Giorgio Cipolletta

È una strada lunga e silenziosa.
Cammino nelle tenebre e inciampo e cado
e mi rialzo e calpesto con passi ciechi
le pietre mute e le foglie secche
e qualcuno dietro di me cammina:
se mi fermo, si ferma;
se corro, corre. Mi volto: nessuno.
Tutto è oscuro e senza scampo,
e svolto e risvolto angoli
che conducono sempre alla strada
dove nessuno mi aspetta né mi segue,
dove io seguo un uomo che inciampa
e si rialza e dice vedendomi: nessuno.

Poesie di viaggio (2009)

La Strada (1960) di Octavio Paz (1914-1998) con il suo spirito inquieto impresso sull’asfalto ci consegna un viaggio, lo stesso che il premio Nobel (1990) compie in un’impresa funambolica tra il dentro e il fuori fino alla morte consacrata nel 1998. Una morte, quella del poeta messicano, che abbraccia Pessoa e il suo stile eteronimico con le stesse inquietudini cicatrizzate della strada mortifera (Pessoa, A morte é a curva da estrada, 1932). Un senso di turbamento ci accompagna lungo la strada fin dentro l’Infanzia berlinese (1950) di Walter Benjamin che si smarrisce nel grande parco al centro di Berlino, il Tiergarten. L’eccezionale e camaleontico pensatore tedesco scrive: «il non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta. I nomi delle strade devono parlare all’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi, e le viuzze del centro gli devono scandire senza incertezze, come in montagna un avvallamento le ore del giorno». In questo smarrimento c’è l’eccezionalità della vita (anche se breve) di Benjamin, il quale ha sempre amato Berlino, ma soprattutto i suoi angeli, uno in particolare, quello ritratto dall’artista svizzero Paul Klee (Angelus Novus, 1920) che aderisce alla Storia con fare indisciplinato. L’angelo BK (Benjamin-Klee) ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese, con il viso rivolto al passato. Una tempesta (il progresso) «lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo».

Gli angeli sono tremendi

Gli angeli sono tremendi («Ein jederEngel ist schrecklich») scrive Rilke nelle sue Elegie Duinesi (1923), gli stessi caduti dal cielo bianco e nero catturato dall’occhio filmico di Wim Wenders (Der Himmel überBerlin, 1987) in una Berlino ancora divisa (Est-Ovest). «Tutto è possibile. Non ho che da alzare gli occhi e ridivento il mondo».

L’asfalto con il suo potere specifico di drenare accoglie questa breve ricerca fatta di pensieri plurali e polifonici su cui distendere la porosità della vita. La strada continua, polverosa, fatta di distese desolate sassose, indecifrabili, labirintiche, metropolitane, periferiche e aperte verso la campagna come quella dove Marcello (Totò) e suo figlio Ninetto Davoli in compagnia di un corvo parlante (con la voce di Francesco Leonetti) insieme vagano in un viaggio che sembra interminabile. Uccellacci e uccellini (Pasolini, 1966) è una favola allegorica e amara come una profonda riflessione sulla crisi del marxismo dove si racconta la natura degli individui che popolano questa terra. Una favola picaresca sull’indecifrabilità del mondo e sull’immensamente umano: «Dove va l’umanità? Boh!».

Alzando gli occhi al cielo e tenendo ben fermi i piedi a terra si prosegue lungo la strada ritrovando ancora il nostro Walter Benjamin, questa volta a Napoli. Come la pietra – la stessa materia della voce e del pensiero – così è l’architettura della città partenopea, assorbente e spugnosa in un susseguirsi di cortili, portici e scaloni.

L’arte del flâneur è contemporanea, assumendo sia i caratteri del sogno che quelli del risveglio di una coscienza. In questo cortocircuito dell’immagine dialettica che ci offre Benjamin, il passages è soltanto la strada sensuale del commercio dove si risveglia il desiderio, le merci proliferano ai bordi intrecciando relazioni immaginarie come una ferita che non si rimargina. Lungo il sentimento della soglia si perdono i confini fino alla deriva (quella dell’Internazionale Situazionista, 1958), una tecnica dell’esplorazione psicogeografica e pratica e tattica del territorio. Nell’improvvisazione dell’andare, la strada sinuosa procede a senso unico Einbahnstraße (Benjamin, 1955). Nel viaggio benjaminiano – un autentico bazar filosofico con stile di pensiero surrealista (Bloch, 1928) – la strada ci conduce, ci accoglie, a volte ci separa, disseminando molteplicità, forme variegate del sensibile come un montaggio moderno fatto di voci. È la notte tra il 26 e il 27 settembre del 1940, Benjamin è in fuga dal nazismo, si trova sul confine tra la Spagna e la Francia, precisamente a Portobou. Benjamin ha il cuore da flâneur e i nervi spezzati del fuggiasco, con la paura atroce di essere catturato. Dopo un’estenuante marcia di dieci ore lascia il suo ultimo respiro alla morfina. L’estrema evenienza prima dell’overdose, un suicidio, quello di Benjamin, che come un uomo braccato (nella sua mente) decide di porre fine alla sua vita, con sé ha una borsa di cuoio nero che contiene lettere e manoscritti. Che cosa resta in quel pezzo di strada, nella frontiera franco-tedesca, sulla soglia della quasi-libertà, se non l’amicizia e l’archivio di Scholem, Adorno e Hannah Arendt. Benjamin nella sua cosmologia di pensieri transita come una cometa in fiamme prima di cadere e inabissarsi nel mare.

Testi-film e road movie

L’odore della morte si sente ancora, nell’annunciazione di una catastrofe ecologica ed umana, quella narrata in maniera cruda ed esangue da Cormac McCarthy, nel romanzo The Road (2006) e ripresa cinematograficamente da John Hillcoat (2009). Testo-film, una di quelle volte dove le trasposizioni semiotiche aderiscono magistralmente per restituirci una desolazione umana, una punizione emotiva, una desaturazione del colore e dell’anima. La parabola è quella di un padre e un figlio che ogni giorno percorrono un’America angusta in una lotta senza fine. Asciuttezza e rigore stilistico dominano il libro-film che spezza il cuore, annullando qualsiasi sentimento. La strada è una radicale e profonda interrogazione sulla crudeltà umana, sulla condizione ambientale inospitale, una tragedia che collassa nella natura incenerita e nell’abbandono del patto sociale. Non c’è una via di fuga, ma un addio senza lieto fine.

Il sentimento di sentirsi isolati, perduti, senza via di scampo ce lo trasmette in un’altra versione il giovane Spielberg, che all’età di 25 anni dirige il suo primo lungometraggio, Duel (1971). David Mann (Dennis Weaver) è un pacifico commesso viaggiatore che si mette in macchina di buon mattino e attraversa il deserto californiano nella speranza di arrivare in tempo al suo appuntamento per concludere un importante affare. Lungo la strada americana s’imbatte in una mostruosa autocisterna e da quel momento è una corsa a ostacoli senza fine. Spielberg produce un road-movie, un western, un thriller e persino un horror inscenando uno scontro corpo a corpo (Ettore e Achille, Achab e Moby Dick) dove la realtà e il tentativo di cambiamento collassano in una lotta insana. Non c’è una terza via di fuga, esistono solo strisce sull’asfalto, il paesaggio sconfinato e un viaggio senza meta. La strada resta appiccicata lì, nello specchietto retrovisore dal quale David controlla la sagoma minacciosa dell’autocisterna.

Di altro tenore è invece La Strada (1954) del maestro Federico Fellini. Teatro comico e teatro misero sono gli ingredienti della stessa storia pieno di simbolismi, la terra brulla di Zampanò (A. Quinn), l’acqua limpida di Gelsomina (G. Masina) e l’aria vitale del Matto (R. Basehart). L’amore non convenzionale tratteggiato e confezionato dal regista riminese mette in scena una favola cupa e tetra, ma soprattutto fragile. Fellini gioca, si diverte, inventa, crea un conflitto atavico tra la strada opera dell’uomo e il mondo complesso, tra la profondità del clown e la debolezza del saltimbanco. Nel contorno neorealista felliniano la strada diventa metafora, invocazione, vocazione che appartiene ad ognuno di noi.

Nella scelta di vivere Walt Whitman (1865) esalta ed evoca la strada, la quale si compie a piedi e con il cuore leggero, la stessa leggerezza che però riserva una responsabilità quella di Robert Frost (1916). Siamo tutti On the Road alla scoperta del mondo al ritmo di beat (generation) quello di Kerouac/Sal Paradise (1951) che insieme a Moriarty/Neal Cassady attraversano gli Stati Uniti in sella alla strada con l’autostop tra il 1947 e il 1950. Un ritmo beat sulle note acute di un sax insaziabile come una sbronza jazz: Charlie “Bird” Parker. Una lucida e amara testimonianza delle speranze e delle illusioni di un’intera generazione americana tra sostanze psicotrope e ricerca di una nuova autenticità esistenziale e spirituale.

Lynch, l’anatomia dell’inconscio

La strada prosegue, non finisce, ci si addentra sino al nostro inconscio attraverso la regia buia e profonda di David Lynch: Cuore selvaggio, Mulholland Drive, Una storia vera (1990, 2001, 1999). La strada è lenta, oscura, minacciosa, carica di attese e dissolvenze al nero per non dimenticare le nostre zone oscure (subconsce). Tutto si ripete due volte, ma senza che venga stabilito un inizio e una fine: una fuga psicogena. La strada è un Nastro di Möbius. Storie porose fatte di corpi, di eccessi, interfacce, emozioni e relazioni irreversibili, in continuo movimento, una mappa vicendevolmente mobile, itinerante nel tragitto, luogo di nutrimento, paesaggio digeribile, connesso lungo le strade e, ancora oltre, nella Commedia della Vita Nova, sulle note di My Way e le sue interminabili interpretazioni, da Sinatra a Bowie, passando per i Sex Pistols. Perché in fondo anche la strada è interpretazione, traduzione e azione porosa dell’andare. Questo senso dell’andare è necessario più che mai per tornare ad uscire dopo un anno di lockdown che stanca e affanna nel respiro mascherato. Un sospiro mancato è quello di George Floyd (e molti altri ancora) morto sulla strada per mano di una violenza cieca e razzista (trumpista) del potere in divisa, estremo ed incontrollato. «È una strada lunga e silenziosa» (come quella di Paz), ma colma di parole appiccicate sull’asfalto, come vocali aperte.