Nel giugno di quest’anno, alcuni onorevoli del Movimento 5 Stelle hanno presentato un’interrogazione parlamentare sul contrasto alla diffusione di giochi e videogiochi, inneggianti a loro dire la criminalità organizzata di stampo mafioso. L’atto della Camera n. 1866 prevede l’«Introduzione dell’obbligo di classificazione dei videogiochi e disposizioni concernenti la loro diffusione e vendita, per la tutela dell’integrità psico-fisica e morale dei minori». Questa classificazione – a dire il vero – esiste già da tempo (la PEGI, Pan European Game Information), e la legge intende recepirla; ma la cosa interessante sono gli scopi di questo atto: tutelare l’integrità psico-fisica e morale dei minori. Facciamo un salto indietro.
La violenza cieca degli States
L’estate precedente, nel luglio del 2020, il responsabile Sicurezza del Pd, on. Carmelo Miceli, si scaglia contro MafiaCity, un videogioco strategico piuttosto banale nella dinamica (stile Forge of Empires et similia), con la caratteristica di essere improntato su un immaginario narrativo mafioso (ancora più banale e fortemente stereotipato): «In queste ore sta girando molto sui social la pubblicità di uno schifoso videogame chiamato MafiaCity. Parliamo di un gioco al quale stanno partecipando milioni di ragazzini». Il gioco viene definito dall’onorevole «un subdolo strumento di propaganda mafiosa e di istigazione alle pratiche delinquenziali che dà un’accezione positiva della “mafia” e del “padrino”, e che rischia di corrompere le giovani generazioni». Anche qui, grande apprensione per la moralità dei giovani, dimenticando però che i film e le serie tv che raccontano storie simili hanno, spesso, quella stessa accezione positiva (o quantomeno epica), e rappresentano proprio l’origine diretta di quegli stereotipi su cui il gioco si basa.
Andiamo indietro di un altro anno. A settembre 2019, dopo la strage avvenuta in Texas, tra Midland e Odessa, il sindaco di quest’ultima dichiara: «Penso che il problema sia nel cuore delle persone, a essere onesto. Abbiamo in circolazione alcuni dei videogiochi più violenti mai visti». Sono parole che riecheggiano quelle pronunciate da Trump circa un mese prima, dopo altre due stragi, questa volta a El Paso (sempre in Texas) e a Dayton (in Ohio): anche in questo caso, a essere messi sotto accusa sono stati principalmente i video games violenti, sollecitatori – a dire dell’allora presidente – di una «glorificazione della violenza» nella società americana. Una società notoriamente piuttosto tranquilla e pacifica, mi viene da dire.
Potremmo continuare questo elenco per molti anni addietro, arrivare fino alla famigerata strage di Columbine del 1999, da cui Moore trasse un film-documentario di grande successo, e che fu occasione di un chiaro ed esplicito accostamento tra la mente omicida dei due assassini e la loro passione per gli sparatutto in prima persona (gli FPS), come Doom e Quake. A dire il vero, potremmo però andare ancora più indietro, e citare addirittura una strage del 1927, avvenuta in una scuola del Michigan, la Bath School di Bath Township; solo che in questo caso sarebbe complicato dare la colpa ai videogiochi, visto che furono inventati “tecnicamente” negli anni ’50 e “commercialmente” nei primi anni ’70.
Moralizzatori e politici
Questo, per dire che nella loro non più breve vita, i video games hanno avuto il privilegio di diventare il capro espiatorio preferito di alcuni giornalisti e politici moralizzatori, in profonda pena per il rischio di «corrompere le giovani generazioni» (direbbe Miceli) e la loro «integrità psico-fisica e morale» (direbbero gli onorevoli pentastellati). Una preoccupazione che tira dritto nonostante una variegata e ampissima comunità scientifica (composta da psicologici, sociologici, antropologi, pedagogisti, neuroscienziati, medici, e non solo) abbia negli anni abbondantemente dimostrato che è improprio, oltre che impossibile, stabilire un legame diretto tra “questa” unica causa e un certo comportamento violento (magari fosse così! Magari fosse possibile – direbbe Gadda – ridurre a una causa la «molteplicità di causali convergenti» di cui si compone lo «gnommero» del reale). Un’ansia che risorge costantemente, nonostante gli studi sulla comunicazione siano nel tempo andati oltre la teoria del proiettile magico di cui le masse sarebbero ineluttabilmente bersaglio. E nonostante il videogioco sia un medium ormai talmente maturo (50 anni, del resto!) da saper raccontare storie estremamente complesse e sfaccettate sul piano narrativo ed etico (vedi The Last of us. Part II), influenzare profondamente gli altri media narrativi (cinema, ma non solo: si pensi a Black Mirror: Bandersnatch), diventare oggetto non più di solo gioco ma anche di spettacolo tour court (vedi la piattaforma Twitch di Amazon ma anche la gran parte degli youtuber), convincere Netflix a entrare nel mercato e tentare una loro distribuzione così come per gli altri prodotti audiovisivi (l’esempio più interessante è Eden Unearthed, rilasciato lo scorso settembre). Insomma, è finanche superfluo dire quanto i videogiochi, il videogiocare, siano ormai parte integrante del nostro immaginario, del nostro modo di pensare e immaginare le storie, del nostro modo di (ri)pensare la relazione con i media. Eppure, timori e preoccupazioni ritornano con ciclicità quasi sistematica.
C’è da chiedersi perché la comunicazione e la narrazione generaliste intorno ai videogiochi tendano a restituirci questo quadro un po’ a tinte fosche, sebbene vada detto che negli ultimi anni la situazione è senz’altro migliorata, anche nel mainstream (diciamo mainstream, perché sia la letteratura scientifica che quella tecnica e di settore sono da tempo andate oltre, offrendo un quadro molto più sfaccettato e argomentato, su cui non ci soffermiamo, ma che comprende questioni mediali, ambientali, culturali, caratteriali). Proviamo a fare qualche considerazione.
Un meccanismo che si ripete
Innanzitutto, uno sguardo storico. Se dovessimo riprendere il giochino iniziale del retrocedere nel tempo, ci renderemmo presto conto che al videogioco potremmo sostituire altro, mantenendo più o meno intatto il turbamento moralizzatore. Niente (o poco) di nuovo sotto il sole. E dunque via con la lunga sequela che dalla televisione risale indietro ai fumetti, al cinema, e financo alla letteratura, con le angosce per i romanzi di formazione e quelli di genere (corruttori anch’essi delle virtù giovanili), e per il rischio di perdere il senno, come del resto ci viene raccontato che accadde al povero Don Chisciotte, il quale «applicavasi alla lettura dei libri di cavalleria con predilezione sì dichiarata e sì grande compiacenza che obbliò quasi intieramente l’esercizio della caccia ed anche il governo delle domestiche cose». Non andiamo oltre, un po’ per pigrizia, un po’ per ignoranza, ma il gioco funzionerebbe ancora (come dimenticare le perplessità sull’invenzione della scrittura espresse da Platone nel Fedro?). Da un lato, dunque, c’è anche in questo caso un’insita e indomabile paura del nuovo (del diverso, dell’altro, dell’estraneo, etc.), comunicata o attraverso media precedenti (la televisione e i giornali che raccontano i mali derivanti dalla rete, fino a quando non ne vengono irretiti), o semplicemente attraverso occhi, coscienze, sensòri (per dirla alla McLuhan) non abituati a quel “nuovo”, incapaci di dargli forma, collocazione e senso. È quanto sta accadendo non solo ai videogiochi, ma – ad esempio, in Italia – alla DaD (altra “novità” non più giovanissima), raccontata ancora come la causa quasi univoca dei mali che affliggono la scuola italiana: basterà tornare in presenza e tutto sarà risolto, sembrano dirci anche in questo caso molti politici (in primis il ministro dell’Istruzione) e molti giornali. Anche qui il capro espiatorio cui addossare tutte (o quasi) le colpe; anche qui la riduzione a uno (anzi: una, causa); anche qui un’estrema e rassicurante semplificazione.
Il mostro della semplificazione
Ecco, su questo concetto di semplificazione, farei una seconda considerazione. È interessante notare come, nell’epoca che viene (anche) detta della complessità, ci sia questa irresistibile tendenza comunicativa a semplificare, snellire, sfrondare, fin quasi a non lasciare nulla della notizia: per arrivare subito al punto, per avere immediata visibilità, per andare in prima pagina, sgomitando nell’agone delle miriadi di altre notizie. La colpa di una strage è del cattivo influsso dei videogiochi. Se la scuola non funziona è colpa della DaD. I giovani sono un branco di irresponsabili perché si mettono a fare un rave in piena pandemia (sulla cui mistificazione è stato già scritto ottimamente qui su Asfalto). Interessante anche la semplificazione comunicativa del caso di Khasha Zwan, il comico afghano giustiziato dai talebani a luglio 2021, ma il cui video dove irride gli aguzzini ha trovato un’incredibile diffusione sui social solo in seguito alla caduta di Kabul un mese dopo. Per carità, si tratta da un lato di strategie comunicative, e dall’altro – di nuovo – di un fenomeno istintivo di noi esseri umani. Sotto il sole, sempre poco di nuovo. Probabilmente, però, questo fenomeno viene amplificato dai meccanismi di polarizzazione tipici dei social media, e anche dalla pratica diffusa della disintermediazione consentita dai mass personal devices (tutti possono agevolmente comunicare e avere una certa visibilità), dinamiche che si riverberano poi sugli altri media e sugli altri canali comunicativi, anche quelli ufficiali e istituzionali (come è stato già scritto sempre su Asfalto).
In questa vorticosa ricerca del capro espiatorio e della semplificazione, viene a mancare di sicuro il tempo per una vera e lenta (auto)riflessione: l’emotività prende il sopravvento sulla ragione, l’indignazione sull’introspezione, tenendo tutto al di fuori di noi, semplificando e richiedendo di semplificare gli eventi cui siamo obbligati ad assistere. Ma qui il problema non è dei social media o dei videogiochi; o comunque non è soltanto loro (di nuovo le causali gaddiane). Semmai è un problema a più ampio raggio, che comprende (tutte) le forme mediali di flusso e digitali, più mimetiche e meno analitiche; è semmai l’immersività a inibire il distacco, lo sguardo d’insieme, la visione allargata: e proprio per questo inevitabilmente più complessa.
Se proprio volessimo ragionare seriamente di videogiochi, dunque, non dovrebbe essere certo per metterne in risalto i rischi di corruzione morale (santa pazienza!), ma per cercare di comprenderne il possibile portato esperienziale, il tipo di formalizzazione simbolica del reale che – questo sì, come ci suggerisce anche Baricco nel suo The Game – sta veramente cambiando le carte in tavola e il terreno di (video)gioco.
* La fotografia di copertina è di Glenn Carstens-Peters on Unsplash