Territorio, spazio e luoghi
Nei sussidiari sui quali ha studiato la generazione che negli anni Ottanta era già abbastanza grande per stare fuori fino a tardi, la geografia dell’Europa e del mondo intero, prima ancora che descritta in termini orografici, idrografici, climatici, ambientali, ecc., era definita dall’appartenenza ad uno dei due blocchi: quello sovietico o quello occidentale, cosiddetto del mondo libero. E poi c’era il terzo mondo, o la terza via, o i paesi in via di sviluppo: un’accozzaglia di entità ammassate insieme senza altro criterio che quello di essere esterne o non del tutto interne ad uno dei due blocchi. Spesso in queste aree venivano scaricate le tensioni con guerre per procura. Era il mondo della Guerra Fredda. Un mondo, in effetti, in cui il territorio, le sue definizioni, la sua storia, le culture che lo abitavano e ne erano plasmate scompariva, sostituito da uno spazio predeterminato da istanze ideologiche che oggi paiono avere più che altro una determinazione di tipo trascendentale. Il resto era declinato in cifre, numeri, quantità di derrate e di prodotti, abitanti, città principali. Un prontuario che nella sua scarna matematica costituiva già, di per sé, l’intelaiatura d’un’idea di mercato estensiva, indifferente alla specificità dei luoghi. Territorio, spazio, luoghi. Tre termini concettualmente per nulla sinonimi e sui quali negli anni ‘80 si misura intera la faglia di rottura con la modernità. Il luogo in quanto precipitato storico e umano di specificità, con tutto il suo retaggio fra sacrale e identificativo, viene infine del tutto cancellato e scompare dall’orizzonte della storia – almeno in Europa uno dei più potenti segnali della fine dell’umanesimo, oltre che dell’eredità antica arrivata fino al XX secolo attraverso il Cristianesimo – dopo una crisi durata almeno cento anni, cioè fin dal pieno dispiegarsi delle dinamiche del capitale nella seconda metà del XIX secolo. Si assiste allo stesso tempo ad un duplice movimento: l’estensione esplosiva dello spazio del mercato – che in effetti porta “il cielo in terra”, desacralizzando lo spazio trascendentale dello scontro ideologico in spazio del capitale – il quale dispiega prepotentemente e senza confini il desiderio e la materialità dei consumi, e la riemersione convulsiva del territorio come ricettacolo interno, o comunque assimilato al vittorioso sistema capitalistico, di istanze eversive di ogni ordine sociale, prima che reazionarie, identitarie fino al parossismo individualistico, prima che politiche. In poche parole in quel periodo evapora la questione del tempo, fosse essa intesa in termini rivoluzionari, o conservatori.
Scompare esattamente ciò che rendeva teologica, per così dire, la Guerra Fredda. Non c’è più un domani, né uno ieri. Si enucleano a partire dalla chiusura di questa dimensione di fede quelle nevrosi millenaristiche ed escatologiche, prive però della dimensione trascendentale, dell’affidarsi alla misericordia divina, che caratterizzano i fondamentalismi di matrice protestante oggi dilaganti e che contagiano ogni aspetto delle forme associative e d’interpretazione della complessità. Questo vuol dire, fra l’altro, l’erosione, se non la scomparsa, di ogni istituto sociale e politico volto alla mediazione come forma di dilazione, memoria e rappresentazione; sia sul piano soggettivo che collettivo. Ne è un esempio attuale il massacro mediatico di un’istituzione come il clero cattolico, ultima ridotta a difesa del sacro. Uno degli effetti di questo collasso del tempo, per inciso, prefigurava già il regno incontrastato delle emozioni, cioè la deriva sciatta dell’estetica. Il carattere fantasmagorico degli anni Ottanta, la loro capacità di proliferazione e frammentazione, di estetizzazione ed esaltazione, questo caleidoscopio cocainico, ha il proprio punto d’appoggio nella rimozione di ogni orizzonte temporale, di ogni forma diacronica. Ciò che infatti oggi è la dark matter del sistema-capitale, il reale motore immobile, è fondamentalmente una disperazione nichilistica assurta a condizione normale.
Il tempo della dissoluzione
Due date possono indicare grossomodo la durata di questo inaudito processo: 1979 e 1991.
Nel 1979 si danno due eventi estremamente significativi, sia in sé stessi che per le conseguenze che si portano dietro: l’URSS entra in Afghanistan, cercando di estendere lo spazio del blocco socialista che da decenni viveva la sindrome dell’assedio; Margaret Thatcher viene eletta primo ministro – verrà rieletta per tre mandati, fino al novembre del 1990. A corredo dell’elezione della Lady di ferro, Ronald Reagan, negli USA, sarà rieletto per due mandati consecutivi (1981-1989). Da questi eventi prendono le mosse altri due processi, per altro incubati nel decennio precedente, che avviano gli anni Ottanta e divengono esplosivi: l’estensione dello spazio del mercato da un lato e la riemersione del territorio dall’altro, con tutti i corollari identitari che questo comporta.
Nel 1991 si dissolve dunque l’Unione Sovietica, pietra angolare di ogni possibile alterità, e scoppia la guerra civile che distruggerà la Jugoslavia, prologo di una crisi iniziata già a metà anni Ottanta: un esempio paradigmatico di cosa vorranno dire tutte le guerre che da quel momento in poi segneranno l’abrasione nello spazio del capitale e la riemersione, al suo interno, di istanze identitarie. Due date, queste ultime, che segnano più che altro la completa affermazione dell’ideologia liberale e del regime capitalistico di consumo, il punto d’arrivo di quel processo sismico che scompaginerà e chiuderà definitivamente e in anticipo di una decina d’anni il XX secolo in quel novembre del 1989 che vide la caduta del muro di Berlino, un evento paradigmatico della potenza con cui lo spazio del capitale abbatteva ogni distinzione e separazione territoriale come espressione di differenziazione sociale e politica. L’URSS, dunque, era entrata da tempo in una stagnazione economica e tecnologica fatale. Allo stesso tempo l’incapacità di tradurre in un tenore di vita soddisfacente la convivenza di culture e tradizioni differenti e fra loro spesso antagoniste, aveva fatto riemergere insoddisfazioni e spinte nazionalistiche – il nazionalismo è sempre l’innesco locale di una dinamica capitalistica che esso stesso si illude di poter contenere – nelle repubbliche asiatiche così come in quelle baltiche; un elemento, quello del nazionalismo, che risultò fatale anche alla federazione Jugoslava, il cui collante, venuta meno la figura carismatica di Tito nel 1980, era ormai solo fiaccamente ideologico. In maniera temporalmente isometrica all’oggi, la vicenda jugoslava, di nuovo, ha rappresentato l’esito ultimo di quel decennio e l’affinamento di una forma di distruzione del territorio e della sua realtà composita che è ormai quasi seriale e che si è variamente ripetuta lungo tutto il MENA (Middle East and North Africa) e fin nelle ex repubbliche sovietiche del Caucaso. Ma non mi dilungherò oltre su queste due tragedie, meritevoli semmai di una trattazione a sé.
Un capitolo a parte meriterebbero inoltre le vicende che nello stesso periodo attraversano la Cina e segnalano, di nuovo, l’emersione di un futuro che oggi vediamo come dallo specchietto retrovisore: il processo alla banda dei Quattro del 1981 con la definitiva liquidazione della rivoluzione culturale, l’elezione nel 1978 a segretario generale del PCC del riformista Deng Xiaoping, il varo della politica di Riforme e Apertura economica, con le sue ZES (Zone ad Economia Speciale) – di nuovo l’organizzazione dello spazio come fattore di sviluppo – e quell’innesco economico che negli anni Ottanta si sarebbe rivelato al cuore del big bang cinese e dell’affermazione della Cina come vera superpotenza economica odierna.
Le non-innocue periferie del mondo
Dalle periferie del sistema mondo, quello che fino al 1979 aveva ancora avuto per centro l’Europa e gli Stati Uniti – epicentri di quell’imperio liberista che ancora oggi ha per sigla l’acronimo thatcheriano TINA (There Is No Alternative) quale sigillo della vittoria capitalistica sulla storia, prima ancora che sul comunismo – si increspano, in contemporanea al movimento tettonico che segna quel trionfo, gli tsunami di ritorno che investiranno il centro.
Si inizia, sarà un caso? proprio da quel motore della storia che da millenni sono le aree centrali dell’Asia. Nello specifico dall’Afghanistan: un territorio secolarmente ostico per qualsiasi imperialismo e che diviene, all’epoca dell’invasione sovietica, fucina di un rimescolamento nel quale confluiscono tutti i movimenti del revival religioso islamico che fin dalla guerra del Ramadan – il conflitto arabo-israeliano del 1973 – avevano preso a diffondersi dopo il fallimento del nasserismo e dei partiti arabi d’ispirazione socialisteggiante. Gli anni Ottanta sono infatti quelli in cui si delinea in modo compiuto il profilo più avanzato dell’Islam politico, declinato però in forme volgarizzate e brutali, un sottoprodotto del colonialismo e una deriva delle inadeguate risposte che alla lunga avevano dato le lotte di liberazione di matrice secolarista. Alla sua creazione contribuirà non a caso un fiume di denaro ed armi proveniente da USA ed Arabia Saudita, in perfetta consonanza con la mutazione cui gran parte delle stesse istanze religiose va incontro in quegli anni – e non solo sul fronte musulmano: si pensi al dilagare dei telepredicatori evangelici, un fenomeno che oggi, invece, si re-immemora proprio nell’Islam. Quella mutazione figlierà i Taleban, Al-Qaedae in estrema propaggine il Daesh; tutte formazioni alternativamente declinate fra territorio (i Taleban), globalizzazione (Al-Qaeda), ed una declinazione pienamente contemporanea d’un mix esplosivo di consumismo e identitarismo (Daesh). In sostanza prende forma un’inaudita torsione del discorso religioso che da anelito di salvezza e misericordia, assume le forme di una rivendicazione identitaria, ben più individualistica. Quanto accaduto nel 2021, con la ritirata americana dall’Afghanistan, non ha fatto che rammemorare retrospettivamente un futuro in quel format degli anni Ottanta. Una volta espunto il tempo, infatti, all’interno del pianeta capitale la convulsione e la catastrofe sono le uniche due dinamiche residue, e si esplicitano, sistematicamente e coerentemente, attraverso la guerra, sia essa economica, finanziaria, dei diritti, terroristica o sul campo di battaglia, che sempre in quel torno di tempo diviene anche informazionale e informatico. Decade difatti in quegli anni il paradigma della comunicazione e prende avvio quello dell’informazione. Di nuovo: l’apparente moltiplicazione estetica di linguaggi, apparati e creatività, si immemora come monodiscorsività, convergenza e controllo. Ricordiamo un sogno che però ha la stessa sostanza dell’incubo attuale.
La morte del cittadino
La Thatcher e Reagan: due alfieri dell’espansione dei mercati – cioè della distruzione del territorio e della sua sottomissione allo spazio del capitale. Seppero condurre qualsiasi forma dialettica nel vicolo cieco del fondamentalismo liberale. Un vicolo cieco dove il soggetto moderno, via via disarticolato nella sua dimensione d’appartenenza di classe e di rappresentazione temporale, si rannicchia e diviene una monade consumistica, il cui unico orizzonte d’esperienza è il presente. Sono appunto gli anni del godimento, del rifiuto del posto fisso, della creatività, della colpevolizzazione della povertà, del decantato ‘edonismo reaganiano’. La Lady di ferro stroncherà con inaudita spietatezza qualsiasi residua velleità anticapitalista, prendendo un paese in declino e facendo sostanzialmente piazza pulita della povertà, più che risolverne i problemi. Allo stesso modo Reagan ereditò un paese in profonda crisi economica, ma in sostanza non fece che tagliare le tasse, aumentare le spese militari ed il deficit: una manna per l’espansione del capitale, cioè di uno spazio uniforme ed indifferente.
L’unico abitante possibile dentro quell’ambiente è il consumatore, un individuo solo, egoista, disinteressato alla morale, ai legami, a niente altro che non sia il soddisfacimento della sua libertà di godere qui ed ora: un tipo umano che proprio in quegli anni assurge al ruolo di vero soggetto sociale, mentre il vecchio cittadino si dissolve nei turbini della rivoluzione informatica, della deindustrializzazione e nella nascita del consumismo come stile di vita e non più come acquisto di prodotti. Di nuovo l’immemorare odierno: le funzioni della produzione conoscono oggi la loro individualizzazione. Se la produzione per mezzo delle masse aveva creato la coscienza di classe, la messa in produzione dell’individuo e delle sue emozioni crea oggi il prosumer che salda il ciclo del capitale in una dinamica puntiforme, capace nel migliore dei casi di addensarsi momentaneamente come uno sciame, in perfetta consonanza con quella che oggi è la dinamica di rete. Un esito simile subisce la politica, che negli anni Ottanta sposa definitivamente le due uniche coordinate possibili nello spazio del capitale: l’estetica e il movimentismo, due cifre che da noi avranno nel PSI di Craxi – celeberrima la piramide di Panseca, alta otto metri, al 45° congresso tenutosi con simbolica ferocia nell’ex Ansaldo di Milano – il referente estetico, e nell’affermarsi di quella gelatina vaporosa e senza consistenza né potere che piace tanto al liberalismo, la “società civile”, la perfetta incarnazione di un soggetto senza specificità storiche, territoriali e politiche qual è un movimento, l’antesignano fisico delle attuali schiere di follower che sciamano attorno agli influencer di turno.
Lampi nel tempo
Oggi, infine, un lontano precedente, cioè la guerra delle Falkland, o Malvinas, del 1982, tra una ex potenza coloniale ed un paese sudamericano, si reimmemora nel conflitto russo-ucraino, ma con dimensioni, effetti, conseguenze e intensità strabilianti, a dimostrazione di come la storia sia tutt’altro che finita, e di come una vaga immagine (quel conflitto, comunque cruento, per due isole spazzate dal vento antartico e popolate più che altro di pecore), possa riemergere alla realtà fattuale come un vivido arazzo grondante sangue, piantato al centro della rappresentazione mediatica. Così come infatti quel conflitto in una sperduta area dell’Oceano Atlantico meridionale aveva messo in scena un primo attrito periferico fra istanze identitarie e imperio dello spazio del capitale, oggi il conflitto russo-ucraino, in realtà, fa esplodere la questione nel cuore dell’Europa, la vera nuova periferia. Una guerra, beninteso, totalmente interna allo spazio del capitale, ma nel quale appunto riemerge, una volta estromesso qualsiasi orizzonte rivoluzionario, il conflitto sanguinoso fra territorialità e spazio omogeneizzato del capitale – la vecchia globalizzazione oggettivamente in crisi – come una convulsione che fraziona il mondo capitalistico, negli ultimi trent’anni oggettivamente monolitico ed unipolare. Un conflitto nel quale il sogno di un’Unione Europea senza confini che aveva innervato l’immaginario politico degli anni Ottanta, immemora oggi la sua natura intrinsecamente vacua e illusoria, crollando su sé stesso in una catastrofe politica che fa emergere proprio quello spazio vuoto che si era cercato di perimetrare con una surrettizia e costosissima massa di burocrazia e retorica. Uno spazio, invece, di ben altrimenti concreti interessi economici relativi alle risorse naturali – nel Donbass ci sono notevoli giacimenti di litio, titanio, manganese, cobalto e metalli rari, tutti utili per l’industria informatica e la prossima transizione energetica –, di feroci identitarismi risarcitori (da un lato e dall’altro si tratterà comunque di classi subalterne mandate a massacrarsi con più o meno convinzione), di assi geostrategici che si è preferito ignorare: gli Stati Uniti stanno combattendo contro la Russia, attraverso l’Ucraina, col chiaro intento di indebolire l’Europa come possibile partner cinese e bloccare gli sbocchi della Belt&Road cinese fra Mediterraneo Orientale, Mar Nero e rotte artiche.
Il mondo senza confini degli anni Ottanta, bruco iridescente e misterioso, affascinante e cangiante, creativo e multiforme, ha finalmente steso le sue ali a coprire il mondo intero con un unico spazio feroce e guerrafondaio, maniacale ed ossessivo, monodiscorsivo ed omologante.
La fotografi di copertina è tratta da The Atlantic