Alessio Ceccherelli

La prima cosa che mi viene in mente, quanto mi chiedono di parlare della didattica a distanza, sono gli squat di mio figlio. Eravamo nella primavera inoltrata del 2020, durante il primo lockdown, e ormai il liceo che frequentano i miei figli si era già ampiamente organizzato (e devo dire anche piuttosto bene) con le lezioni online. Dalla stanza in cui lavoravo sentivo come al solito, in sottofondo, la voce dell’insegnante che faceva la sua lezione. Quando però mi alzo per andare in cucina, mi rendo conto che mio figlio non era seduto davanti al tablet, ma stava facendo su e giù sulle gambe, lungo la parete, a torso nudo, già abbastanza sudato. “Ma non stai seguendo la lezione?”, gli chiedo. “Certo”, mi risponde.

Una situazione simile si ripete qualche giorno dopo con l’altro mio figlio, che – sempre con la voce della professoressa a fare da basso continuo – si esercitava in qualche arpeggio alla chitarra. La reazione istintiva a questo scenario è che la DaD non è altro che un disastro, perché è la prova che i ragazzi, lasciati soli, si distraggono e non seguono la lezione come dovrebbero. Ora, che la DaD abbia (e produca) qualche problema è senz’altro vero. Parafrasando una boutade di Vinicio Capossela: la distanza può essere bella, ma la presenza ha qualcosa di più. Per studenti e docenti, niente può sostituire il sistema di relazioni e di interazioni consentito dalla prossimità fisica, dal fatto di condividere lo stesso spazio nello stesso tempo, e partecipare insieme all’incontro/scontro con il sapere. Come può l’immagine spesso sgranata o freezata di una webcam, sostituire la passeggiata (peripatetica?) dell’insegnante in mezzo ai banchi, che si avvicina agli studenti interagendo con loro, chiedendo un parere, un confronto, un intervento. Ecco, tutto questo è vero, ma solo quando c’è. Perché a me non sembra – da quel che ricordo dei miei anni di studente, da quel che mi raccontano i miei figli, da quel che emerge spesso da ricerche e dalle rappresentazioni mediali – a me non sembra che la scuola sia questa grande esaltazione della relazione. Dal punto di vista metodologico, quantomeno. A me sembra, piuttosto, che non ci sia poi tanta differenza tra l’ascoltare la lezione da dietro un banco e ascoltarla da dietro uno schermo; non c’è né dal punto di vista comunicativo (sempre di trasmissione parliamo), né da quello estetico (mezzibusti ci sono dietro lo schermo e mezzibusti ci sono dietro il banco e la cattedra).

La scomparsa della corporeità

A me sembra che il corpo, la fisicità che tanto viene declamata come perdita irreparabile dagli accesi sostenitori del ritorno in presenza, sia invece particolarmente mortificato, coinvolto il meno possibile. Ci si alza per essere interrogati alla cattedra o alla lavagna. O per andare in bagno. Se proprio vogliamo dirla tutta, almeno a casa si ha la libertà di fare esercizi fisici durante l’ora di lezione, o di praticare la ricerca dei propri talenti. Se la mente dei miei figli, e di chissà quanti altri, andava altrove (e probabilmente ancora ci va), è perché forse non era particolarmente coinvolta, non era resa parte di un’interazione fruttuosa con l’oggetto del sapere. E, sia detto per inciso, il loro percorso scolastico è ottimo, dunque non è certo un problema di scarsa predisposizione allo studio. Direi che è piuttosto un problema di “tradimento etimologico”, perché quel desiderio implicito nella parola “studiare” devono farselo venire da soli.

Il fatto è che i problemi della DaD cominciano già dal nome, infido come pochi altri (e la sua evoluzione in Didattica Digitale Integrata è giusto appena un po’ meglio). Cosa significa “distanza”? E cos’è che rende vicini i soggetti di un processo didattico? Il solo fatto di condividere le stesse quattro mura per cinque o sei ore dal lunedì al venerdì o al sabato? Siamo sicuri, ma proprio sicuri, che ci si debba concentrare sulla seconda D e non sulla prima?

Perché c’è anche una seconda cosa che mi viene in mente, quando si parla di DaD; ed è Anna Karénina. Nel capitolo VI, parte sesta, Tolstoj, che è noto anche per la sua esperienza pedagogica e didattica di Jasnaja Poljana, si lascia andare ad una descrizione a mio avviso straordinaria del metodo d’insegnamento in voga alla sua epoca. Il passo non è brevissimo ma vale la pena leggerlo:

«Griscia, che era già entrato in ginnasio, d’estate doveva ripetere le lezioni. Dàrja Aleksàndrovna, che già a Mosca aveva studiato insieme col figlio il latino, venuta dai Léviny, s’era posta come regola di ripetere con lui almeno una volta al giorno le lezioni più difficili di aritmetica e di latino. Lévin s’era offerto di sostituirla, ma la madre, avendo assistito una volta a una lezione di Lévin e notato che non la faceva come a Mosca face la ripetizione il professore […], gli aveva detto risolutamente che bisognava studiare secondo il libro, come il professore, e che piuttosto l’avrebbe fatto di nuovo ella stessa».

Lévin, per molti aspetti alter ego di Tolstoj, non è affatto d’accordo con questa impostazione, ma cede per non dare un dispiacere alla cognata: «Faremo tutto per ordine, secondo il libro».

Ecco: mi chiedo cosa sia cambiato dal 1875 ad oggi. Quanto ci siamo scostati, dal punto di vista didattico e metodologico, dall’idea che apprendere significhi ripetere, riprodurre il sapere, “secondo il libro”, così “come il professore” si aspetta che glielo si ripeta?

Non abbiamo capito niente del digitale

La didattica a distanza non ha minimamente scalfito questa impostazione trasmissiva e librocentrica, che – per carità! – ha anche i suoi meriti e i suoi pregi. Ma pur essendo stati forzati ad usare, per mesi, le tecnologie digitali e di rete, del digitale e della rete non c’è praticamente traccia nella DaD. C’è invece stata una pressoché totale incapacità di cogliere le prerogative della forma digitale, alla primaria come alla secondaria come all’università. Andare online ha significato sostituire il diaframma della cattedra con quello dello schermo. Il resto è rimasto pressoché immutato. L’orario, l’approccio, i metodi di valutazione: tutto lo stesso. E lo è sostanzialmente da addirittura prima dell’epoca in cui Tolstoj scriveva, nonostante una lunga, ricca, articolata trattazione filosofica, pedagogica e didattica che ha attraversato tutto il Novecento; che da ben più di cento anni parla di centralità dell’esperienza, di progettualità dell’apprendimento, di condivisione e co-costruzione del sapere, di dialogo maieutico. Tirare fuori e non solo mettere dentro. Dunque, il problema è la distanza o la didattica?

Poi ovviamente ci sono tante splendide eccezioni, e va detto, va sottolineato con due e tre linee, e con l’evidenziatore perché si veda bene. Anche perché il dare sempre e comunque contro agli insegnanti, in modo indiscriminato, sparando nel mucchio, ha un po’ stufato. Perché, per uno stipendio che faticherei a definire allettante, ormai gli si richiede di tutto: di essere docenti, educatori, esperti della disciplina, ascoltatori attivi, digitalskilled, un po’ psicologi, ma anche un po’ burocrati (quanta “carta”, fisica o digitale, devono riempire!). E perché ce ne sono – e ce ne sono molti – che hanno un grande rispetto del loro ruolo di mediatori e di educatori, e che si fanno in quattro per cercare di coinvolgere le loro classi, di renderle partecipi, di trasformare i loro allievi (gli allevati) in studenti (i desiderosi), in una competizione sempre più ad armi impari con il grande sistema educativo informale rappresentato dai media. Ma temo – e spero di sbagliarmi – che siano appunto ancora più l’eccezione che la regola.

Poi ci sarebbe il tema dei compiti a casa, e dei voti, e della valutazione, intesa ancora e sempre come premio/punizione e non come nutrimento necessario (anche qui l’etimologia aiuterebbe, se solo la si seguisse). Ma preferisco bendarmi gli occhi. Anzi, meglio di no, di questi tempi.