Pubblichiamo un estratto di un’intervista del 2009 sulle periferie romane di Emiliano Ilardi a Walter Siti in occasione dell’uscita del suo romanzo Il contagio, Milano, Mondadori, 2008. L’intervista completa è stata pubblicata in Ilardi M., Scandurra S. (a cura), Ricominciamo dalle periferie. Perché la sinistra ha perso a Roma, Roma, Manifestolibri, 2009.
La redazione di Asfalto ha deciso di pubblicarla di nuovo perché, nonostante sia passato un decennio, in alcuni punti la ritiene molto attuale viste anche le imminenti elezioni comunali di Roma.
Emiliano Ilardi: Dal punto di vista del contesto urbano ciò che differenzia il suo romanzo Contagio rispetto a molti dei romanzi degli ultimi 15/20 anni è che lei individua, descrive e narra un luogo ben preciso (la periferia) e lo rende autonomo rispetto agli altri luoghi della città. È un qualcosa che secondo tutto l’armamentario teorico postmoderno non dovrebbe essere più possibile. Secondo lei invece isolare ad esempio una borgata, un quartiere periferico e narrarlo indipendentemente dal resto della città è un’operazione che ancora si può fare? Esiste ancora un luogo che si chiama periferia?
Walter Siti: Dal punto di vista urbanistico, è chiaro che è quasi impossibile ormai identificare un luogo. Questo vale soprattutto per Roma, città disordinata per eccellenza, città dell’abusivismo e dei condoni. La particolare espansione spontanea che ha subito la città in qualche modo la fa assomigliare all’idea di metropoli diffusa e policentrica tipica del modello postmoderno. In tutta l’area extra urbana, se si esclude forse l’Eur, Don Bosco con la sua grande cupola, il GRA e tutta quella nuova serie di centri commerciali sorti da poco che sono segni piuttosto forti dal punto di vista urbanistico, non ci sono altri grandi punti di riferimento. Ma se è sicuramente vero che dal punto di vista urbanistico non c’è più un vero luogo, perché c’è appunto la città diffusa; se ci posizioniamo invece da un punto di vista culturale, una antropologia della borgata è ancora possibile. Sono tratti tipicamente culturali quelli che identificano la ‘borgata romana’ e non più urbanistico-architettonici. L’elemento essenziale è una sorta di cultura della sconfitta, dell’essere degli sconfitti in partenza. Nonostante l’orgoglio che spesso rivendicano, gli abitanti delle borgate non vorrebbero abitare lì. Nel libro è riportata la testimonianza di una signora che, dovendo lavorare come donna di servizio, preferisce farlo in centro perché così almeno qualche volta in centro può andarci. La mattina accompagna lei stessa sua figlia a studiare in una scuola del centro mentre sarebbe molto più comodo naturalmente andare in una scuola del quartiere. Ma la madre vuole che sua figlia conosca il centro perché, come dice lei stessa, “in centro ci trovi pure la borgata mentre in borgata il centro non ce lo trovi”.
EI: Visto che stiamo parlando di mobilità, cosa è cambiato rispetto ai tempi di Pasolini e ai suoi borgatari in continuo movimento, soprattutto a piedi?
WS: È cambiato il fatto che le nuove periferie sono molto più distanti dal centro. Oggi ci sono alcune borgate in cui davvero la sera, se non hai il mezzo proprio, non ti muovi. Se prendi il 105 da Termini ci vuole un’ora per arrivare in fondo alla Casilina e poi comunque si ferma a Grotte Celoni e non è detto ci sia subito il pullmino per Tor Bella Monaca. La donna di servizio che parte da Tor Bella Monaca senza mezzo proprio per arrivare in centro, capace che ci mette 1,30-1,40 ore. Quindi per pulire gli uffici alle 7 deve partire alle 5 da casa. Inoltre per i giovani viaggiare con i mezzi pubblici significa essere proprio degli sfigati. In fondo si ritorna al discorso culturale di prima. Da una parte c’è una specie di timidezza nei confronti del centro, dall’altra c’è però la consapevolezza per cui certi pezzi di centro storico assomigliano ormai alle periferie. Ho notato ad esempio che il sabato e la domenica tu vedi tantissimi ragazzi di borgata soprattutto in via del Corso, ma non per le strade laterali, via Borgognona, via Condotti ecc, che sono più ricche, più eleganti ed è come se le sentissero meno loro. Quello è chiaramente un mondo di ricchi, dove se non hai un fracco di soldi non sei nessuno.
EI: Insomma è il consumo a creare una continuità, un percorso che omologa centro e periferia. Via del Corso è divenuta la naturale continuazione del centro commerciale della borgata. Leggendo il suo romanzo resta comunque la sensazione che oggi il senso del luogo sia addirittura più forte rispetto ai romanzi pasoliniani
WS: Può essere, ma io sono un romanziere, non un sociologo. Il romanzo è sempre un’altra dimensione rispetto alla realtà empirica. Sono i personaggi del romanzo che orientano il punto di vista del libro. La maggior parte dei miei personaggi non ha un lavoro fisso ed è dipendente dalla cocaina; alla lunga, questo vuol dire non muoversi più, crogiolarsi nella sconfitta e in sogni tanto più grandiosi quanto più pigri ed inerti.
EI: Enzo Siciliano nella sua biografia di Pasolini a un certo punto scrive che, in tutti gli altri posti d’Italia dove aveva vissuto, Pasolini viveva la sua omosessualità come un peccato, nelle borgate romane invece sente di non peccare più. La borgata come luogo dell’amoralità più estrema: questo è ancora vero oggi?
WS: È ancora vero in due sensi. Uno negativo, nel senso che parecchi borgatari, per il tipo di vita che fanno, non si possono permettere nessuna disciplina morale, hanno bisogno di quella tolleranza tipica della borgata della serie “ma che te frega”, “tanto è uguale”; la legge è una cosa lontana e quasi nemica, per cui in realtà anche se tu confessi uno strappo, un’irregolarità, nessuno ti condanna. La cocaina, gli impicci, gli scippi, il traffico di merce rubata, sono percepiti come un arrangiarsi e non come un qualcosa di veramente illegale. C’è però anche un aspetto secondo me positivo: c’è una coscienza della debolezza umana che fuori dalla borgata non trovi. Hai proprio l’impressione che diano per scontato che gli uomini siano degli animali difettosi, per cui ognuno ha il suo, di difetto. In questo modo ci si può riconoscere nell’altro, provare una specie di empatia, di comprensione. Magari si professano idee di destra molto repressive e intolleranti, ma all’atto pratico vige una doppia morale.
EI: E invece il fatto che chi non vive in periferia la veda con orrore ma anche con una sorta di fascinazione in quanto la individua come luogo della massima libertà?
WS: Quello secondo me comincia ad essere meno vero. Era vero fino agli anni ’50-’60, prima del ’68, quando la morale borghese era molto forte – c’era il senso dell’autorità, di ciò che si poteva o non si poteva fare, quindi proprio per questo era molto forte, nella sinistra giovanile o negli artisti, anche il gusto della trasgressione: sui delinquentelli di borgata veniva proiettata tutta la frustrazione borghese, il fuorilegge faceva quello che tu avresti voluto fare e non avresti mai fatto. Adesso ho l’impressione che questo appeal sia venuto un po’ meno, anche perché la prospettiva si è ribaltata: una volta quelli di sinistra invocavano la trasgressione (i sessantottini e i loro famosi slogan libertari e anarchici), adesso invece invocano più regole, più disciplina, più autocontrollo: bisogna salvare il pianeta, bisogna ricostruire i valori, riscoprire la sobrietà e il sacrificio. Mi capita sempre più spesso di trovare persone soprattutto di sinistra, intellettuali, che magari le borgate le conoscono poco perché non hanno occasioni per andarci, eccetto quando vanno al teatro di Tor Bella Monaca o in qualche ospedale trasferito oltre il raccordo, che però le descrivono semplicemente come un inferno. Nessuna attrazione romantica o decadente. Paradossalmente oggi è la destra ad essere percepita come più anarchica e allergica alle regole ed è forse anche per questo che riscuote consensi in periferia.
EI: Da questo punto di vista però qualcosa è cambiato in questa città. La paranoia attuale nei confronti di una criminalità più immaginaria che reale, la paura, la chiusura non avevano mai fatto parte della cultura romana. Nemmeno negli anni Ottanta, durante l’emergenza eroina quando c’erano decine di scippi al giorno si è vissuto un tale clima da caccia alle streghe come quello di oggi che ha portato addirittura l’esercito per le strade.
WS: Nel romanzo mi sono fermato proprio di fronte a questo fatto perché capivo che stava cominciando un’altra storia, un’altra Roma. Lo spartiacque secondo me è rappresentato dal massiccio afflusso di immigrati. Ho l’impressione che questa presenza forte di rumeni, albanesi, cinesi stia provocando una mutazione per cui probabilmente quell’immagine delle borgate in qualche modo aperte e tolleranti sia inesorabilmente arrivata al capolinea. Questa volta le borgate non riescono ad assorbire l’ultima ondata migratoria, si è creato un conflitto sul territorio molto forte. Il problema secondo me deriva proprio dall’impossibilità di condividere gli spazi della periferia, oltre al fatto che gli immigrati hanno portato una criminalità più violenta, più dura, meno affabile.
EI: Oddio, non è che gli eroinomani che negli anni Ottanta ti scippavano o ti puntavano un coltello alla gola per 5 mila lire fossero tanto affabili…
WS: Erano dei singoli; io sto parlando di come la criminalità vive il territorio. Gli albanesi o i cinesi sono in trasferta, non possono permettersi debolezze. La vecchia criminalità romana lasciava sempre delle zone lasche, perché contava sulla benevolenza e sulla protezione degli abitanti. Questo, oltre all’ovvio conflitto per il controllo del territorio, crea anche una distanza culturale, l’impressione di una maggiore crudeltà della malavita straniera. Rispetto alle ondate di immigrati del dopoguerra, i borgatari quest’ultima l’hanno percepita come una vera e propria invasione di territorio contro la quale bisogna fare fronte comune. Più contro certe etnie che contro altre. Gli africani per esempio possono essere oggetto di razzismo spicciolo, ma non suscitano reazioni di rigetto culturale. Va molto peggio con gli albanesi e coi rumeni, identificati coi rom: li si fantastica come più aggressivi, capaci di insinuarsi in casa. Male anche con gli indiani o i cingalesi perché portano le famiglie e invadono lentamente i quartieri come un’alluvione. Dei cinesi si rispetta il denaro, ma non si manda giù la loro riservatezza che diventa scostanza: che quando non ti rispondono, non è perché non ti capiscono, ma perché non ti vogliono rispondere. In alcuni negozietti che sono sorti come funghi in periferia, come quelli dove vendono dischi, ti mettono subito sull’avviso appena entri: “questo è un negozio solo per cinesi”. Insomma quella Roma ecumenica che sembrava poter assorbire tutto, quel luogo in cui tutti potevano ritrovarsi e identificarsi, credo stia scomparendo.
EI: Ho fatto una lista delle tonalità emotive dei personaggi di borgata protagonisti del romanzo: amoralità, indolenza, fatalismo, impossibilità di portare a termine un progetto, indifferenza al futuro.
WS: Sicuramente non valgono per lo studente che va ad abitare lì temporaneamente perché gli affitti costano meno, ma identificano in modo approssimativo il borgataro diciamo così autoctono. Ad esempio è incredibile l’assoluta incapacità di programmare il domani, figuriamoci il futuro. Chi va a lavorare con regolarità è considerato come un sempliciotto. Il doversi adattare a degli orari fissi diventa una prigione. Questo già Pasolini lo aveva capito in Ragazzi di vita e in Accattone. D’altronde la periferia romana è stata sempre improduttiva, non nasce intorno alle fabbriche. E’ diverso proprio l’atteggiamento rispetto a una periferia operaia. Il sottoproletario tende a vivere alla giornata e allo stesso tempo a sognare in grande: è assolutamente alieno alle qualità tipicamente operaie come il risparmio, la solidarietà, la speranza per i figli ecc. L’idea che la vita sia una scala da salire gradino a gradino non appartiene al borgataro: se in alto non si può arrivare in breve tempo, tanto vale sperare nella botta di culo o passare direttamente all’illegalità.
EI: A pensarci bene queste tonalità emotive sono più o meno identiche a quelle che la sociologia attuale attribuisce all’individuo consumatore.
WS: Nelle periferie romane il consumismo, come aveva intuito Pasolini, ha fatto subito presa. Non c’erano argini, non c’era niente da superare, ideali, ethos, miti, simbologie o relazioni sociali precedenti. Le borgate erano già bell’e pronte per essere riempite di oggetti di consumo. Pensa la fascinazione quasi magica che hanno per le tecnologie. I borgatari sono sempre provvisti dell’ultimo gadget ipertecnologico. Magari non possiedono alcune cose che tu consideri essenziali come il bancomat o la tessera sanitaria, ma sicuramente possiedono l’ultimo modello di telefonino o un televisore al plasma grande come una casa. Quanto più sei insicuro della tua identità, tanto più ricerchi l’accessorio firmato (quello autentico, non quello tarocco degli sfigati e non importa come te lo procuri). Insomma al necessario si può rinunciare ma al superfluo no.
EI: Il reality show è il simbolo della totale distruzione della differenza tra pubblico e privato. Ma anche nelle periferie che lei descrive nel romanzo tale distinzione sembra non esserci affatto, tutto è pubblico, alla luce del sole, tutti sanno tutto di tutti.
WS: Questo è vero. Mentre per il cosiddetto borghese i panni sporchi si lavano in famiglia e ha sempre pudore a raccontarti la sua vita privata, in borgata si è molto generosi e spesso esibizionisti. Si ama ostentare se stessi quando le cose vanno bene e lamentarsi pubblicamente quando vanno male. In questo senso c’è una perfetta osmosi tra borgata e televisione-verità, e infatti guardano quantità mostruose di programmi televisivi, senza discriminare, fanno un uso totalmente bulimico del mezzo televisivo. D’altra parte questo essere tutto pubblico rende le borgate degli osservatori privilegiati per indagare le dinamiche sociali, una sorta di laboratori senza mura dove tutto è visibile.
EI: Si può considerare la cultura di periferia come creativa? Voglio dire c’è stato un periodo a Roma tra gli anni ’80 e gli anni ’90 in cui un certo tipo di cultura di strada si è fuso con una nuova sinistra alternativa, essenzialmente quella dei centri sociali e ha prodotto avanguardia culturale a livello nazionale: rave, musica rap, forme nuove e originali di socialità. Certo, questo sembra avvenire solo quando la cultura di periferia si salda con un certo tipo di sinistra.
WS: Da un punto di vista linguistico le periferie romane sono sicuramente creative, creano a getto continuo modi dire, battute, espressioni che attraverso la televisione contagiano tutti gli italiani. Per il resto mi sembra che i centri sociali abbiano ormai perso da anni la loro capacità inventiva. Purtroppo ho l’impressione che ormai la borgata sia creativa solo nel distruggere. Fin che nel nostro mondo prevarrà un principio di entropia, e una deriva inconscia verso la morte, loro saranno all’avanguardia.
EI: Il problema fondamentale che ha oggi la sinistra è come parlare a questi soggetti. La sinistra non può prescindere dall’idea di futuro, di progetto, di trasformazione del mondo altrimenti non sarebbe tale. Qui invece si ritrova persone completamente schiacciate sul presente, incapaci di programmare le proprie vite, figuriamoci di abbracciare un programma politico.
WS: È quello che dicevamo anche prima. D’altronde da sempre la rivoluzione si fa con il proletario ma non con il sottoproletario. Se è così per la rivoluzione, figuriamoci per il riformismo. Non riesco a immaginare un borgataro riformista.
*Fotografia di copertina di Pasquale Liguori