Marco Petroni
Adesso posso dirlo,
perché adesso lo so con certezza, che la città non ci voleva bene.
James Baldwin, Se la strada potesse parlare
Una delle strategie psicosociali iniettate nelle società contemporanee dal neoliberismo è quella di farci credere e mostrare un mondo globalizzato dove ogni forma di conflitto può essere depotenziata e cancellata. La pandemia ancora in corso ha rivelato come questa narrazione sia, in realtà, fumo negli occhi e come nel profondo del mondo globalizzato alberghi la paura dell’altro e il timore che le nostre vite e le nostre società siano minacciate. «Pensavamo di procedere a grandi passi verso territori pacificati, ed eccoci di fronte a un ritorno di conflittualità, vistoso tanto a livello individuale quanto sociale» (M. Benasayag, A. Del Rey, Elogio del conflitto). A rivelare questo ritorno del conflitto come espressione diretta di una mancanza che si appiglia a ogni singola esistenza e che può orientare azioni ant/agoniste è il paradosso esistenziale nel quale ci troviamo immersi. Le misure restrittive della socialità messe in atto per arginare il dilagare del virus hanno definito come l’idea dell’altro stia assumendo connotati sempre più larghi. Dobbiamo cominciare a pensare alle altre specie, alle altre forme di vita che ci tengono in vita, come prolungamento di noi stessi. Il tema della comprensione dell’altro da noi, a questo punto della nostra storia di specie, è centrale. Ecco che le società contemporanee si mostrano per quello che sono: dispositivi di controllo organizzati al servizio del capitale in cui i ruoli sociali si stagliano su una gerarchia dominata da profonde diseguaglianze.
L’economia della disparità
Basta leggere qualsiasi articolo o saggio dell’economista francese Thomas Picketty per rendersi conto di quanto il neoliberismo sia un sistema basato su un’economia della disparità. La pandemia ci ha chiesto il conto di queste diseguaglianze rivelando come la demolizione dei sistemi sanitari nazionali e del welfare in generale ci abbiano colti impreparati e disarmati di fronte a un evento imprevisto come la diffusione globale del virus Covid-19. Ora ci troviamo su una linea di faglia storica di importanza e implicazioni enormi, in un momento in cui tutta una serie di contraddizioni prodotte dal sistema e subito occultate stanno ritornando in superficie dopo aver lavorato a lungo sottotraccia. Questo è ciò che sta succedendo, lo leggiamo nei dati che restituiscono la spaccatura sociale prodotta tra chi era garantito e chi, schiavo della precarietà, non riesce più a vivere. Il mondo è in fiamme, in un Paese dopo l’altro, per i motivi più diversi, a iniziare dagli Stati Uniti, emergono movimenti di strada, di protesta che rivendicano il diritto alla vita e non alla sopravvivenza nella paura. Questo dilagare della protesta testimonia che il problema non è in questa o quella sfera sociale, ma è in tutte contemporaneamente. Nascono così movimenti che resistono alle pressioni esterne, si fanno attraversare da esse, ma mai scalfire. Nasce così una esuberante e vivace rappresentazione di resistenza.
L’Italia della paura e della fame
Bisogna notare come anche l’Italia faccia parte di questa crescente conflittualità. L’isolamento forzato e l’insicurezza costante hanno agito come catalizzatori, esacerbando un disagio latente e, in molti casi, già al limite del sopportabile. Ad alimentare la frustrazione, oltre al primo lockdown, sono state anche le inevitabili chiusure successive, per quanto a singhiozzo, il senso di incertezza e paura, l’impossibilità di programmare il proprio futuro, i messaggi contraddittori del governo e le direttive di regioni che cambiavano colore a settimane alterne. La pressione psicologica ed emotiva accumulata dalle persone più colpite dalle restrizioni sociali è sempre più difficile da contenere e gli scontri che avvengono nel nostro Paese con una ciclicità sempre più ravvicinata sono segnali di un conflitto che inizia a manifestarsi in maniera evidente. E’ sempre più chiaro come il conflitto si manifesti in quelle zone, luoghi, relazioni in cui si palesa quello che Freud definiva Unheimlich, l’inospitale, il perturbante. La pandemia ha rivelato come un senso diffuso di spaesamento, un sentimento di smarrimento si sia fatto pervasivo e detonante. L’essere senza casa si manifesta come tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato. Il tentativo di questa riflessione è quello di spiegare ciò che sta veramente accadendo provando a evidenziare la permanenza di spazi liberi dal controllo del capitalismo in cui è possibile leggere un futuro di riscatto che rimane l’unico modo con cui possiamo dare senso al presente; «possiamo comprendere il valore di quello che ci circonda solo dalla prospettiva di un mondo immaginario di cui non potremo mai intuire i contorni, anche se ci trovassimo al suo interno» (D.Graeber, La rivoluzione che viene. Come ripartire dopo la fine del capitalismo). In breve, sembra che la fiducia nel sistema si sia esaurita e che questo cominci a vacillare. La motivazione principale è da individuare in un modello/sistema economico che stritola le classi meno abbienti.
Le baby gang londinesi
Se guardiamo a Londra e al sempre più diffuso fenomeno delle baby gang, notiamo che l’americanizzazione culturale della scena criminale è figlia della progressiva mimesi con il modello socio-economico Usa. I tagli al tradizionale solidissimo welfare, dei conservatori dopo quelli del Labour di Blair e dei suoi successori, hanno trasformato Londra in una polveriera. Una città con un costo della vita molto elevato, dove una casa diventa un lusso per gli altissimi costi delle abitazioni private e per la riduzione del patrimonio immobiliare pubblico a un misero 6% (era il 41% nel 1979, quando fu approvato il Right To Buy Act), il salario minimo di 7,50 sterline lorde all’ora permette al più di sopravvivere, i contratti a zero ore a chiamata, i tagli all’istruzione e alla sanità pubblica, il sistema penale che ha dismesso del tutto la sua funzione rieducatrice. E Londra è solo la punta di un iceberg che riguarda tutto il Regno Unito e ahimè anche l’Italia. Quasi spariti poi quei corpi intermedi costituiti da esperienze e associazioni autonome dal basso, che si sono spesso rivelate, quando sostenuti da mezzi e finanziamenti adeguati, un deterrente ben più efficace della repressione alla devianza criminale. Un governo conservatore imbelle e ultraliberista come quello di Boris Johnson, autore del capolavoro populista della Brexit, continua a prosciugare i fondi delle politiche sociali favorendo lobby economiche, grandi aziende e speculatori.
Top Boy
Non resta che diventare Top Boy, come il titolo di una fortunata serie tv. «Top boy è la messa in scena cupa e necessaria di un dramma potente su come le persone si comportano quando falliscono le istituzioni», così descrive la serie The Independent. In Top Boy la criminalità è quasi sempre figlia del disagio delle periferie e dell’esclusione sociale. A sceneggiarlo è Ronan Bennett, ex militante dell’Ira e oggi autore di successo, molto critico verso la realtà sociale britannica. Grazie a un superfan, il rapper Drake, Netflix ha riportato in vita questo dramma dei gruppi di spacciatori londinesi sotto la forma di un’accusa bruciante dei nostri tempi. Andata in onda originariamente su Channel 4, è stata poi rilanciata da Netflix. Molte delle cose viste in Top Boy sono ispirate a fatti di cronaca che hanno la strada e i cortili di Summerhouse, un condominio ghetto londinese come scenari privilegiati e una colonna sonora a tutta trap. In maniera originale, Top Boy si inserisce nel solco tracciato da altre serie tv di cui Gomorra è forse la più nota. Risuonano ancora le polemiche diffuse attorno al modello sbagliato che queste fiction/non fiction seriali propongono. Ma forse occorre porsi qualche domanda. Quali sono i servizi, i modelli, le azioni che definiscono la normalità quotidiana di una città che si fa comunità? In città come Napoli si assiste continuamente al tradimento e alla negazione dei più elementari diritti di cittadinanza come la scuola, l’ambiente, lo sport, le biblioteche, il trasporto pubblico, gli ambulatori. Ecco che ritorna il tema iniziale di quella mancanza come fattore scatenante del conflitto.
La trap, la musica del futuro
Il suono che amplifica questo vuoto è un beat cupo, fatto di bassi e sonorità elettroniche, anche il messaggio riflette un retroterra disincantato e nichilista. E’ la trap, nata ad Atlanta nel decennio della grande crisi economica (2008). Chi canta, chi suona e chi ascolta, è cresciuto in questo contesto. Se la crisi non finirà, c’è da giurare che in una dozzina d’anni la trap si prenderà completamente la scena musicale. Il flow è lento, bassi distorti. Le voci si servono in abbondanza dell’autotune, le melodie sono volutamente ripetitive, complementari a testi che procedono per flash, producendo immagini, fotografie, concetti più che narrazioni. E’ lo storytelling del ghetto articolato su quattro o cinque questioni, declinate fino all’ossessione: la ricerca dei soldi come unico possibile riscatto, l’identità di periferia, gli atteggiamenti gangsta e la bella vita, le notti nei club, le macchine costose, la droga, l’oro come status symbol del “ce l’ho fatta”. Nella sua versione esportata in Europa, la trap assorbe e riproduce i contesti in cui viene ascoltata. Può capitare quindi che in Francia canzoni come Le Monde ou rien (il cui video alterna immagini girate nelle banlieue parigine e nelle Vele di Scampia) si guadagnino il favore degli attivisti dei movimenti sociali, non solo i giovanissimi, fino a diventare la colonna sonora di cortei e manifestazioni contro la Loi-travail. Così un giovanissimo ascoltatore di Sfera Ebbasta (forse il trapper italiano più noto tra i ragazzi dai quindici ai vent’anni) definisce così la trap: «Parla di noi, di quello che facciamo quando stiamo per strada e a scuola, di come vanno le nostre vite».
La musica, le immagini seriali rompono o dovrebbero spaccare quel velo di depressione che cresce in maniera vertiginosa e preoccupante soprattutto tra i giovani nell’ultimo decennio. Questa tendenza è solo in parte associabile al capitalismo, perché si rischia di trasformare la causa in una posizione deresponsabilizzante. Il capitalismo neoliberista è un sistema impersonale e astratto che, se non immutabile, sicuramente farà parte della nostra vita ancora a lungo, e la “guarigione” dalle tante mancanze non può più essere rimandata. E qui che si apre lo spazio del conflitto. Nell’attesa della fine, occorre entrare nei dettagli organici di questi vuoti del sistema e abbandonare la passività.