Massimo Canevacci

La lettura del libro di Carolina Maria de Jesus* La stanza dei rifiuti (appena tradotto e pubblicato dall’editore Alpes), scritto o meglio “strappato” dalle strade di una favela, può essere fonte di riflessioni in ogni lettore “urbano”. Il ritmo della scrittura che emerge da ogni riga è segnato da ossessioni che si ripetono e rinnovano in tensione con i panorami scrostati di un quartiere abbandonato, poi di un’intera città ricca, fino a coinvolgere tutto il Brasile.

Si sentono le torsioni resistenti di una donna – nera, favelada, madre e sola – in difesa della sua autonomia contro tutto e tutti. Una sorta di grafia compulsiva spinge Carolina a entrare in ogni dettaglio di una vita quotidiana fondata su alcune “arie” vitali: fame, acqua, carta, ossa, latta. Su questi temi, si sviluppano tutti gli altri.

La fame ha delle scansioni giornaliere che coinvolgono non solo lei-donna, ma anche lei-madre di tre figli che forse possono mangiare e persino bere. E lei-scrittrice affamata di storie che vive in una baracca auto-costruita, come se ne vedono ancora a migliaia negli arcipelaghi urbani del paese. «Mi sono alzata alle 6,30. Ho solo un pezzo di pane e tre cruzeiros. Ho dato un pezzo di pane a ogni bambino». «Non avevo neanche un centesimo per comprare il pane. Allora ho lavato tre bottiglie e le ho scambiate con Arnaldo. Lui si è tenuto le bottiglie e mi ha dato il pane». E ancora: «I giramenti di testa della fame sono peggio di quelli dell’alcol. I giramenti di testa dell’alcol ci fanno cantare. Ma della fame ci fa tremare».

L’acqua deve essere raccolta di mattina presto per non fare la fila all’unica fontanella con le altre donne e non subirei loro pettegolezzi spesso feroci. Lei, Carolina, si deve distinguere dalle altre donne, le cui frequenti accuse impietose lasciano fantasiosa l’immagine di solidarietà possibile tra favelados almeno in quella fase storica (fine degli anni ’50).

Trascrivere tutto

«L’unica cosa che non esiste nella favela è la solidarietà”, così scrive. E ancora: «Detesto queste donne della favela. La loro lingua è come le zampe della gallina”. Vogliono sapere tutto di lei e criticano il fascino che deve accendere gli uomini che «sono più tolleranti” perché parla bene, legge e soprattutto scrive. Intorno a lei si accendono liti feroci con linguaggi che definisce “pornografici”, mentre polizia e autoambulanze si succedono senza sosta. E Carolina trascrive tutto, rubando il sonno e accumulando quaderni su quaderni, quasi a voler gestire o trasfigurare nelle proprie fantasie l’intera favela. E forse anche tutto il mondo, sicuramente la sua vita.

La carta è il suo simbolo: sia perché è lei che deve essere raccolta, sì proprio lei, la carta è un soggetto vivente in Carolina, per essere scambiata in cruzeiros (la moneta dell’ epoca) con cui poter mangiare e comprare altra carta su cui lasciare segni e simboli. E l’elenco puntiglioso dei cruzeiros guadagnati ogni giorno intona il ritmo acuto della sopravvivenza. Dare le scarpe ai figli. Lo zucchero. «Perfino voi, riso e fagioli, ci abbandonate”, scrive sentendosi priva della base alimentare per i brasiliani. Camminare e raccogliere carta «è la prova che vivo», questa la sfida esistenziale di Carolina. Nonostante de Jesus sia il suo cognome, che ne segnala la matrice schiavista mai risolta, lei non è religiosa: si affaccia ai luoghi esoterici (centro Espirita), evangelici o cattolici per ottenere quello che le spetta in quanto essere umano. Cibo, vestiti, medicine. Tantomeno crede al malocchio o alla stregoneria, per usare le sue parole. La sua visione è di un materialismo immateriale, per così dire. Il suo umanesimo abbraccia una condizione che in ogni istante può degenerare in catastrofe.

Un ossario fatto di parole

Le ossa. «Ho cucinato le ossa», dice, quando riesce a raccoglierle o a farsele donare dalla vicina macelleria. Con le ossa fa il brodo. Di ossa sono fatte le sue parole. Un ossario scheletrico che si trasfigura, con la sua arte, in libro. La sua avventura è quasi assurda per la casualità con cui avviene la sua “scoperta” da parte di un giornalista, fino all’orgoglio di vedere la sua fotografia in un importante giornale locale O Cruzeiro (stesso nome della moneta) che compra e mostra in giro. Carta, ancora e sempre carta. Perché il libro «è la più bella invenzione dell’umanità», scrive.

Acqua, carta, ossa. E latta. E’ tradizione dell’intero paese non gettare le latine di birra, grande passione nazionale, nei cestini del lixo, bensì lasciarla in spazi spesso convenuti su cui arrivano alla fine uomini e donne sulle basi di un diritto stradale non scritto e le raccolgono, le schiacciano e le mettono dentro grossi sacchi di juta per rivenderle. E il Brasile è il più grande riciclatore di latta, dicono le statistiche senza citare chi sono gli attori di tale successo. Con le sue scritture ossee, Carolina non diventa una vira-lata, cioè non incorpora quel complesso di inferiorità brasiliano che «sputa nella propria immagine», secondo una celebre affermazione del drammaturgo Nelson Rodrigues. Lei appoggia sempre il suo paese che distingue dai politici istituzionali, pur cercando di trovare una soluzione dei problemi nazionali con quelli personali o, meglio, dei favelados nell’appoggiare alcuni candidati. «Il Brasile è governato dai bianchi» scrive, ed è ancora così. Lei, nata nel 1914, ha il nonno che fu schiavo dall’Angola. Quando le pubblicano il libro nel 1960 ha un successo fulmineo quanto effimero. La si vuole rinchiudere in un progetto di scrittura marginale, ma lei è inclassificabile, scrive oltre i canoni sociologici come comprese e appoggiò la sua coetanea più famosa: Clarice Lispector. Moravia lo fece tradurre e pubblicare da Bompiani.

Nel libro ci sono delle chiavi di lettura per tentare di scavare la configurazione psicologica e culturale di Carolina. Lei prima presenta gli zingari, accampati nella favela, come persone violente da cui fuggire; poi dichiara il suo consenso amoroso al signor Manoel, lo zingaro venditore ambulante cui rifiuta la richiesta di sposarlo. «Ci mancava solo questo. Da vecchia diventare una zingara», scrive. Eppure, scrive anche che è felice dopo aver passato una notte con lui. Oscilla, Carolina, tra il desiderio di viaggiare con lo zingaro Manoel e l’essere autonoma, poter leggere e scrivere quando e come vuole. Così, riesce a trasfigurare la sua rinuncia all’amore in una favola angosciante: Dove sei Felicidade. Qui narra la sua fantasia di seguire un ambulante che la corteggia e fuggire dal marito troppo innamorato di una moglie troppo bella.

São Paulo, la città malata

Carolina definisce città malata São Paulo, dove si sposta pensando di lavorare meglio nella favela Canindé; penetra con lucidità dentro il paradosso irrisolto di una metropoli che produce più ricchezza dell’intero paese ma che mantiene le regole ferree e violente dei Bandeirantes, esploratori-avventurieri portoghesi, massacratori delle popolazione native e importatori di persone ridotte in schiavitù dall’Africa: povertà, discriminazione, razzismo e sessismo. Ancora adesso, nel parco di Ibirabuera, il bel museo Afro-Brasil ha di fronte il monumento che rappresenta la minacciosa, inarrestabile avanzata di questi avventurieri senza scrupoli esponendo la loro bandeira (bandiera): quella di un colonialismo schiavista. Il loro potere si trasforma camaleontico al centro della sua avenida più simbolica. Nell’Avenida Paulista ha sede la Fiesp, architettura del potere finanziario paulista, che sfida il vicino Masp: geniale architettura modernista di Lina Bo Bardi, finalmente omaggiata alla Biennale di Venezia. Masp solleva in aria il museo dell’arte col brutalismo del cemento per innalzare ogni visitatore alla bellezza; Fiesp ha la forma di una piramide tronca, senza finestre visibili, tutte ricoperte da un reticolo metallico. Fiesp ti osserva ma non la puoi osservare. Fiesp cerca di arrestare le promesse di libertà e felicità che l’arte del Masp continua a dispiegare. Fiesp ha finanziato, organizzato e accolto ai suoi piedi tutte le manifestazioni contro Lula.

«Vendimi, mamma»

Fiesp è la malattia bianca che spiega l’elettorato del Presidente Bolsonaro, un bandeirante continuista. Per questo, nella lettura dell’opera di Carolina Maria de Jesus, risuonano ancora le parole di sua figlia che dice: «Mamma, vendimi alla Signora Julita, perché là si mangia bene». Assimilarsi al potere coloniale, sostiene lo psichiatra militante Franz Fanon, può sembrare l’unica possibilità di sopravvivere da parte del colonizzato. La frase drammatica trascritta da Carolina sembra individuare questo perverso meccanismo introiettato da una bambina di tre-quattro anni. Ebbene la madre, la scrittrice Carolina, rifiuta tale processo mimetico che riproduce il dominio e sfida con la scrittura il potere bianco. E per una volta vince, raccattando carta dismessa lungo le strade asfaltate e trascrivendo le sue emozioni affamate nella carta scritta tra viottoli sterrati.

La sua auto-costruzione nella favela sfida non solo il potere bianco della Fiesp, ma anche l’estetica sollevata del Masp. La sua minuscola stanza dei rifiuti contiene decine e decine di quaderni scritti a mano e non tutti pubblicati: con essi Carolina la negra esprime un conflitto muto eppur rumorosissimo contro le cicatrici di una condizione schiavista ancora irrisolta. Per citare trasfigurato un racconto sul fiume del maggiore scrittore brasiliano, Guimarães Rosa, camminando lungo il suo lucido asfalto si intravede il terzo margine non solo letterario dell’Avenida Paulista: dove si nasconde la carta-ossa di Carolina Maria de Jesus.

*La scrittrice brasiliana Carolina Maria de Jesus (1914-1977) è stata protagonista della cosiddetta Letteratura Marginale. Nata a Sacramento, nello stato di Minas Gerais, caratterizzato da una forte presenza di afro-brasiliani, per lavorare nelle miniere e nelle   piantagioni in condizione di schiavitù abolita solo nel 1888. Suo nonno veniva dall’Angola. Carolina era una donna favelada, nubile e madre di tre figli, «alta, esile, imponente», che ebbe sempre la passione di scrivere e leggere fin da bambina. Nel 1960 è scoperta da un giornalista e viene  pubblicato il libro La stanza dei rifiuti che ebbe subito un grande successo. Poi si sposta nella favela di Canindé a São Paulo, dove narra la discesa nell’inferno con la fame protagonista assoluta.  Unico caso di scrittura dal di dentro la favela, non dal di fuori. La stanza dei rifiuti e altre opere. Edizioni Alpes, Roma, 2021.