Emiliano Laurenzi

La formazione e l’evoluzione dei Taleban ha una storia complessa, giocata interamente nella “seconda generazione” dell’Islam politico, sviluppatasi dalla fine degli anni ’70 del XX sec. ad oggi. Si tratta di un esito assai particolare di un processo avviatosi a partire dalla metà del XIX sec. Con la definitiva entrata in crisi dell’Impero Ottomano a metà del XVIII sec., all’interno dell’Islam, a partire dalla spedizione di Napoleone in Egitto, si affermarono due correnti di reazione allo strapotere delle nazioni europee ed alle loro proiezioni coloniali.

La prima intendeva modernizzare l’Islam adottando quelle che erano considerate le armi vincenti degli europei: tecnologia, leggi e sistemi giuridici, istruzione di massa, burocrazia, eserciti, elaborazione di un’identità nazionale. Prese avvio nell’800 con le Tanzimat (le “riforme”) che modernizzarono l’Impero Ottomano e sfociarono nel movimento dei Giovani Ottomani prima e dei Giovani Turchi poi. Campioni di questa tendenza, declinata fra nazionalismo, socialismo e panarabismo, furono sicuramente Mustafa Kemal Atatürk per la Turchia, e nel secondo dopoguerra Gamal Abd al-Nasser per l’Egitto, ma anche Reza Pahlevi per l’Iran.

Islamizzazione della modernità

Col declinare dell’orizzonte socialista, ma soprattutto di quello secolare in tutte le sue declinazioni, alla lunga ha invece prevalso l’altra tendenza, quella che predica l’islamizzazione della modernità. Una tendenza assai complessa ed articolata in cui la riforma dell’Islam si dà attraverso un ritorno (ruju) ai fondamenti del Quran. Espressione principale di questa tendenza è stato a lungo il salafismo – il ritorno cioè ai costumi degli al-Salaf, i pii antenati – declinato nelle forme più differenti. Altre matrici importanti di questa tendenza si possono trovare in un certo wahhabismo saudita, ma soprattutto nella Fratellanza musulmana, fondata da Hasan al-Banna in Egitto alla fine degli anni ’20.

Fallimento della decolonizzazione

Le date che segnano il fallimento della decolonizzazione attraverso i modelli secolari – dunque della via alla modernizzazione dell’Islam – ed il successivo sviluppo di due “generazioni” di quello che è corretto chiamare Islam politico, sono il 1967 e il 1979. La prima è la sconfitta araba nella Guerra dei sei giorni – al-Naksa, la Sconfitta. Lì trova sugello la “prima generazione” che si ispirerà in particolare al pensiero di Sayyid Qutb, intellettuale egiziano appartenente alla Fratellanza musulmana, incarcerato e mandato a morte da Nasser (che perseguitò con ferocia la Fratellanza), così come quella che crescerà tra insofferenze e frustrazioni, rievocando le gesta degli Ikhwan, all’ombra del ricchissimo e servile wahhabismo ufficiale saudita, ma anche seguace del movimento deobandi (una delle matrici religiose dei Taleban), originatosi nella seconda metà del XIX secolo in India come reazione al colonialismo inglese e molto ben radicato in Afghanistan. Il ’79 invece è l’anno in cui per la prima volta una rivoluzione islamica prende il potere – l’Iran sciita di Ruhollah Khomeini – suscitando speranze di un via islamica anche in campo sunnita. Ma è anche l’anno in cui si formano i primi nuclei di quei jihadisti, andati a combattere gli atei sovietici in Afghanistan, da cui sarebbe emersa Al-Qaida e gli stessi Taleban, con soldi, armi ed addestramento ampiamente forniti da Arabia Saudita, Pakistan e Stati Uniti. È in quel frangente che avviene un’oggettiva saldatura fra la controrivoluzione capitalista di lì a poco trionfante, e le tendenze religiosamente e culturalmente più involutive della “seconda generazione” dell’Islam politico. Tipiche di questa volgarizzazione sono le banalizzazioni e strumentalizzazioni interpretative dell’attivista palestinese Abd Allah Yusuf al-Azzam – ispiratore di Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri – creatore del primo gruppo di mujahidin che da Peshawar in Pakistan sarebbero andati a combattere la 40ª Armata sovietica.

Una rilettura militante del Corano

Dopo il 1967 il risveglio politico islamico assunse dunque innegabili tratti di modernità, togliendo a questo termine qualsiasi coté progressista o laicista. Si rinunciava a secoli di quietismo, un precetto religioso tradizionale, per una rilettura militante del Quran, sancendo la definitiva riapertura della porta dell’interpretazione, bab al-ijtihad: un esito autenticamente rivoluzionario di un’attitudine palingenetica. Si esprimeva l’anelito alla creazione di uno stato islamico in alternativa a quello laico – socialista o capitalista, poco contava – come imposizione coloniale. Si cercava, anche con l’uso della violenza, di ricostruire un’identità islamica politicizzandosi, organizzandosi e predicando anche il ritorno del Califfato – abolito nel 1924 da Atatürk, ma de facto spazzato via nel 1258 dall’invasione mongola che pose fine all’età d’oro araba. Ed anche combattendo contro l’idea di umma come alibi dell’unità dei fedeli, per ricostruire una nuova unità, sulle basi di una potente utopia retrospettiva che caratterizza l’intero discorso, politico, culturale, religioso e teologico di questa tendenza. Questa “alternativa islamica” sembrò veramente costituire una sollevazione potenzialmente rivoluzionaria contro l’egemonia occidentale. Ma come già accennato, le cose sarebbero andate diversamente.

La rivoluzione di Khomeini

Nel 1979, quando Khomeini concretizzò la palingenesi islamica con la sua rivoluzione, questa tendenza ebbe infatti un’ulteriore e più potente eco. Ed il paradosso, però, è che la più completa islamizzazione della modernità trovò una sua particolare fucina politica, militare ed organizzativa, proprio in Afghanistan. È qui che si forgiò il primo nucleo di Al-Qaida come espressione della globalizzazione. Qui, nella lotta al comunismo ateo, si condensò la nascita di quei gruppi di jihadisti che andavano oltre e contro la prima generazione dell’Islam politico, di cui era stato un esempio proprio il mitico “Leone del Panshir” il tagiko Ahmad Shah Masud, non a caso ucciso proprio da militanti qaedisti.

I Taleban di oggi provengono dal lungo travaglio armato che sconvolse l’Afghanistan successivamente al ritiro delle truppe sovietiche. Soprattutto dopo la distruzione del loro primo Emirato – per aver dato rifugio ad Osama bin Laden – a differenza di Al-Qaida e dell’Isis non hanno mai avuto, né cercato, una reale proiezione internazionale. Per storia e geografia sono sempre rimasti ben asserragliati dentro i confini afghani, o nella zona di confine col Pakistan, il Waziristan. Pur essendo figli della globalizzazione, ne hanno però articolato capacità, tecniche e strategie – soprattutto militari e comunicative – in un’ottica strettamente locale. Dire che sono nazionalisti sarebbe profondamente errato, ma il loro suona tanto come un Kulturkampf al contrario, in cui le istanze etniche, locali, tradizionali e religiose si battono a mano armata contro il globalismo liberale, democratico e dei diritti.

Chiamando sé stessi “studenti”, infatti, hanno sottolineato la loro formazione religiosa, sebbene nella quasi totalità siano scaltriti combattenti volontari. La maggior parte di loro ha ricevuto un’infarinatura religiosa nelle madrasa – scuole coraniche – al confine col Pakistan, l’area che durante il conflitto con le forze sovietiche ospitò i rifugiati, ma soprattutto i campi di addestramento ed indottrinamento. Il centro principale di questa attività era la città di Peshawar, a metà strada fra Kabul ed Islamabad.

Localismo vs internazionalismo

I Taleban, infine, sono fortemente denotati in senso etnico. La stragrande maggioranza di loro è infatti di etnia Pashtun, il gruppo maggioritario in Afghanistan, e di lingua pashto – un idioma iranico di ceppo indoeuropeo come il farsi persiano. La loro identità religiosa è frutto di un mix di elementi rigorosamente locali, al contrario dell’internazionalismo militante dell’Isis, per dire. Le istanze tribali e relative al millenario codice consuetudinario dei Pashtun, il Pashtunwali, costituiscono infatti una parte non trascurabile del bagaglio culturale e religioso dei Taleban, che ne hanno mutuato diverse parti, mescolandole alla loro particolare lettura della Sharia, un’interpretazione da un lato ferrea e dall’altro influenzata da usi e costumi culturali che con il concreto del messaggio coranico e degli ahadith hanno poco e nulla a che vedere, come la credenza nell’interpretazione dei sogni.

Altro segno di radicamento territoriale è la loro estraneità a certe forme di fanatismo puritano tipiche invece della volgare estetizzazione religiosa che denota l’Isis. Non sono mai stati contrari alla devozione popolare, così come non hanno mai distrutto tombe o testimonianze del passato – ad eccezione dei Buddha di Bamiyan, pur precedentemente restaurati proprio dal loro Emirato, considerati forme di idolatria; una distruzione probabilmente frutto di tensioni relative ai tentativi dell’ONU di scalzare la coltivazione dell’oppio. Inutile sottolineare la loro posizione riguardo alle donne od alle minoranze di genere, per altro comune al regno saudita od al regime pakistano, per citare due soli altri casi. Allo stesso tempo proibiscono musica, televisione e rasatura della barba, e predicano l’ostilità più totale verso gli sciiti – che in Afghanistan sono di etnica mongola (gli Hazara) e sono circa il 10-15% della popolazione.

Elementi di discontinuità

Il rapporto con gli sciiti e con l’Iran, però, è il vero elemento di discontinuità fra i Taleban degli anni Novanta, quelli del mullah Omar, e quelli di oggi. Uno dei primi gesti verso l’Iran è stata la riapertura delle dighe costruite durante l’occupazione statunitense sul fiume Helmand. Utilizzate fino a luglio 2021 per bloccare le acque dirette nelle aride provincie iraniane del Sistan e Baluchistan, la loro apertura, seguita quasi immediatamente all’occupazione talebana della provincia di Nimruz il 6 agosto, ha fornito acqua ad oltre un milione di persone. L’Iran ha ricominciato dunque ad esportare greggio all’Afghanistan a partire dal 23 agosto. Questo gesto è frutto di un inconfessato parallelismo che nel tempo ha avvicinato la struttura organizzativa dei Taleban a quella clericale iraniana, specialmente per il ruolo sempre più simile a quello di “quadro politico” dei vari mullah (termine di area iranica e centro asiatica con cui si indicano generalmente gli ulama arabi). Inizialmente dediti al solo indottrinamento religioso, questi hanno via via costituito una sorta di corpo intermedio, dedito sia all’amministrazione del sacro che alla gestione del profano, diciamo così. In particolare col venir meno di finanziamenti esterni, questo network religioso ha cominciato a funzionare come una struttura clericale autonoma.

Un nuovo dinamismo

Durante i venti anni della loro “lunga traversata”, i Taleban hanno dunque non solo imparato a dismettere certe sterili forme di radicalismo, ma anche a dialogare con le altre componenti etniche del paese, ad assorbire jihadisti di diversa formazione religiosa, delusi dagli accordi con l’occupante americano (molti riconducibili alla Fratellanza Musulmana, latrice di istanze politiche ed organizzative), così come altre importanti formazioni islamiste ben radicate sul territorio (la Rete Haqqani), a tessere contatti e relazioni coi coltivatori di oppio, veri finanziatori dei signori della guerra durante il conflitto civile, ed oggi forse piegati alle necessità del regime talebano. A dispetto dello sdegno à la Saviano, niente di nuovo sotto il sole. Punta estrema di questo loro dinamismo è certamente il dialogo con i Russi – instaurato almeno a partire dal 2015 – la cui intelligence non è mai andata via dall’Afghanistan. Non solo per un basico do ut des fatto di consegna di armamenti da parte russa in cambio della sigillatura dei confini con le tre ex repubbliche sovietiche (Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan), ma perché indice di una sviluppata capacità di dialogo politico. Relazionarsi all’ex odiato nemico in nome di interessi concreti è indubitabilmente un calcolo diplomatico non sciocco, né da estremisti. Se questa relazione la si legge dentro la proiezione economico-infrastrutturale della Cina nell’area, ecco che dietro ai proclami religiosi ed alla bandiera bianca con la shahada, si intravvede un regime non solo pragmatico, ma anche consapevole del valore del proprio ruolo in uno scacchiere geopolitico delicatissimo. I Taleban stanno riuscendo a fare quello che né l’Isis, né Hayat Tahrir al Sham – il nome dell’Al Qaida siriana – sono riusciti a fare in Siria. Di base perché a differenza delle altre due formazioni, frutto di una globalizzazione perdente, hanno sempre operato nel loro paese di origine.

In questi anni, infatti, è cambiata radicalmente la loro struttura organizzativa. I Taleban hanno imparato ad elaborare la loro visione politica su base territoriale. Questo ha favorito la formazione di un’organizzazione che ha oggettivamente permesso loro un’azione coordinata e obiettivi chiari, a differenza delle azioni sempre meno coerenti di Al-Qaida, od ai crudeli exploit mediatici dell’Isis. Allo stesso tempo hanno sviluppato la capacità di aspettare e sopravvivere in un territorio orograficamente, etnicamente e religiosamente complesso. Tutte attività impossibili per qualsiasi formazione armata, religiosa o politica, senza un concreto radicamento, senza aiuti, alleanze, capacità di intervenire sulle attività di approvvigionamento, armamento e finanziamento, legali o meno. Il tutto avendo subito perdite per circa 100 mila affiliati e comunque al netto di una ferocia che noi tendiamo a nascondere dietro la retorica della tecnica, ma innegabilmente sta al cuore di ogni attività di guerra.

La forma-partito clericale

Se queste caratteristiche riusciranno a condensarsi in strutture di potere atte al governo, come personalmente ritengo probabile, il potenziale costituente della loro azione militare si tradurrà in un effettivo potere politico, un risultato mancato da tutte le formazioni dell’Islam politico sunnita. Il segno più evidente di questa maturazione politica è stato, fin dal lontano 2001, il passaggio dall’autocrazia che aveva denotato il primo Emirato talebano, alla creazione del Rahbari Shura, una sorta di Consiglio della leadership dove si decide e si lavora in forma collegiale fra tutti i vari mullah e capi militari. Questo istituto costituisce di sicuro l’embrione di una forma di potere collegiale in grado di decidere, delegare, amministrare, comunicare. In sostanza, delle quattro dimensioni che connotano la struttura sociale dell’Afghanistan (etnica, tribale, gerarchica e religiosa), al contrario di quel che la retorica liberale crede e vuole far credere, alla lunga proprio quella religiosa si è rivelata la più dinamica. Che non piacciano i suoi obiettivi, è tutto un altro paio di maniche. La capacità organizzativa degli attuali Taleban li distingue da tutti i movimenti radicali del recente Islam politico, perché prefigura lo strumento principale con cui tradurre il potenziale costituente in effettivo potere politico: la forma partito, o quanto meno ciò che più gli si avvicina secondo le caratteristiche della cultura locale. Nello specifico un’organizzazione di tipo clericale assai simile a quella iraniana. È probabile che proprio sulla base di queste trasformazioni che nel tempo hanno fatto dei Taleban una forza in grado di esprimere un reale potere costituente, oltre ad essere divenuta sempre più tiepida la relazione con Al-Qaida, si sia invece consolidata l’ostilità con l’Isis – la formazione più consumistica e postmoderna di tutto il panorama, oggi davvero triste dal punto di vista dottrinale ed intellettuale, del radicalismo islamico. Un’ostilità già vivace in passato e che il recente attentato all’aeroporto di Kabul – eseguito dalla Wilaya del Korasan, la provincia centro asiatica dell’Isis – ha ben messo in chiaro.