“I videogiochi non influenzano i bambini. Voglio dire, se Pac-Man avesse influenzato la nostra generazione staremmo tutti saltando in sale scure, masticando pillole magiche e ascoltando musica elettronica ripetitiva”.
Questa affermazione, pronunciata nel 1989 da Kristian Wilson, manager della Nintendo (ma l’attribuzione, in realtà, è incerta), ha funzionato per tutti gli anni ’90 come una sorta di meme ante litteram in cui si è identificata la prima generazione di ravers. Una generazione che, soprattutto in Italia, si è percepita come completamente diversa dalle precedenti non solo perché ascoltava e ballava musica techno (e non il rock o la disco), utilizzava droghe sintetiche (e non erba o eroina) e si riuniva per far festa in fabbriche abbandonate (e non nei concerti); ma anche (e soprattutto) perché si sentiva figlia degli anni ’80: di Pac-Man (uscito proprio nel 1980) e delle sale giochi, del sintetizzatore utilizzato per le sigle dei cartoni animati giapponesi e della Italo-Disco. Non è un caso che a Roma, nella seconda metà degli anni ’90, accanto ai rave legali e illegali, sono diventate un successo inaspettato le serate danzerecce del Torretta Style con i dj Luzy L e Corry X che, accanto alle hit synth pop degli anni ’80, proponevano le sigle dei cartoni animati, dei programmi televisivi più emblematici del decennio e dei videogame.E non è un caso che tutti i più famosi dj degli anni ‘90 renderanno tributo ai videogiochi della loro infanzia remixandone i jingle più famosi e convertendoli in successi mondiali (Tetris, Pac-Man, Pong, Mario Bros, Bubble Bobble, etc.).
Nessuna continuità quindi con le culture musicali precedenti (se non forse un forte debito riconosciuto nei confronti del Punk e del Rap): l’essere cresciuti negli anni ’80 rendeva quei bambini e quegli adolescenti completamente diversi perché diversi erano i media e i contenuti che consumavano.
Solo studiando cosa avviene tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’80 si può capire perché una intera generazione all’improvviso, a partire dal 1989, ha abbandonato suoni, riti e mode del passato per abbracciare una nuova sonorità totalmente macchinica e inumana (o postumana), che rifiutava il tempo cronologico (una traccia techno non è una canzone, esattamente come un rave non è un concerto visto che entrambi potenzialmente possono durare all’infinito) e il linguaggio verbale come portatore di senso (nella techno non ci sono testi).
In questo decennio ciò che si è prodotta è una vera e propria rivoluzione del panorama sonoro soprattutto per chi era bambino e adolescente in quel periodo. Mentre i loro padri ascoltavano musica rock, i bambini degli anni ’80 rovinavano, a forza di farli girare nei mangiadischi, i 45 giri delle sigle di Mazinga, Goldrake o Gundam e si stordivano con le loro basi ritmiche ripetitive, un uso massiccio di sintetizzatori e vocoder, e una bassline già molto potente e pompata. Quei bambini che la mattina andavano a scuola armati degli schiacciapensieri della Polistil, degli orologi digitali Casio multiuso con calcolatrici e videogiochi incorporati che non smettevano mai di fare beep; e il pomeriggio, dopo aver visto i cartoni animati e la giornaliera puntata di Deejay Television dove la Italo-Disco e il synth pop inglese la facevano da padroni, giocavano con tutta una nuova serie di giocattoli che emettevano suoni elettronici (strumenti musicali, bambole, robot o giochi di abilità come il Simon) o con le nuove console di videogame (Atari, Intellivision fino ad arrivare al Commodore 64, il primo PC casalingo di successo, ma utilizzato quasi esclusivamente per i videogiochi) che iniziavano a diffondersi nelle case proprio all’inizio degli anni ‘80.
Questo nuovo panorama sonoro elettronico e protodigitale, quindi, non derivava tanto dall’industria musicale del periodo, quanto piuttosto da una tecnologizzazione degli oggetti di consumo e del tempo libero della generazione nata negli anni ’70 che non si ritrovava più con gli amici al campetto per tirare calci a un pallone, ma giocava a calcio dentro casa con la console dei videogame; oppure passava i pomeriggi al chiuso, nelle sale giochi che a partire dagli anni ’80 sono spuntate come funghi in tutti i quartieri delle grandi città. Le colonne sonore dei primi videogiochi, create da veri e propri pionieri della musica elettronica come Rob Hubbard, cominciavano già ad assumere in questo periodo la forma di tracce di musica techno (si pensi ad esempio alla mitica Commando del 1985): ripetitive, senza un inizio o una fine identificabili, totalmente elettroniche. Ripensandoci a posteriori, una sala giochi dei primi anni ‘80 può essere tranquillamente accostata a quello che sarà poi un tipico club di musica techno: immersione totale in un ambiente chiuso e oscuro, con la nebbia artificiale dei fumi delle sigarette, caratterizzato da una mescolanza di bagliori di tutti i tipi e da una molteplicità di suoni elettronici avvolgenti, ripetitivi e sparati a tutto volume. Non solo: gli arcade delle sale giochi obbligavano il giocatore a un movimento continuo e robotico di tutte le parti del corpo, contenevano una risposta corporea ad uno stato semi-ipnotico dovuto proprio all’interazione col gioco. Divertirsi con i videogame degli anni ‘80, insomma, era un po’ come ballare. Ed è proprio a questi movimenti videoludici che, in parte, si devono essere ispirati i neri del Bronx che, proprio in quel periodo e magari appena usciti da una Amusement Arcade, si esibivano in strada ballando la breakdance su basi potentemente elettroniche e con movimenti secchi, ipnotici, surreali e robotici che li faceva assomigliare a un branco di Pac Man che, trovando lo schermo troppo stretto, decideva di uscire dal gioco per riversarsi nelle strade del ghetto.
È solo, quindi, dopo un allenamento decennale ai nuovi suoni elettronici, quando l’etere si è impregnato totalmente di queste sonorità, che la musica elettronica può staccarsi dal supporto visualeo materiale (sia esso un giocattolo, un videogioco o un cartone animato) e diventare un genere autonomo, la techno music. Solo quando, alla fine degli anni ’80, si verifica questa saturazione, il sensorio delle nuove generazioni è in grado di impadronirsi totalmente dei suoni elettronici, giocarci, manipolarli e farli diventare la base dell’ultima vera e propria cultura giovanile di massa di fine millennio: la cultura rave. La musica techno, quindi, rappresenta il completo assorbimento dei meccanismi percettivi dei suoni elettronici da parte della generazione degli anni ‘80 e prefigura l’avvento delle nuove generazioni digitali. Tanto che si potrebbe affermare che noi occidentali siamo precipitati nel digitale prima con le orecchie (udito) e solo in un secondo momento con gli occhi (vista).