 1969, Rosa conosce da vicino gli operai della Fiat, in una giornata di fuoco e tempesta che avrebbe messo, in maniera subliminale, attraverso l’esperienza di una amicizia paziente, ben altre radici sentimentali nella sua vita. Ed è nel 1970 che cresce in Rosa, passo dopo passo, all’inizio silenziosamente, poi con un simbolismo teatrale (aspettiamo il film: sarebbe un peccato non farlo), il germe della rivolta femminista, che porterà a un addio e a una lunga corsa verso la libertà.

Rosa più Rosa

Rosa non è sola. Con lei c’è Rosa Luxembourg. E’alle pagine teoriche della pensatrice polacca che all’inizio la ragazza si rivolge, spinta dal suo professore, ma ben presto la tesi di laurea cambia forma, e sono le lettere di Rosa Luxembourg a Leo Jogiches il combustile delle sue nuove notti, la trama incendiaria attorno a cui scolpire i giorni della consapevolezza.Mentre scopre che Rosa Luxembourg, la grande teorica e rivoluzionaria ammirata da Lenin,«aveva sbagliato», consegnandosi, pur nella contraddizione dei gesti e delle parole, alle prepotenze dell’uomo che amava, Rosa Miglietta arriva a gettare le basi di una nuova rivoluzione, in compagnia di altre compagne sue coetanee, per allontanare sul nascere lo spettro della sottomissione, la costruzione di un perfetto sistema di obbedienza e violenza che trova nella legge amorosa la sua plateale giustificazione. Tutto questo passa, in Rosa, attraverso il dolore della separazione, la forza del distacco.

Ed è in questo passaggio che si delinea, quasi impercettibilmente, la pratica di una felicità che si rifiuta di vivere al riparo del dogma. Compreso il dogma della strada. E se è vero che per strada Rosa fa esperienza della libertà, avvicinandosi a un nuovo mondo, è altrettanto vero che tutto il racconto di Ritanna Armeni si disancora dalla facile mitologia della strada. «La felicità lei l’aveva trovata per strada nei giorni in cui aveva deciso di cambiare il mondo, e l’aveva riconosciuta. Ne avrebbe voluta ancora» scrive l’autrice, interpretando il furore di Rosa Miglietta. «Ho una voglia maledetta di essere felice e sono pronta a combattere per la mia dose di felicità con l’ostinazione di un mulo» aveva scritto Rosa Luxembourg.

Le vie secondarie

Ma questo è solo il primo movimento di un processo di affrancamento. «Avrebbe voluto essere lieta, schietta, serena, capace di affermare le verità più scomode, di lottare per la rivoluzione e per l’amore» continua. «E invece il veleno della tristezza si era insinuato nella sua vita».

E’l’esperienza del dolore, a dettare a Rosa il coraggio di avanzare da sola, camminando lungo i bordi di una strada che solo parzialmente è collettiva. Una strada che è fatta anche di solitudine, di studio, di camminate senza meta, del piacere dell’anonimato che solo la grande città può darti: «La felicità coincideva, a volte, persino con la solitudine. Con l’ebbrezza che la coglieva nelle strade che non conosceva, dove nessuno la salutava, nei tram che sferragliavano sulle rotaie, nel caffè che si concedeva nei bar, nel suo primo film in un cineforum…La felicità era agli angoli delle strade, nelle bancarelle di fiori sparsi per la città. Niente garofani, gladioli, rose, niente cellophane, come usava nel negozio del fioraio in provincia…Nelle bancarelle di Roma i fiori erano tanti, diversi, colorati, avvolti nella carta, senza neanche lo spago. E chi li comprava, spesso solo un mazzetto, lo faceva per sé».

La felicità di cui scrive Ritanna Armeni risiede, dunque, nella capacità di disegnare una seconda strada sulla prima: un angolo di osservazione ritagliato dentro la piazza che urla compatta, una stanza dentro la casa, una via secondaria, fino a quel momento inesplorata, che parte da un pensiero veramente pensato. Un luogo sconosciuto ai più, in cui ogni cosa è illuminata «dall’amore per l’umanità così com’è e non come dovrebbe essere».