Antonio Tursi

Sotto la neve

Arrivare a Toronto nei primi giorni dell’anno significa confrontarsi con il suo clima: con un clima estremamente rigido, con la neve continua, con le coltri perenni. Confrontarsi con le sue temperature che spesso scendono di molti gradi sotto lo zero. Da ciò naturalmente si generano dei bellissimi scorci paesaggistici. Sia a downtown: con i parchi innevati e gli scoiattoli infreddoliti, con il lago che mostra spesso lamine di ghiaccio. Sia in periferia: dove le villette diradate dei quartieri offrono largo spazio all’adagiarsi della neve e mostrano ogni mattina la tipica scena di abitanti che spalano i loro vialetti. Sia, ancora, uscendo dalla città: resta incisa nella memoria la distesa infinita di alberi e neve che costeggia la carreggiata da Toronto a Montreal.

Montesquieu insegnava a considerare i climi per comprendere i caratteri e dunque le leggi delle diverse nazioni. Non è forse così valido un simile determinismo meteorologico. Certamente, però, il clima ha spinto a raddoppiare Toronto: sotto le strade, lì dove ci si aspetterebbe il passaggio delle buie gallerie della metropolitana, esiste una seconda città illuminata, fatta di spazi di circolazione e di sosta, di attività commerciali, negozi e bar, servizi utili anche a socializzare. Insomma, c’è vita sotto la neve. Attraverso questo ventre caldo si riescono a raggiungere i punti nodali del centro.

Un centro fatto ormai da tanti grattacieli: neppure una decina nel 2001, 13 nel 2005, quasi 50 dieci anni dopo e addirittura oltre un centinaio in costruzione. Tipica configurazione di una metropoli nordamericana spalmata di vetro e acciaio. Ma una progressione che segnala la crescita smisurata di Toronto in questo secolo. Una crescita demografica (il trend dovrebbe portare a una decina di milioni di abitanti dell’area metropolitana nel 2040) e una crescita economica. Su questi due fattori è necessario soffermarsi per capire questa città, per la quale possono ben utilizzarsi aggettivi opposti, come per esempio placida e dinamica, nello stesso tempo.

Una proiezione multiculturale

Abitare e studiare a Toronto comporta l’incontro con un’ampia comunità di italiani. Di generazioni diverse: nati in Canada da genitori e nonni immigrati oppure appena giunti per cogliere opportunità che il patrio suolo non offre più. Impegnati nei più differenti ambiti lavorativi e inseriti in livelli diversi della gerarchia sociale, di una società comunque abbastanza orizzontale e informale. Molto colti: è doveroso ricordare lo scomparso Amilcare Iannucci, direttore dell’Humanities Center dell’Università di Toronto, con il suo bellissimo ufficio in pieno centro e i suoi studi su Dante come impegno verso la madrepatria; oppure legati a una conoscenza solo orale dell’italiano e, dunque, piuttosto capaci di parlare il dialetto, appreso in ambito familiare. Strana esperienza discorrere con loro e appoggiarsi più spesso all’inglese che all’italiano per superare eventuali impasse di comprensione linguistica.

Gli italiani sono ovunque, essendo Toronto una delle città italiane più grandi al mondo: si contavano quattrocento mila cittadini di origine italiana. Con un Istituto di cultura capace di promuovere in tutti gli ambiti il nostro patrimonio. Con associazioni di connazionali assai attive negli ambiti ricreativi, nell’impegno sociale, in quello politico. Con supermercati traboccanti di prodotti italiani, a iniziare da quelli alimentari naturalmente. Insomma, vivere a Toronto non comporta tagliare i ponti con l’Italia. Piuttosto significa guardarla con maggiore intensità, intensità legata alla distanza e alla nostalgia che essa genera. Neppure il clima rigido, infatti, raffredda gli animi dei nostri connazionali di fronte agli schermi di Rai International che diffondono le canzoni del festival di Sanremo o le partite delle beneamate squadre del nostro campionato di calcio.

Questa è l’esperienza di un italiano che per qualche mese si ritrova a vivere a Toronto. Ma uguale o comunque simile sarebbe l’esperienza di tanti altri cittadini del mondo trapiantati in questa città distesa sulle rive del suo lago. Infatti, questa è la caratteristica principale della capitale dell’Ontario: essere una città cosmopolita. Una città che ospita la diversità, che raccoglie comunità provenienti da ogni dove. Secondo uno studio dell’United Nations Development Program del 2014 la metà dei suoi residenti è nata all’estero (si tratta così della seconda città al mondo per residenti nati all’estero, dopo Miami). Moltissime etnie sono presenti in città e il numero di emergenza per chiamare la polizia è attrezzato per rispondere in centocinquanta lingue.

Dall’altronde, la Carta dei diritti e delle libertà del Canada parla esplicitamente di un “retaggio multiculturale dei canadesi”, ponendo il multiculturalismo alla base del loro progetto di vita. Cosa tanto più vera nella cosmopolita ed equilibrata Toronto che nella europea e specificamente francofona Montreal. A distinguere Toronto da tante altre metropoli è la “celebrazione della diversità. Toronto è forse l’ultima città del mondo a desiderare sfacciatamente la differenza”, nota lo scrittore Stephen Marche. Toronto è sempre aperta alle immigrazioni: tante, infatti, sono state le ondate che successivamente l’hanno ricoperta ma soprattutto arricchita. “Non c’è un sound di Toronto. Non c’è un sapore di Toronto. Non c’è una scena artistica di Toronto. Non c’è uno stile di Toronto. Piuttosto, ci sono sound, sapori, scene e stili ripresi da altri posti”, annota ancora Marche. Eppure dal multiculturalismo di Toronto, da “un insieme di persone diverse, di diverse sfumature di colore, che parlano lingue diverse” si genera qualcosa di unico, una proiezione originale.

Una città leggera – leggera innanzitutto di scorie del passato – tutta proiettata al futuro. Piuttosto che le loro storie, gli immigrati hanno portato con sé i loro sogni, le loro aspettative di costruire un futuro in un mondo nuovo. Ma sogni diurni, aspettative diremmo concrete. Nessun volo pindarico o titanico. Chi sceglie Toronto lo fa valutando la sua equilibrata affidabilità. E Toronto, in effetti, offre opportunità incredibili dal punto di vista economico e culturale. Questa propensione al futuro ha costruito una grande città globale, postindustriale e un panorama culturale capace di far interagire e di mescolare tanti sound, sapori, scene, stili per proiettarsi in avanti.

Una città postindustriale

I tanti grattacieli di downtown indicano una concentrazione di forza economica. Concentrazione in termini spaziali, dunque prossimità e addensamento. In essi sono ancora localizzati i centri direzionali di imprese tradizionali, anche se alcune tra queste hanno nel tempo abbandonato downtown per la più vasta area metropolitana. Ma soprattutto in essi è racchiusa la forza postindustriale di Toronto. A iniziare dalla borsa valori canadese, che qui ha sede e che è una delle prime dieci al mondo per capitalizzazione. Toronto è il centro finanziario del Canada e uno dei più importanti del Nord America: dopo New York, la sfida è ormai tra la declinante Chicago industriale e l’ascendente Toronto postindustriale.

Quei grattacieli indicano, in primo luogo, questa specializzazione del centro della città: una incredibile densità di uffici e impiegati, soprattutto di alto livello, dei settori finanziari, assicurativi, immobiliare e di servizi alle imprese, quali assistenza legale, revisione contabile, consulenza direzionale e tecnologica. Da qui il paesaggio di banche nazionali (le cinque maggiori hanno il loro quartier generale sulle rive dell’Ontario) ed estere (aprendo filiali in Canada, nove banche straniere su dieci scelgono Toronto come sede), società fiduciarie e di investimento. L’80% delle più grandi imprese canadesi operanti nei campi della ricerca e sviluppo, dell’assistenza legale, della pubblicità e dell’high tech si trova a Toronto, secondo i dati forniti qualche anno fa dalla municipalità.

La sociologa Saskia Sassen ne ricava una tendenza comune alle città globali: le attività speculative più rischiose sono assai complesse, richiedono ingenti capitali, coinvolgono una molteplicità di imprese, innescano fusioni e acquisizioni, distribuiscono il rischio, necessitano di forme specializzate di conoscenza. Tutti aspetti che coinvolgono le professionalità di livello più elevato e che accrescono “l’importanza dell’interazione faccia a faccia. Il distretto finanziario offre molte occasioni di rapporti diretti: gli incontri al bar e al ristorante, le riunioni aziendali o fra più aziende, i cocktail e, più recentemente, la frequentazione dei centri benessere. Tali occasioni sono altrettante opportunità di incontrare regolarmente le persone che contano, di creare rapporti di fiducia”.

Il distretto finanziario di Toronto ha iniziato la sua ascesa dagli anni Ottanta e il suo sviluppo ha avuto una importante accelerazione nei decenni successivi. Avrebbe potuto, anche avvalendosi delle tecnologie di comunicazione, svilupparsi secondo altri modelli territoriali, assai più decentralizzati, anche perché lo spazio in Canada non manca (e infatti le operazioni di routine più comuni sono state in molti casi trasferite in altre zone dell’area metropolitana). Di fatto, però, le città globali e informazionali non trascendono il luogo, lo spazio, il centro della città ma lo utilizzano come nodo da cui partire per tessere le loro reti transnazionali o meglio per inserirsi in queste. Anche nel tempo delle transazioni immateriali e istantanee contano i contatti personali e la concentrazione spaziale che li favorisce.

Toronto è, dunque, pienamente una città globale e postindustriale. Ma meno rampante di altri grandi centri della finanza, a iniziare da New York con i suoi broker-wolves. L’equilibrio, persino una certa compassatezza caratterizza l’uomo d’affari canadese, cauto nell’investire i fondi pensionistici e proiettato nei week end fuoriporta sulla sponda dei placidi laghetti dei dintorni. Ciò è anche legato alla regolamentazione del sistema bancario: abbastanza severa da aver evitato abusi e quindi contenuto assai i danni della crisi finanziaria del 2008.

Lo sviluppo economico di Toronto beneficia (e in parte riflette) anche il carattere tranquillo della beneducata politica canadese. In generale, il Nord America è abbastanza immune a quelle ideologie divisive che sono state e sono croce e delizia di noi europei. Già Tocqueville lo notava. Destra e sinistra non rappresentano progetti di futuro incompatibili. In Canada, lo scontro, perciò, è abbastanza contenuto; le passioni politiche non divampano. Il momento di maggior divisione negli ultimi decenni non ha riguardo scelte strategiche squadernabili sull’asse destra-sinistra, ma i tentativi di indipendenza del Québec a motivo dichiarato della sua cultura francofona. Motivo del tutto trascurabile per la cosmopolita Toronto. Perciò, a parte qualche episodio al limite del folklore, come l’elezione del sindaco Rob Ford, la politica municipale si è sempre declinata in una buona amministrazione all’insegna di pace sociale e ottimi servizi, a iniziare dalle scuole pubbliche eccellenti e dalla sanità gratuita per tutti.

Le frontiere come opportunità

La presenza di tante culture diverse genera un mescolanza incredibile. Al contrario di altre città, soprattutto statunitensi, Toronto non recide comunità di origini differenti in spazi diversi. Forse in periferia qualcosa si separa e diversifica ma mai così nettamente. L’area di Baycrest è in prevalenza abitata dalla comunità ebraica (qui sorge il loro noto ospedale geriatrico) e ciò, però, non ha impedito di trovare casa presso italiani che lì hanno residenza o di osservare la presenza di chiese cattoliche nella zona. Al centro, a downtown, vi è invece una commistione di umanità che difficilmente si lascia incasellare in categorie distinte e separate.

Questo crogiuolo rappresenta la vera, profonda e vitale cultura di Toronto. Dall’interazione di elementi diversi, dal loro sfrigolio si generano novità culturali di valore globale. Se la scena musicale è ormai dominata dai rapper che mescolano elementi afro e caraibici, il cinema, oltre ad aver strutturato un importante festival, ha visto emergere negli ultimi due decenni un regista di assoluto rilievo come Aton Egoyan. Già il nome rivela origini lontane: armeno, nato al Cairo, naturalizzato canadese. E in un film come Ararat fa più direttamente i conti con le sue radici. Ma tutto il suo cinema esprime profondità di visione, chiaroscuri, paure: Egoyan ha girato opere capaci di ottenere molti consensi dalla critica.

Da questa miscela si produce soprattutto una spinta al futuro. Un futuro intravisto e scandagliato da quelle che sono state le due colonne culturali emerse a Toronto: Marshall McLuhan e David Cronenberg.

McLuhan ha dato una torsione all’interpretazione dei media e in particolare della televisione. La sua intervista su Playboy o la sua comparsa in Io e Annie, film di Woody Allen, segnalano come McLuhan sia andato ben oltre i recinti degli studi accademici, per diventare l’icona globale di una cultura rinnovata e capace di superare steccati e categorie tradizionali. Ma McLuhan è stato fortemente ancorato a Toronto. La Coach House, in cui riuniva allievi e incontrava studenti, è proprio al centro della città: una piccola casetta in legno che resiste ai tanti grattacieli. Dove è sempre possibile incontrare studenti provenienti da ogni continente per affinare i propri studi sui media: un vero e proprio incubatore di teorie. Ma spesso ci capitano anche visionari programmatori o bricoleur: un ragazzo un giorno si presentò con un piccolo pezzo di plastica che avrebbe dovuto sostituire i telefonini di allora (i cosiddetti feature phone). A distanza di anni e solo ora si può riconoscere in quel pezzo di plastica il prototipo di uno smartphone con funzioni touch screen.

Tra le tante intuizioni di McLuhan, alcune riguardano il Canada: una terra di frontiera, di confini (nei confronti dei suoi spazi immensi, degli oceani, del suo grande vicino). “Una frontiera, un confine, è lo spazio tra due mondi, e costituisce una specie di duplice intreccio o azione”. I confini sono luoghi di incontro tra mondi, di interfaccia, “un’area dove si congiungono gli estremi, di rinascita e di metamorfosi”. Alle prese con l’energia che si sviluppa nei suoi confini e in relazione ad essi, il Canada non ha mai sviluppato una sua forte identità nazionale. Piuttosto, ha lasciato emergere un carattere cosmopolitico o uno “stato di ecumenismo politico”. Ma oggi, e Toronto lo prova in pieno, “quando il vecchio hardware industriale è obsoleto, possiamo riscontrare che la condizione canadese di identità dal basso profilo e dai confini multipli si avvicina al modello ideale di vita elettronica”.

E McLuhan ha ispirato anche uno dei film più importanti di Cronenberg: Videodrome. Anzi di più: in questo film sul potere ipnotico della televisione, compare un personaggio, il professor Brian O’Blivion, un guru dei media, che ricorda proprio McLuhan.

Nato a Toronto da genitori di famiglie ebraiche con origini lituane, Cronenberg ha scandagliato come pochi altri registi (ma forse bisognerebbe dire: intellettuali) i confini delle nostre identità, a iniziare dai confini dei nostri corpi. Alcuni suoi film (appunto Videodrome, ma anche eXistenZ o Crash) indagano il rapporto stretto che intramiamo con le nostre tecnologie, in particolare quelle di comunicazione. Cronenberg ha saputo vedere, oltre le tradizionali identità corporee, corpi espansi e ibridati con le macchine. Corpi ormai quotidiani, visto la nostra simbiosi con i telefonini, vere e proprie protesi attraverso le quali la nostra mano “tocca” il mondo intero.

L’identità aperta, multiculturale, ibrida del Canada e in particolare di Toronto ha aperto questa prospettiva da cui cogliere le frontiere come opportunità, come campi di energia, e non come insormontabili barriere su cui erigere muri e stendere filo spinato. Questo ha generato una spinta a superare i confini, a spingersi oltre, ad osservare, costruire, abitare il futuro. Di questa spinta, McLuhan e Cronenberg sono stati, nello stesso tempo, grandi epifanie ma anche grandi ispiratori. Il presente di Toronto, importante città globale in un’economia informazionale, è stato costruito anche grazie alla loro capacità di immaginare il futuro.

[versione rivista, originale pubblicata su: presS/Tletter, novembre 2021]

Fotografia di copertina di Antonio Tursi