Gran parte delle riflessioni sugli anni Ottanta sono confinate in una banalizzazione che si concentra su due stati d’animo contrapposti: il sollievo o la nostalgia. In entrambi, l’oggetto della riflessione sembra esistere esclusivamente in contrapposizione al decennio precedente.
Il primo sentimento è quello dominante nel mondo dell’informazione. Il sollievo per la sostanziale fine degli “anni di piombo”, per la fuoriuscita dall’incubo di una società ingovernabile, del conflitto diffuso, del “salario variabile indipendente”, dell’iperpoliticizzazione. Migliaia interventi delle menti migliori di una generazione (tipo Veltroni) hanno ripetuto questo ritornello per anni e ancora oggi, di fronte a qualsiasi minimo incrinarsi del consenso al “migliore dei mondi possibili”, sono pronti ad ammonire i reprobi su quanto terribili fossero gli anni Settanta e quale rischio sarebbe ripiombarci dentro.
Il secondo sentimento fu quasi immediato, la nostalgia. Tonalità emotiva largamente diffusa a quel tempo nella sinistra politica e culturale, una presenza allora significativa nella realtà italiana e che persiste ancora oggi nella ben più difficilmente rintracciabile cultura di sinistra. Gli anni del disimpegno, del travoltismo, dell’edonismo reaganiano, dell’individualismo più sfrenato. In realtà tutto il male, che con sollievo o nostalgia, si pensa degli anni Ottanta fu sicuramente una parte vera e concreta di quel decennio che significò, nella fase finale del secolo, un momento di passaggio fondamentale, inevitabilmente legato, in Italia ma non solo, agli anni precedenti. Personalmente, se devo pensare a una formula, che in maniera sintetica possa dare ancora oggi il senso del decennio e della sua rilevanza, penso a quella di Paolo Virno, ripresa in una sua recente pubblicazione, perché mi sembra la più giusta: “una controrivoluzione capitalistica”.
«La controrivoluzione degli anni Ottanta, edulcorata dagli infingardi “post” e “neo”, ha lavorato con metodo ed è andata fino in fondo alle cose. Non vi è aspetto della nostra esperienza attuale, compresi i tic collettivi e le abitudini in voga per una settimana appena e gli incubi smerciati all’ingrosso, che non abbia tratto origine dal laboratorio a cielo aperto all’opera in quel decennio» (Negli anni del nostro scontento, DeriveApprodi, 2022).
Da un punto di vista storico-politico il decennio inizia un poco prima, nel mese di maggio del 1979, con la vittoria elettorale in Inghilterra dei Conservatori guidati da Margaret Thatcher. Un dominio che si protrasse per tutto il decennio, con la Lady di ferro Primo ministro fino all’ottobre del 1990. Poco più di un anno dopo la vittoria della Thatcher, negli Stati Uniti Ronald Reagan vinceva le presidenziali del novembre 1980 (bissando la vittoria in quelle del 1984). A chiudere il decennio un avvenimento che ebbe una portata simbolica enorme: la caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989, che anticipò il crollo e la scomparsa dell’Unione Sovietica. Quando nella notte di Natale del 25 dicembre 1991 la bandiera rossa smise di sventolare sul Cremlino finiva, secondo alcuni storici, il secolo breve, secondo altri, poi abbondantemente smentiti dai testardi fatti, addirittura la storia.
In Italia, si parva licet, alcuni eventi segnalarono ugualmente e fragorosamente l’inizio e la fine del decennio. Il 1980 con le stragi di Ustica (81 morti) e di Bologna (85 morti) e la lunga lotta operaia alla Fiat dell’autunno, conclusa con la sconfitta totale non solo della classe operaia ma anche delle organizzazioni sindacali e del partito che la rappresentava. La mitica “prima società”, quella dei produttori e dei suoi rappresentanti, che secondo un’arguta lettura del movimento di contestazione del 1977 rappresentava il progresso e il futuro a fronte della disperazione nichilista dei marginali, veniva brutalmente messa alla porta. A fronte delle tragedie di inizio decennio, gli anni Ottanta italiani si chiudevano con la svolta della Bolognina del novembre 1989 che dava il via al tragico, ridotto spesso in soap opera, processo di scioglimento del Partito comunista italiano (sancito nel febbraio del 1991).
Una controrivoluzione capitalistica
Se partiamo da questi brevi riferimenti ad avvenimenti che in qualche modo possono essere presi come “simboli” del decennio, indubbiamente gli anni Ottanta furono una “controrivoluzione capitalistica”. Le profonde trasformazioni del sistema produttivo con la fine della centralità della produzione di massa di beni di consumo e la finanziarizzazione dell’economia, furono accompagnati da una nuova narrazione del mondo capace di costruire e imporre una egemonia culturale che tuttora rimane dominante. L’acronimo TINA, there is no alternative, proprio in quegli anni si afferma divenendo nella sua apoditticità il marchio di fabbrica di un lungo quarantennio. In quegli anni comincia a radicarsi un sentire comune per il quale oggi è più facile pensare alla fine del mondo che alla fine del capitalismo. Indubbiamente molti dei sentimenti dominanti degli anni Ottanta ci appaiono come uno specchio deformato di quelli degli anni Settanta, risultato di una “rivoluzione” sconfitta, che aveva fatto saltare, in Europa e più nello specifico in Italia, le grandi coordinate della ricostruzione e dello sviluppo post-bellico. È così per la grande politica, quella della visione strategica capace di tenere insieme le spinte provenienti da differenti attori sociali in un progetto generale. Tutto questo si incrina e poi esplode a fronte di un conflitto diffuso che vede emergere nuovi attori sociali non disponibili a riconoscere una centralità che fuoriesca dal proprio specifico. Da questo magma ribollente, che in ogni caso negli anni Settanta fu capace di “imporre” riforme legislative e cambiamenti culturali e materiali assolutamente significativi, emerge una nuova centralità dell’individuo che si pensa e si definisce “sovrano”, sciolto da appartenenze durature e subordinazioni a un progetto che non sia la semplice soddisfazione dei propri bisogni. Portatore di quei “sentimenti dell’aldiquà” che un bel libro di quegli anni, una delle prime riflessioni provenienti dal mondo della sinistra non viziate da nostalgia e moralismo, individuava nel cinismo, nella paura e nell’opportunismo.
La fine della centralità della politica, dell’impegno civile, della partecipazione a movimenti e partiti è la conseguenza inevitabile della sconfitta dell’assalto al cielo che aveva caratterizzato il lungo Sessantotto italiano. Quei lunghi anni di conflitti rappresentavano il tramonto di un’era e non quell’alba che fu sognata da un paio di generazioni. Il delirio della scelta armata non fu, in questo senso, la causa di una sconfitta, ma l’ultimo chiodo per chiudere la bara che conteneva un’idea, quella di rivoluzione.
Il funerale del sistema dei partiti e del lavoro
Ma la sconfitta dei movimenti fu solo una “vittoria di Pirro” del sistema politico dominante. L’agghiacciante cerimonia funebre per Aldo Moro in assenza della salma, il 13 maggio 1978 nella basilica di San Giovanni, fu in realtà il vero e proprio “funerale del sistema dei partiti” che avevano costruito l’Italia repubblicana. Gli anni Ottanta, quelli del nuovo miracolo economico, dell’Italia quinta potenza economica mondiale, del rampantismo e della “Milano da bere”, del craxismo e della formula del CAF (Craxi-Andreotti-Forlani), fu solo una lunga agonia di un sistema politico incapace di rinnovarsi e sempre più sprofondato nella corruzione. Tutto durerà per una sorta di inerzia fino alla caduta del muro di Berlino, quando la fine della paura del comunismo porterà al redde rationem per il sistema politico italiano. La corruzione e l’enorme debito diventeranno un peso non più accettabile all’interno del mercato sempre più unico del neoliberismo finanziario. Saranno i giudici di “mani pulite”, a questo punto liberi di colpire, a svolgere il ruolo del plotone di esecuzione di un ceto politico e un sistema di partiti non più necessario.
Un discorso simile si può fare rispetto al lavoro. La ristrutturazione industriale, il profondo cambiamento della struttura produttiva vanno di pari passo a quel “rifiuto del lavoro” che si era manifestato, soprattutto tra i giovani, proprio negli anni Settanta. La fuga dalle fabbriche, il rifiuto di identificarsi con la propria professione, l’apprendere a “navigare” tra le possibilità offerte da un welfare in espansione, l’assenteismo e la continua ricerca di rallentare i ritmi, “lavorare con lentezza”, proprio negli anni Settanta erano iniziati a manifestarsi come comportamenti sempre più diffusi. Il mercato del lavoro inizia ad assumere quelle caratteristiche di precarietà e flessibilità che diverranno la cifra dominante negli anni a seguire. Ma questa precarietà, allora non così diffusa e soprattutto non ancora imposta, viene anche ricercata in qualche modo da chi sceglie di abbandonare il posto fisso, preferendo lavori part-time o stagionali che lasciavano spazi di autorealizzazione e possibilità di una vita non scandita esclusivamente dal lavoro. Va in questa direzione anche l’illusione, perché tale si rivelerà, dell’autoimprenditorialità, dell’essere “padrone di se stesso”; fenomeno che negli anni successivi si manifesterà con l’abnorme crescita delle partite Iva che mascherano spesso un lavoro “servile” più che subordinato. Più in generale si manifesta concretamente nel mercato del lavoro, ma anche più in generale rispetto al riaffermarsi dei valori dell’arricchimento e del profitto, la scelta per una soluzione di esodo. All’opzione “voce” praticata dai movimenti conflittuali sembra sostituirsi quella di “uscita”, utilizzando le categorie di un famoso libro di Hirschman. Quell’esodo dal lavoro che ritorna nei giorni nostri in quel fenomeno dapprima americano, ma ora anche europeo, “the Great Resignation” con il quale migliaia di lavoratori dopo la crisi legata alla pandemia decidono di non far ritorno al loro precedente lavoro. Si sceglie di cambiare, trovare situazioni che permettano di tenere insieme la necessità di un salario coi propri desideri, i propri affetti, il bisogno di cura, magari semplicemente decidendo di prendersi una pausa approfittando di “ristori” e sussidi generosamente assegnati (specie negli Usa) ai lavoratori stabili per stemperare i problemi legati al lockdown anti Covid. Insomma, un esodo verso il “divano” direbbero i moralisti di oggi, che spesso sono sempre le migliori menti della nostra generazione.
Poi, nella concreta realtà del decennio, senza voler essere “consolatori”, è chiaro che non tutto fu “controrivoluzione”. Gli anni Ottanta furono anche una “temporalità complessa” nella quale furono sperimentati percorsi “di contro egemonia, che coniugano sottrazione e competizione con il sistema, sviluppo di significati culturali e di ambienti sociali separati assieme ad azioni di disturbo e di contestazione” (Beppe De Sario, Passato Prossimo venturo, «Zapruder» n. 21 – gen.-apr. 2010).
E in fondo, gli anni Ottanta furono anche quelli del divino Falcao.
Fotografia di copertina di Marco Introini: Quartiere Bicocca, progetto di Vittorio Gregotti Associati, 1986-1999