Andrea Miconi

Uno dei temi più seri che l’epidemia, e soprattutto la gestione dell’epidemia, ci lasceranno in eredità è il confine tra la comprensione e il terrore; tra la scienza e la superstizione; tra il bisogno di spiegare le cose in modo razionale e il ripiegamento di quella stessa spiegazione su motivi arcaici, medievali o vagamente religiosi. La porosità tra le due culture non può stupire, per chi si è formato sulle grandi diagnosi sociologiche e filosofiche del malessere del moderno. Eppure si manifesta oggi in termini inquietanti.

Nulla mostra in modo chiaro questo contorcimento della ragione collettiva, con ogni probabilità, della mitologia dell’#iorestoacasa, lo slogan che ha accompagnato con fortuna variabile le cronache del confinamento e delle infinite restrizioni alla mobilità personale. Per molti motivi, ma soprattutto per uno: perché di fronte a un virus respiratorio chiudersi in casa è l’ultima, ma letteralmente l’ultima delle cose da fare. La casa, l’interno, lo spazio chiuso, sono i luoghi pericolosi per il contagio – la strada, l’esterno, lo spazio aperto, sono i luoghi in cui contagiarsi è invece improbabile. Un fatto sostanzialmente ovvio, che pochi di noi hanno cercato senza successo di sostenere nell’ultimo anno, tanto forte è stata l’adesione dei mezzi di informazione e del discorso pubblico al punto di vista unico del governo, e della sua sterminata corte di apparati, consulenti, comitati e task force. Solo recentemente un’evidenza così banale è stata ammessa nella narrazione dominante: prima dal più influente dei virologi nazional-popolari, Roberto Burioni, e poi dallo stesso Ministro della Salute (senza che nessun giornalista gli chiedesse conto di un errore di tali dimensioni, né della sensatezza della prolungata limitazione della socialità all’aperto – ma questa è un’altra questione).

La follia che soffia sul mondo

Sarebbe ingenuo, però, considerare #iorestoacasa soltanto un errore: e anche se fosse, un errore così gigantesco, che sfida le leggi elementari della ragione, non potrebbe che accendere la spia di un problema più ampio. Da un lato, sembra l’indicatore di un ritorno a metodi medievali di gestione dell’epidemia, di fatto mai applicati nella storia moderna, come colto con straordinaria capacità analitica da Patrick Zylberman nel suo libro del 2013 sui protocolli di sanità pubblica al tempo della Sars (Tempêtes microbiennes, 2013). Dall’altro, cosa qui più centrale, uno slogan del genere è il prodotto certificato di una reazione puramente emotiva, che anziché applicare al problema reale gli strumenti dell’analisi razionale, lo incornicia in uno schema culturale preesistente, in cui cercare un rifugio più o meno illusorio. «Un esempio della follia che soffia sul mondo”, per dirla con Bernard-Henry Lévy, e con la sua disperata riflessione sulla percezione collettiva del Sars-Cov-2 (Il virus che rende folli, 2020): ma di una follia che contiene in sé un metodo, dobbiamo aggiungere, e un metodo ben preciso.

Non c’è errore più drammatico, come ha insegnato Susan Sontag, di quello di cercare un significato nella malattia: la malattia non è né deve essere una metafora, e trattarla come tale può portare soltanto a facili derive moralistiche, se non ad autentiche isterie di massa. Così per il cancro, e per la sua retroazione simbolica sulla percezione dello stile di vita individuale; e così con l’HIV, a lungo interpretato come un autentico castigo divino, per quanto sembrava colpire tutti i comportamenti considerati dissoluti dalla morale convenzionale (Illness as Metaphor, 1978; e AIDS and Its Metaphors, 1989). E così oggi, in modo perfino più rumoroso, ai tempi del Coronavirus. La sconcertante caccia all’untore lanciata dai media italiani è un ottimo esempio di questa tendenza, con quella ignobile colpevolizzazione dei runner, dei bagnanti e soprattutto dei ragazzi della cosiddetta “movida”, inghiottiti dal ventre oscuro di un paese che ha scelto di sacrificare il proprio futuro. Una litania macabra, usando le parole tetramente efficaci di Andrea Venanzoni; una interminabile danza macabra, professata da feroci e autoproclamati custodi della morale che, seduti sulle rovine del mondo, si sentono in diritto di giudicare la vita degli altri, e perfino di definire “assassini” – proprio così – i ragazzi che prendono un aperitivo in piazza (e sul Corriere della Sera, il primo quotidiano italiano). E la costante, a guardare bene, è sempre lì, nel più assurdo ribaltamento valoriale degli ultimi tempi: la strada, lo spazio esterno dove il virus si indebolisce e si dissolve nell’aria, diventa il luogo del pericolo; l’interno, lo spazio domestico, dove tanti si sono fatalmente contagiati, diventa il luogo della salvezza – e allora #iorestoacasa, appunto.

La “movida” sinonimo di “male”

Credo sia arrivato il momento di dirlo, senza mezze misure: una parte enorme, consistente, forse dominante del discorso pubblico sul Covid non c’entra nulla con la spiegazione scientifica; non c’entra nulla con la prevenzione; non c’entra nulla con il contenimento dell’epidemia – non c’entra nulla non il Covid. La criminalizzazione della socialità all’aperto – facendo scempio del buonsenso logico, prima ancora che di quello epidemiologico – è la dimostrazione plastica di come in gioco ci siano non soltanto questioni mediche, ma anche le metafore culturali con cui ci avviciniamo alla loro interpretazione. Esemplare, qui, la condanna moralista della movida, ripetuta da un dilagante coro di idiozie, atrocità verbali e vergognose delazioni, che attraversa i quotidiani e le opinioni dei medici, i telegiornali e il dibattito dal basso nei social. Esemplare, io credo, per quanto irrispettosa di qualsiasi prova logica: in primo luogo, del fatto che in un mondo normale i ragazzi sarebbero incoraggiati ad incontrarsi all’aperto, dove si corrono rischi minimi, anziché forzati a farlo in casa – come accade inevitabilmente con il coprifuoco, che non ha nessuna ragione scientifica ma intanto è lì da vari mesi (anche se ci stiamo avviando alla sua sparizione), con il plauso di tanti sedicenti antifascisti. Irrispettoso, in secondo luogo, del diritto dei giovani di respirare l’aria di una vita normale, dopo tutto quello che è stato fatto loro. E irrispettoso, infine, del significato stesso di quella parola usata in modo tanto sciatto – movida – che per intere generazioni di spagnoli ha segnato la liberazione dal male, la rivoluzione silenziosa dell’allegria, il trionfo picaresco della gioia sulla paura. Quello che i nostri ragazzi dovrebbero essere invitati a fare – riprendersi la vita, riprendersi le piazze, riprendersi le strade – contro l’ottuso paternalismo di una classe dirigente insulsa, che ha serenamente deciso di umiliarli e mandarli al massacro, pur di non ammettere i propri sbagli e non cedere un millimetro dei propri privilegi. Contro un paese che li odia e che per vendetta fa pagare loro il prezzo della propria debolezza politica e demografica; e che li ha stritolati sotto la pressione culturale, psichica e poliziesca di un controllo biopolitico che non ha precedenti nell’intera storia dell’Occidente, e forse nemmeno nella storia tout court.

Una reazione superstiziosa al Sars-Cov-2, si è detto: propria, non per coincidenza, di un paese in larga parte ignorante e cattolico. In fondo quindi è come se, perché il virus sparisca, si debba dare prova di virtù, fare atto di penitenza, e rinunciare al superfluo: l’attività sportiva, le feste, la discoteca, l’aperitivo, l’amicizia, e perfino la vita sessuale, come hanno avuto il coraggio di dire certi medici in televisione, senza senso del ridicolo. Espiare, dare prova di virtù, stare in casa: un’esortazione semplicemente illogica, palesemente sbagliata in termini immunologici, e che tuttavia affonda in uno schema culturale troppo radicato e profondo, per non essere efficace. Perché lì fuori, oltre le mura, c’è sempre la strada come luogo del pericolo, della perdizione, della sporcizia: un tema di certo non nuovo, e che rimanda a quella ossessione per il decoro già criticata da Tamar Pitch, alla balzana pretesa di applicare allo spazio esterno gli stessi parametri di ordine e di pulizia che valgono per l’ambiente domestico (Contro il decoro, 2013).

La salvezza? E’ nel fuori

Un bel problema, in senso assoluto; e un problema tragico quando, come questa volta, la salvezza era proprio all’esterno: nella ventilazione, nella luce solare, nell’aria fresca, nella distanza tra i passanti, nell’esercizio fisico che aiuta la risposta immunitaria. Non era la strada, il luogo del pericolo: ma la casa, come un numero crescente di ricerche sta certificando in modo impietoso. Un insegnamento difficile da accettare, per una cultura tradizionale come la nostra: per elaborarlo, bisognava rovesciare come un guanto la morale convenzionale – e l’odiosa contrapposizione assiologica tra degrado e decoro urbano – e accettare che solo la convivenza con il male consente di sopravvivere, come spiegato magnificamente da Roberto Esposito, e non l’illusione di potersi isolare dal suo contagio (Immunitas, 2002).

Una classe dirigente seria – politica, medica, giornalistica – avrebbe dovuto fare questo, istruire su come lo spazio esterno sia non più ma meno pericoloso di quello interno: il che vale, come sappiamo, anche per i reati violenti. E in tutti e due i casi tante vittime – dell’epidemia, degli abusi sessuali, delle violenze familiari – continuano ad essere immolate sull’altare simbolico della casa: il luogo più pericoloso che ci sia, rappresentato come lo spazio del ristoro e della protezione dal male. Ecco, sotto la sua apparenza innocua e giocosa lo slogan #iorestoacasa è stato questo: un prezzo terrificante pagato ad un topos inestinguibile del nostro immaginario – che, a chi fa ricerca sull’immaginario collettivo, pone un problema di straordinaria portata.

La fotografia di copertina by Kilian Seiler on Unsplash