Come i lettori avranno avuto modo di comprendere, sulla nostra strada asfaltata si registrano temperature diverse. Lungo il cammino, si può passare dal freddo siberiano al caldo torrido dell’equatore. Non ci piace essere normativi in merito ai paesaggi e ai modi di guardare fuori. Impegnati come siamo a proteggere l’attività (il più possibile) limpida, squattrinata, anarchica, di un pensiero che aspira ad essere veramente pensato, non abbiamo così tanto tempo per legiferare e polemizzare. Piuttosto, ci piace perderci, come Lynch in Lost Highway. Ed è così che, camminando su questa strada a volte desertica a volte trafficatissima – subissata da forme bizzarre di inurbazione e creature ibride non ancora completamente assorbite dalla macchina del consenso – ci siamo fermati ad un incrocio dove passato, presente e futuro non esistono. In quel preciso, surreale, angolo di mondo dove vivono creature autogenerate, abbiamo incontrato vecchi amici che qualche anno fa hanno già tentato asfaltare quella roccia dura del luogo comune. Massimo Ilardi era, anche in quel caso, il nostro capitano. La rivista si chiamava “Outlet” e aveva l’assurda aspirazione di fare una rigorosa e spietata critica dell’ideologia italiana. Bene, sfogliando (non per nostalgia, ma per puro divertimento estetico), alcune sue pagine, ci è saltato all’occhio quanto, allora, fosse per noi importante ragionare su quello che chiamiamo arte. Sembrerebbe che oggi siamo diventati tutti “artisti”. Nessuno che voglia fare un lavoro “non creativo”. Ma di che cosa parliamo quando parliamo di arte? Vogliamo tentare per un attimo di riavvolgere il nastro del tempo e posizionarci sulla soglia tra ciò che può dirsi originario e ciò che non lo è, abbandonando la tirannia del nuovo a tutti costi? Quali sono stati i gesti fondativi dell’arte contemporanea? Come, e quando, è successo che il mercato sia riuscito a sviluppare intelligenze mimetiche talmente affinate da mangiarsi tutto, specialmente chi si dice “contro”? Ed è così che, cercando e ricordando e rileggendo, abbiamo incontrato per la seconda volta alcune pagine illuminanti di Luisa Valeriani, che è stata collaboratrice preziosa di “Outlet”. Questi testi non hanno età. Anzi, sembra di accedere a queste zone di senso per la prima volta. Augurandoci che il lettore possa riconoscervi la stessa bussola che a noi è sembrato di trovare, ripubblichiamo su Asfalto alcuni degli interventi critici di Luisa Valeriani. Cominciando dall’origine, dal momento in cui la storica dell’arte si è chiesta: “Quale è la sorgente dell’arte?”, finendo col rispondersi che forse è “Irreperibile”. Nel mezzo, un sentiero plastico di ricostruzioni storiche, immagini epifaniche, calamite teoriche. Siamo lì fermi al nostro incrocio, come il protagonista di Paris Texas di Wim Wenders. Sulla strada assolata, apparentemente, non c’è nessuno. Ma è proprio qui, lontani da ogni chiacchiera, soli e anche un po’ persi, che ci può capitare di incontrare gente irredimibile e (anch’essa) irreperibile come Walter Benjamin, Aby Warburg, Guy Debord, Michel Foucault e Mario Tronti. Buon viaggio.
Alla sorgente dell’arte: dal magazzino di “Outlet” alla strada assolata di “Asfalto”
Alessio Ceccherelli2022-02-15T15:31:54+01:0019 Febbraio 2022|Katia Ippaso, Editoriale|Commenti disabilitati su Alla sorgente dell’arte: dal magazzino di “Outlet” alla strada assolata di “Asfalto”