C’è solo la strada su cui puoi contare / La strada è l’unica salvezza / C’è solo la voglia, il bisogno di uscire / Di esporsi nella strada, nella piazza.

Giorgio Gaber, C’è Solo La Strada, 1974

All’incirca alla metà degli anni Settanta, quando Giorgio Gaber ancora invocava la strada come unico luogo in cui scappare dall’insopportabile atmosfera domestica che, nonostante il Sessantotto, ancora opprimeva la società italiana, l’architetto Aldo Rossi disegnava un’amara città frammentata e caotica (Ora tutto questo è perduto, 1975), composta esclusivamente da edifici, monumenti e oggetti del vivere quotidiano rotti, distorti, capovolti e disposti a casaccio sul terreno. Il lucido teorico de L’architettura della città (Rossi, 1966), ancora intesa in senso tradizionale, disegnava, insomma, un contesto urbano in cui la strada, l’elemento cardine dei fatti urbani, semplicemente non era prevista. E, per altro, non sbagliava affatto: nelle nuove parti delle metropoli contemporanee le strade, che Gaber invocava come spazio di libertà e di ribellione, già non esistevano più: erano state spazzate via da quell’inconscia e mostruosa alleanza che si era realizzata a partire dalla fine dell’Ottocento tra le teorie urbanistiche, l’anarchica pulsione libertaria delle masse e la speculazione fondiaria del capitalismo.

Uno dei grandi sogni degli architetti della modernità, infatti, fu quello di rifondare la città, progettando o riprogettando tutto il territorio attraverso gesti autoritari, allo stesso tempo razionali e iper-formali, che igienizzavano lo spazio pubblico e anestetizzavano quei conflitti sociali endemici in ogni vitale fenomeno urbano. Nonostante le differenze tra le varie scuole di pensiero, quest’idea anti-urbana era contenuta in tutte le visioni moderne di città: la Ciudad Lineal (1882) di Arturo Soria y Mata, la Garden City di Ebenezer Howard (1898), la Cité industrielle (1901) di Tony Garnier, il Plan Voisin (1922) di Le Corbusier, la Hochausstadt (1924) di Ludwig Hilberseimer, il Plan Obus (1931) sempre di Le Corbusier, l’americana Broadacre City (1931-1935) di Frank Lloyd Wright. Utopie più o meno concrete che generarono la famosa Carta d’Atene del 1933, pubblicata poi nel 1938: ossia, la base teorica dell’urbanistica delle regole e dei numeri che ha provato, invano, a disegnare “razionalmente” le metropoli contemporanee con schemi più o meno astratti in cui la strada, appunto, perdeva il suo millenario senso di teatro dei conflitti.

Il sogno di una città nuova sopra descritto, in un certo senso, si concretizzò appieno. Ma, come spesso accade, il più delle volte si realizzò non nella forma utopica, razionale e positiva vagheggiata dagli architetti, ma piuttosto in quella distopica di un informe e infinito incubo edilizio, causato dalle reali dinamiche sociali, economiche e politiche in campo. Prendendo come esempio Roma, il bellissimo piano regolatore di Edmondo Sanjust di Teulada (1909) non ebbe un reale successo, nonostante disegnasse la capitale seguendo un concetto di forma che la trasformava in una meravigliosa città giardino agganciata al vecchio centro storico e ai nuovi quartieri umbertini, ancora concepiti sul rapporto tra isolato e strada. Il successivo piano di Marcello Piacentini e Gustavo Giovannoni (1931), che confermava, in parte, questa impostazione morfologica inserendoci però alcune intenzioni del Moderno, di nuovo divenne carta straccia. Il PRG di Luigi Piccinato del 1962, invece, si impose cercando di governare la città con i numeri e le regole ed escludendo il collaudato e millenario processo di espansione libera all’interno di una forma imposta. Le previsioni di quel piano, infatti, si realizzarono in forme perverse, innestando un feroce fenomeno di “spappolamento urbano”. Un processo che il vigente e inconsistente piano del 2008 non ha minimamente provato a contrastare. Il PRG del 2008, semmai, abbandonando quel minimo di forma data dallo strumento degli Ambiti di programmazione strategica – elaborati esclusivamente “indicativi” – e inserendo delle indicazioni per una moltitudini di vaghe Centralità urbane nelle periferie, ha definitivamente legalizzato la natura informe della città, delegando al Grande Raccordo Anulare ogni soluzione alle disgrazie dei territori più esterni (Lanzetta, 2018).

Così, la ricorrente costante in tutte le diverse porzioni della surreale “super garden city” mediterranea romana è che non esiste lo spazio pubblico e che le strade sono solo vie carrabili che conducono verso il Grande Raccordo Anulare e le antiche Consolari, che dal centro si lanciano verso l’ignoto dei territori esterni. Come in molte altre metropoli mondiali, costruite informalmente a modellare quel Junkspace globale descritto nel 2001 da Rem Koolhaas, le strade di questa periferia estrema sono mere strisce di asfalto che corrono attraverso gli scampoli di quel che resta dell’antica campagna romana, un territorio semi-urbano colonizzato da ville, villette e palazzine contornate da piccoli giardini murati, che sono spazi isolati e intimi in cui si svolge una vita periferica del tutto indifferente a ciò che accade al di là dei loro imponenti cancelli “di rappresentanza”.

Oggi, il Grande Raccordo Anulare è l’unica vera e grande strada che domina il paesaggio della periferia romana: un’infrastruttura automobilistica circolare totalmente priva di quelle caratteristiche spaziali e morfologiche che portavano Gaber a cantare il suo inno a una liberatoria invasione, fisica e intellettuale, della strada. Nonostante ciò, il raccordo è attualmente l’unico spazio di libertà e di ribellione che questi territori possiedono, ed è l’unico collegamento materiale e immateriale tra le varie parti di questa enorme e sciatta periferia, composta dai grandi interventi di architettura residenziale pubblica e privata, dai quartieri di palazzine speculative, dalle villettopoli, dai comparti abusivi informali, e, infine, dai servizi della contemporaneità. Questi ultimi risiedono quasi tutti sull’anello autostradale esterno: le cattedrali del consumo dei centri commerciali e degli outlet; i nuovi grandi poli dell’istruzione, della ricerca universitaria e della Sanità; i grandi parchi a tema e i giganteschi centri sportivi. A volte, questi monumenti alla banalità contemporanea rimangono “misteriosamente” non finiti, e, così, è capitato che siano stati gioiosamente trasformati dalla limitrofa industria cinematografica di Cinecittà in eccezionali set di serie televisive “allegoriche”, come le famigerate Vele di Calatrava a Tor Vergata, che hanno fatto da perfetto scenario alla tragica ed eroica storia malavitosa di Suburra (2017).

Queste importanti e meno importanti presenze architettoniche, così, si susseguono sull’anello autostradale assieme a molti edifici industriali e alle maestose rovine dell’epoca romana, che ancora svettano sul paesaggio rurale, mostrandosi esattamente come il sopra citato disegno profetico di Aldo Rossi: nonostante la forza figurativa che esprimono, questi monumenti della città per parti (Rossi, 1966) non sono riusciti a strutturare una nuova “identità”, né a caratterizzare le nuove articolazioni urbane, naufragate in un contesto urbano informale e abusivo disperso nei resti della mitica campagna romana. In questa iper-periferia, infatti, la forma della città, fatta di quello spazio urbano a cui siamo abituati, si è definitivamente perduta: Roma si è trasformata in una gigantesca ma poco densa metropoli di sole case ai lati di vie che non sono affatto strade, in cui è sgradevole, inutile e a volte anche pericoloso passeggiare e in cui non incontri mai nessuno. Qui, non solo non esistono gli spazi tradizionali urbani, ma neanche le “strade vitali” immaginate nel dopoguerra da molti architetti critici del Moderno, tra cui Piero Bottoni nel Quartiere QT8 del 1945 (Riboldazzi 2020), o i parchi attrezzati della contemporaneità.

In questa periferia oltre raccordo vi è inoltre un’enorme difficoltà di godere del diritto all’attraversamento urbano e alla possibilità di consumare interamente la metropoli, spostandosi da un quartiere all’altro, da un settore all’altro, senza troppa difficoltà. La scarsità dei mezzi pubblici di collegamento tra centro e periferia, e l’assenza di spazi d’incontro, ha fatto sì che gli abitanti di questi luoghi non si mischino più di tanto tra loro e che, quindi, specialmente i meno abbienti, non escano quasi mai dai loro quartieri, rimanendo prigionieri delle loro tribù e comunità domestiche. I giardini delle “villettopoli” borghesi e delle case popolari abusive delle Zone O e dei Toponimi, infatti, spesso contengono un simulacro domestico dello spazio pubblico: invalicabili microcosmi murati per comunità parentali con playgrounds per bambini, piscinette, palestre, campi da tennis, taverne con forni per la pizza ed enormi cucine da ristorante (Lanzetta, 2018). Queste villette kitsch sono insomma delle paradisiache prigioni post-moderne transgenerazionali che, nel tempo, come organismi viventi, si adeguano per forma e dimensioni alle trasformazioni delle famiglie, felici prigioniere in questo archetipo mediterraneo: «La via fa una curva, non si vedono altro che i due alti muri color salmone. Ci si sente felici, impressionati dalla gioia di vivere che si sente c’è al di là di questi cinquanta centimetri di mattone o di pietra, vita di fantasticherie in giardini gelosamente chiusi. Prigioni, è vero, ma prigioni da odalische» (Jeanneret – Le Corbusier, 1974).

Le odalische contemporanee della metropoli del Grande Raccordo Anulare, come quelle di altre periferie di questo «mediterraneo più vasto» (Braudel, 1987) che è diventato il nostro pianeta, abitano così imprigionate in una sorta di limbo urbano anarchico, un casalingo Junkspace koolhaasiano in cui, a una sfrenata libertà spaziale privata, si contrappone l’assoluta negazione del diritto a uno spazio pubblico decente, ossia a quei luoghi collettivi e affollati della metropoli della modernità, come appunto le vecchie piazze e strade, dove è possibile rimanere anonimi tra la folla e incontrare gente diversa dal proprio vicino di casa. Vivono, insomma, una vita postmoderna in cui, per evadere dalla dolce prigionia dello spazio domestico, possono solo scappare a fare shopping, pranzare e socializzare nei centri commerciali, portare i bambini nei vicini parchi a tema, o, infine, fare colazione negli autogrill durante quella stressante transumanza automobilistica che compiono tutti i giorni per andare a lavorare.

Privi dello spazio pubblico di sfogo della strada, intossicati da anni di shopping compulsivo, intorpiditi dalle televisioni a pagamento e dalla pseudo vita ossessiva dei social network, i cittadini dell’oltre raccordo sono ormai figure simili ai personaggi distopici di Regno a venire, l’ultimo romanzo dello scrittore inglese J. G. Ballard, che: «Addormentati nelle loro sonnacchiose villette, protetti da benevoli centri commerciali, aspettano pazienti l’arrivo di incubi che li facciano risvegliare in un mondo più carico di passione…» (Ballard, 2006). Forse, quando e se questo succederà, gli abitanti di questa strana metropoli mediterranea costruiranno un “altro” ambiente urbano, in cui l’antico archetipo della strada, trasfigurato in qualcosa di nuovo e per ora inimmaginabile, ritornerà finalmente alla ribalta accogliendo nuovi spazi di libertà e di ribellione.

Bibliografia

J. G. Ballard, Regno a venire, Feltrinelli, Milano 2006.

F. Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio e la storia, gli uomini e la tradizione, Milano, Bompiani, 1987.

C.E. Jeanneret – Le Corbusier, Il viaggio d’oriente, Faenza Editrice, Faenza 1974.

R. Koolhaas, Junkspace, Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, Quodlibet, Macerata 2006.

A. Lanzetta, Roma informale. La città mediterranea del GRA, Manifestolibri, Roma 2018.

R. Riboldazzi, La “strada vitale” di Piero Bottoni. Un omaggio del razionalismo all’insegnamento della città storica europea, in: A. Capuano (cur.), Streetscape. Strade vitali, reti della mobilità sostenibile, vie verdi, Quodlibet, Macerata 2020.

A. Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Venezia 1966.