Credo nella non esistenza del passato, nella morte del futuro, e nelle infinite possibilità del presente.
J.G. Ballard, Ciò in cui credo
Le due periferie. Il territorio e l’immaginario è un piccolo ed agile libro di Massimo Ilardi, per i tipi della DeriveApprodi. A dispetto delle appena 120 pagine che lo compongono, però, pone con chiarezza e in modo netto questioni centrali relative alla definizione di cosa sia e di come si articoli una periferia, nello specifico quella di Roma, una metropoli mediterranea: una tipologia d’insediamento umano estremamente porosa, non facilmente addomesticabile dalla pianificazione urbana, che si struttura per attraversamenti, tentacolarità, stratificazioni e commistioni, in una dinamica musiva. Dal mosaico che compone questo tipo di metropoli, sono estrapolate dinamiche, questioni e temi centrali nell’identificare il ruolo della periferia come processo attivo nel quale, al convergere di istanze fra loro conflittuali nel vuoto della politica e delle istituzioni, prende forma il delinearsi dell’individuo, del suo desiderio e della sua violenza. Tre dimensioni la cui bussola è quella della libertà: dell’individuo che sceglie di agire, del suo desiderio rispetto al consumo e della libertà dal lavoro, della violenza come esito di una condizione di necessità. L’immagine che mi è venuta alla mente in questa rappresentazione è quella di un’arena e dei gladiatori che lottano per una libertà sostanziale. Non a caso scrive Ilardi «La libertà, dunque, non è un viaggio interiore che si può fare ovunque. Afferma Spartaco, lo schiavo ribelle: essere liberi sì ma a Roma e non nel nulla. Questa è sempre la posta in gioco di ogni rivolta che si muove in quello spazio e solo in quello in cui specifiche forme di dominio o di condizioni materiali determinano lo stato di necessità che spinge appunto alla rivolta».
Il politico
Il ragionamento che in questo senso viene svolto – con in parallelo una critica all’idea che la metropoli possa essere letta come “città di quarzo”, estensione uniforme e levigata del mercato, così come al continuare ad insistere in una lettura economicista e democratica del contesto periferico – è frutto di una concatenazione concettuale estremamente serrata. E il suo scopo è riconoscere finalmente che in quello stato di necessità – proprio in quanto situazione d’attrito fra deprivazione materiale ed ipertrofia immaginaria, forzoso nomadismo consumistico ed enclavizzazione proprietaria – risiede in qualche modo la “compressione” di un agire violento che è sì ancestrale e ferino, ma che funge da incubatore a qualche nuova forma di politico, non di politica, e non è un gioco di parole. In questo senso l’istanza del politico brulica nella violenza, senza per altro addensarsi. Non importa, sostiene l’autore, che questa violenza sia radicalmente individuale (e dunque non sia il classico conflitto che richiede una politicizzazione di massa), senza programmi, distruttiva di ogni legame, istituzione, merce – anzi! In effetti lo sprigionarsi di questa violenza, l’azione di cui questa è figlia, non ha e non vuole avere alcun programma. Viene giustamente ricordato uno striscione che apriva uno dei cortei a Roma del 15 ottobre 2011: «Non chiediamo il futuro perché ci prendiamo il presente».
Ed è su questo punto, che per me è lo snodo centrale con cui Ilardi legge la natura urbana e sociale della periferia, che se da un lato riconosco audacia interpretativa e freschezza concettuale, dall’altro non posso tralasciare perplessità che pure nascono dal condividere la stessa analisi. Affrontare tutte le questioni toccate dall’autore, in particolare la declinazione architettonica di questo tema, richiederebbe uno spazio eccessivo e mi farebbe incorrere nel rischio di anticiparvi una lettura che invece vi consiglio, perché scorrevole e puntuale. Dico solo che un pregio indubitabile di questo libro è quello di partire da un’analisi dopotutto parziale – la periferia romana – per estrapolarne, in modo metodologicamente creativo, categorie interpretative di tipo generale e che non si rassegnano alla retorica della “città delle reti” ed anzi ne svelano la pretestuosità, mostrandoci invece quel territorio striato del consumo che frigge di conflitti individuali, desideri sregolati ed una violenza condannata principalmente da coloro che sono interessati a mantenere lo status quo, in ogni senso.
La violenza
La violenza, dunque, come cifra con cui l’individuo di periferia agisce contro la mancata redistribuzione delle merci e del benessere, contro l’impedimento al movimento, contro simboli e metafore che sente estranei ed ostili e spesso e volentieri anche solo per stabilire nel concreto della fisicità il proprio dominio. Una violenza aliena ad ogni etica del lavoro – le periferie romane non sono mai state operaie, ma sempre sottoproletarie – ed allergica ad ogni forma di delega o di rappresentanza. Meno che mai interessata ad orizzonti di emancipazione sociale. Soprattutto una violenza non strumentale, ma in qualche modo, vedremo dopo, fine a se stessa, autosufficiente. Una violenza che in questo, indubitabilmente, interpreta nella maniera più puntuale l’ostilità secondo il capitalismo, cioè uno scontro senza regole, in cui al nemico è negata qualsiasi legittimità ed esiste solo la vittoria o la sconfitta, nella classica dimensione binaria della barbarie liberale che sostanzialmente non conosce mediazioni, ma solo la brutalità dei rapporti di forza. E va detto: questa violenza colpisce in effetti nel segno e non spara roboanti proclami a salve, come la sinistra liberal.
Ma l’aspetto che personalmente trovo problematico è che si tratta di una violenza che legge in maniera isomorfa proprio quella che è, mi verrebbe da dire, la conformazione del consumo. Scrive a proposito Ilardi: «il consumo è innanzitutto la negazione della proprietà, di qualsiasi proprietà, e determina la rottura decisiva tra proprietà e libertà; è l’atto distruttivo fine a se stesso, fuori cioè da pastoie funzionali o giustificative, attraverso il quale una massa di individui dissolve quotidianamente e incessantemente non solo oggetti ed eventi, ma affettività, valori, relazioni, emozioni; è l’ambito dove esplode il desiderio che scatena i conflitti che ridefiniscono la libertà materiale dell’individuo e il governo del territorio». Nulla da eccepire. Mi verrebbe però da dire che la violenza descritta dall’autore, in effetti, sia l’esatta lettura di come funzionano i meccanismi di desocializzazione, deprivazione, deterritorializzazione, abolizione del tempo e del valore di ogni forma di legame tipici del consumismo. E che di questi meccanismi faccia uso per reclamare un godimento che sia qui ed ora (una dimensione esistenziale, ma anche esiziale). In questa mossa, personalmente, vedo però il permanere di un gradiente di ambiguità. La violenza delle periferie, infatti, prende paradossalmente sul serio proprio le parole d’ordine del capitalismo, e lo fa alla luce bruciante del fatto che qualsiasi politica anche lontanamente socialdemocratica è evaporata al sole calcinante di ormai trent’anni e passa di feroce neoliberismo. In sostanza si muove all’interno dello stesso paradigma, ma non lo sottolineo per rivendicare ancora una progettualità che oggi non esiste e non può darsi, bensì perché questo condividere la stessa “sostanza”, in effetti, porta a contaminazioni che sono spesso forme di recupero all’interno del circuito desiderante che alimenta il consumo, ma in questo caso come dinamica del tutto coerente col mercato. Soprattutto impedisce di individuare il nemico, limitandosi a desiderare di strappargli i suoi prodotti e i suoi immaginari, ai quali infatti da decenni la periferia fornisce la propria immaginazione e creatività. Se è verissimo che la globalizzazione, nella sua riduzione di ogni territorio a mercato, ha di fatto «messo fuori misura la politica e le sue soggettività», questo agire violento non si è fatto mettere fuori misura, ma ha definitivamente rinunciato ad avere una misura. L’aspetto critico è che rimane in sostanza una sorta di “cattiva coscienza” del capitalismo, un figlio ribelle che alla guerra, vera levatrice del mercato, preferisce una violenza che è puro passaggio all’atto.
Pratiche di libertà e non di liberazione
Questo passaggio all’atto è in effetti l’aspetto più critico. Se in modo condivisibile la «periferia […] è potenza dell’estensione pura, è potenza del presente. Solo transito infinito dal presente al presente, dalla presenza alla presenza, dallo stesso allo stesso: passato e futuro, patria e utopia sembrano essere ignorati da un’esperienza che conosce solo un tempo, il presente, e un solo luogo, la presenza, e che si svolge tutto interamente hic et nunc», va pur detto che questa stessa modalità d’essere – dalla valenza neanche troppo velatamente estetica – caratterizza fenomeni come la cosiddetta villettopoli (descritta nella postfazione del libro da Alessandro Lanzetta), dove l’azione diretta, a volte anche violenta – distruzione del territorio, appropriazione di terreni, aggressioni contro insediamenti di immigrati, saccheggio dello spazio, creazione di enclave private; dopotutto è solo questione di intensità, e l’ha ben descritta Ballard nel suo Millenium people – si traduce all’inverso nella privatizzazione dello spazio pubblico, la mossa tipica del mercato, ma su scala individuale: sono veri e propri «desideri di autoaffermazione», ma che non hanno nulla di liberatorio. Il territorio che ne risulta è sempre lo stesso: «desolato, duro, disordinato, minaccioso che rompe le forme armoniche della città e segna i margini della metropoli e la vita dei suoi abitanti».
Il problema che Ilardi mette sul tavolo è scottante: all’interno di questo campo di tensioni così forte dove e come può darsi una declinazione del politico nuova? Come può coagularsi un reale soggetto politico? La risposta, in effetti, è che proprio nell’asfissiante restringimento individuale determinato dalla progressiva riduzione di luoghi liberi, dal proliferare del controllo, del mercato e della burocrazia, ed infine anche a causa della spoliticizzazione della democrazia, si determinano le pratiche di libertà. Se non altro perché rispondono «come affermava Foucault, a domande concrete: dove, quando, chi domanda libertà». La personale perplessità di fondo, quasi un timore, lo ammetto, è che queste pratiche di libertà possano essere alla lunga integralmente e funzionalmente recuperate, perché sostanzialmente il sistema capitale, nella dimensione macro come in quella micro, ha sì bisogno di strutture rigide – il mercato, il controllo, la proprietà – ma la sua vera dark matter è proprio la sregolatezza del desiderio, anche e spesso soprattutto nelle sue forme distruttive, da cui trae continuo immaginario attraverso il quale offuscare il territorio. Senza farlo scomparire, certo, ma inglobando in sé tutto l’agibile ed il pensabile. E le pratiche di libertà sono determinate proprio dal desiderio.