Emiliano Ilardi
Per quelli che hanno fatto parte della prima generazione rave (1989-1999), il teknival illegale di Valentano, tra Lazio e Toscana, non sorprende certo per il fatto che qualche migliaio di persone provenienti da tutta Europa siano riuscite ad eludere tutti i controlli e ad organizzare una festa moltitudinaria. È dagli anni ‘90 che funziona così e i raver hanno sempre dimostrato una grande capacità di aggiornamento tecnologico e di mettere a punto strategie comunicative in grado di bypassare le forze dell’ordine di ogni paese. Ciò che sorprende invece è la maniera in cui l’evento è stato raccontato dai media mainstream italiani: ossia nello stesso identico modo in cui lo facevano 30 anni prima quando il fenomeno aveva cominciato a diffondersi. Basterebbe confrontare gli articoli del Corriere della Sera o di Repubblica degli anni ’90 con quelli degli ultimi giorni riguardanti il rave di Valentano, per rendersene conto. Sembrano copiati pari pari:giovani nichilisti senza valori e senza futuro in preda agli effetti di droga e alcol si aggirano alla ricerca dello sballo, come zombie fuori controllo, in uno spazio percepito senza regole e quindi potenzialmente suscettibile di qualsiasi accadimento. È chiaro che i media raccontano solamente i (presunti)“fatti” che, dal loro punti di vista, sono negativi: overdose, coma etilico, cani randagi impazziti oppure morti e lasciati imputridire al sole, pecore scannate per barbecue improvvisati, sporcizia, assenza di igiene, stupri, furti, donne che partoriscono in mezzo ai campi, vandalismo e devastazione del territorio, in un crescendo in cui progressivamente la fantasia morbosa del giornalista si sovrappone alla realtà fino a sostituirla (per un resoconto un po’ più realistico di quello che è successo a Valentano si legga qui
https://www.dinamopress.it/news/e-tutta-colpa-del-rave/?fbclid=IwAR0LqIRfGVnUMb_eu0FWuO9PsF4JcF2Aa1DjWfM7ARq1jkV–P9kpiSMi54;https://www.esquire.com/it/news/attualita/a37347777/rave-viterbo-com-era/?utm_medium=Social&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR2QzdR34j25pX-6bbYJ0RRLdMvOAh3dRBkOH8Hi7bLh5IK7yegt5hmeMso#Echobox=1629390619; https://ilmanifesto.it/il-teknival-delle-falsita/).
Breve storia dei free party
Il discorso sarebbe lungo ma in queste poche righe vorrei provare a offrire due ipotesi di questa persistenza trentennale dello stesso racconto giornalistico tenendo conto che, se negli anni ’90 il giornalista si trovava di fronte a un fenomeno nuovo, 30 anni dopo invece avrebbe a disposizione decine di libri, articoli, resoconti, cronache a cui affidarsi per farsi un’idea di cosa è un free party.
La prima riguarda la natura “involontariamente” politica dei rave illegali. Nascono in Inghilterra alla fine degli anni ’80 per consumare musica house e poi techno in maniera autonoma rispetto alle regole imposte dall’industria del divertimento. La musica techno proprio in quanto musica di flusso non si lascia rinchiudere nelle anguste gabbie spazio-temporali imposte dal mercato: la discoteca infatti – con la sua pista ben delimitata e distinta dal bar, dai divanetti, dai privé, con suoi rigidi orari di apertura e chiusura, con gli alti prezzi dei biglietti e delle consumazioni, con i controlli (e spesso le violenze) dei buttafuori, con i dress code e le liste – ha sempre rappresentato per una parte dei raver una limitazione delle potenzialità liberatorie e dionisiache della musica techno. I free party quindi puntano alla costruzione di una dimensione spazio-temporale alternativa per fruire della musica techno al massimo delle sue potenzialità. Il problema è che nascono proprio nel momento della massima ascesa del neoliberismo in cui sempre più le regole del mercato cominciano a coincidere con quelle dello Stato e quindi divengono, al di là delle loro vaghe motivazioni politiche, i massimi nemici di entrambi. Non è un caso che già nel 1994 il Regno Unito approvi il Criminal Justice and Public Order Act, una legge appositamente pensata per reprimere i rave illegali. Oggi un capitalismo sempre più immateriale che punta a mettere a lavoro e trasformare in strumento di produzione qualsiasi elemento o azione degli individui (soprattutto quello che una volta si chiamava “tempo libero”), è chiaro che vede i free party come una manifestazione dell’anticristo, di un consumo non riutilizzabile o trasformabile in valore di scambio. D’altronde l’obiettivo del mercato è sempre stato quello di impadronirsi della dimensione del tempo e rendere lo spazio il più liscio possibile in modo da strutturare regole e relazioni sociali esclusivamente in base ai suoi interessi. Paradossalmente il raver, con il nomadismo dei free party, vuole la stessa cosa, ovviamente per finalità diverse. L’inimicizia non può che essere assoluta.
I free party, quindi, pur non avendo finalità politiche precostituite (lo scontro con Stato e Mercato non è teorizzato a monte ma diventa, nella prassi, una necessità ineludibile) hanno però, inevitabilmente, effetti politici: gruppi organizzati, occupano temporaneamente una porzione territorio pubblico o privato e, in barba a leggi e regolamenti, organizzano la loro festa promuovendola attraverso canali comunicativi alternativi al sistema dei media ufficiali. Negli anni ’90 a un certo punto la rave culture, partendo dalla sua esperienza “sul campo”, aveva, in parte, preso coscienza di questa sua “politicità” producendo interessanti e innovative riflessioni sulla natura e le nuove modalità del conflitto politico in società consumistiche e tecnologicamente avanzate (si pensi solo al famoso testo di Hakim Bey, “T.A.Z.: The TemporaryAutonomous Zone, OntologicalAnarchy, PoeticTerrorism”,la vera e propria bibbia del movimento) che erano riuscite a valicare i confini della nicchia di raver che le aveva generate. Dopo qualche anno di silenzio che ne aveva fatto ipotizzare la loro progressiva scomparsa, a partire dalla fine degli anni 2000 (in concomitanza, non a caso, con l’inizio della grave crisi economica), i free party si moltiplicano e cominciano a recuperare una loro centralità tra i giovani. Rispetto agli anni ’90, però, questa seconda ondata di rave non mi pare che stia producendo analoghi momenti di riflessione se non in comunità chiuse e ristrette, essenzialmente online. Oggi, a parte le numerose e utili pubblicazioni che raccontano la storia dei rave illegali da parte dei frequentatori degli anni ’90, in realtà manca proprio un ragionamento sui free party contemporanei; se, ad esempio, sono cambiate la loro natura e finalità.
Dalla cultura del punk alla musica techno
Ma d’altronde (ed è la seconda ipotesi sulle ragioni per cui i rave “non godono di buona stampa”)
una caratteristica comunicativa che rende da sempre il movimento rave (illegale ma in buona parte riguarda anche quello legale) diverso dalle culture giovanili precedenti è proprio l’indifferenza, più che il rifiuto, rispetto alla visibilità pubblica sui media. La mentalità della rave culture è figlia soprattutto del punk, che già aveva nel suo DNA un’estrema diffidenza nei confronti dei mass media, ma che molto rapidamente era stato poi riassorbito all’interno dell’industria culturale e, quindi, sdoganato. Con la techno la diffidenza diventa indifferenza: ai ravers semplicemente non importa che si parli di loro sui giornali o in televisione, non è un movimento apostolico come il rock, non vuole cambiare il mondo, non ha interesse a convincere nessuno. La rave culture non comunica con le parole ma con eventi estemporanei ed effimeri, con il ballo, con performance, con dj set e live set, con il nomadismo e l’ubiquità; sì anche con droghe specifiche ovviamente:ed è proprio questa assenza di parole scritte e orali che sta alla base della rivoluzione spazio-temporale innescata dai rave e che da sempre spiazza giornalisti, critici e politici abituati alla forme classiche della canzone, del concerto, del gruppo o del cantante disponibile per interviste o talk show.
È chiaro però che se un movimento o una cultura rifiuta di raccontare se stessa saranno poi gli altri a farlo esclusivamente in base al loro punto di vista; soprattutto poi se questi “altri” scrivono articoli senza nemmeno andarci a questi eventi. Proprio perché ubiquo, concettualmente inafferrabile, rumoroso dal punto di vista musicale ma silenzioso da quello discorsivo, il free party diventa un ambiente semanticamente indefinitosui cui i media mainstream e i loro utenti possono fantasticare proiettando su di esso rancori e frustrazioni. Che l’immagine pubblica negativa della techno permanga immutata da 30 anni è dimostrato dal fatto che,dopo più di un anno dalla comparsa del Covid-19, sia stato riaperto praticamente tutto, tranne proprio le discoteche.
Ecco dunque le ragioni per cui secondo me lo stereotipo del rave (anche quello legale) come girone infernale dantesco è nato e si è consolidato nel corso degli anni. Da una parte perché fa comodo a Stato e Mercato, dall’altra perché gli stereotipi (come sanno bene donne, gay e quelle minoranze a cui per secoli è stata negata la voce) se non contrastati da narrazioni alternative, si rafforzano e autoalimentano. Ma in fondo ai ravers del viterbese non gliene può fregare di meno di modificare la loro immagine sui media, né che si racconti la “verità” su di loro; la prossima settimana saranno già in Albania, e poi in Bulgaria e quando arriva l’inverno si ritireranno nelle decine fabbriche abbandonate disseminate nelle metropoli europee o magari andranno a svernare in Australia, in Sudafrica o in Cile.
*La fotografia di copertina è tratta da Fanpage