Redazione

In fondo, tutto dipende dalla preposizione articolata: museo nella periferia; oppure museo della periferia; o ancora museo sulla periferia. Ne parleremo in quest’ordine perché è lungo quest’ordine decrescente di credibilità, per essere brevi, che ci sembrano disposte le tre soluzioni.

Se parliamo di musei nelle periferie, per iniziare, non possiamo che essere d’accordo con ogni iniziativa, almeno in linea di principio. Perché di musei c’è bisogno, nelle periferie, come c’è bisogno di trasporti efficienti, illuminazione, pulizia delle strade, scuole, biblioteche e impianti sportivi. E certamente non sarà una redazione eclettica e sregolata come questa a suggerire delle priorità di governo: gli investimenti in arte e cultura sono necessari quanto quelli nei servizi definiti essenziali; né di più, né di meno. Uno sguardo composizionista, come lo chiamavano certi vecchi marxisti: nella società tutto conta, tutto fa ricchezza e conflitto – la struttura e la sovrastruttura; il materiale e l’immaginario; l’intrattenimento e il lavoro. E naturalmente, non c’è nessuna ragione per cui un museo debba avere una relazione mimetica col suo ambiente, e parlare di quello: una mostra di Espressionisti a Tor Bella Monaca, per dire, è normale come un albero di Penone nelle vie dello shopping, o come gli scheletri primitivisti incastonati nelle valli dolomitiche.

Parlare di musei delle periferie è invece più insidioso, per quella duplicità annidata nell’espressione stessa: che può indicare un complemento di agente – il museo proprio delle periferie: fatto da loro – o un complemento di argomento – e allora le periferie ne diventano l’oggetto, ed è tutt’altra storia. Di fatto è la stessa ambiguità delle due iniziative-madre viste recentemente a Roma – il Museo dell’Altro e dell’Altrove e il Macro Asilo – sospese tra il Prenestino e il Salario; tra l’orizzonte dei resti industriali e le vie residenziali dell’alta borghesia; tra la voce delle classi non egemoni e la loro incorporazione nelle cornici del mondo legittimo.

Davvero poco accettabile, infine, sarebbe parlare di museo sulle periferie. E non soltanto perché musealizzare quello che è vivo è un esperimento complesso, sempre portatore di vibrazioni laceranti e complesse. Ma soprattutto perché nessun progetto espositivo serio può darsi senza una riflessione – urbanistica, sociologica, antropologica, perfino artistica – su cosa sia la periferia romana: se non, ovviamente, al prezzo di ridursi ad una mostrina da sfoggiare in campagna elettorale.

È così che, intorno al progetto di un museo delle periferie, rischiano di aggrovigliarsi le contraddizioni di un’intera classe di governo: la demagogia del Movimento 5S, che usa la periferia come significante vuoto (vuoto, come uno spazio espositivo senza nessuna idea); e il dirigismo del PD, con la linea veltroniana di una cultura octroyée, che dal centro si diffonde fino ai bordi della città.