“Winston si mise sull’attenti davanti al teleschermo, dov’era già comparsa l’immagine di una donna piuttosto giovane, in tuta e scarpe da ginnastica, magra come uno scheletro ma muscolosa. «Piegate e distendete le braccia!» urlò. «Andate a tempo con me. U-uno, due, tre e quattro! U-uno, due, tre e quattro! […] Riposo!» sbraitò l’istruttrice, anche se con voce un po’ più cordiale. Winston lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e inspirò piano. La mente gli scivolò nel mondo labirintico del bipensiero” (1).

Ormai da un anno viviamo come Winston davanti agli schermi di computer e televisione, evitando di percorrere l’infetta superficie di asfalto della metropoli. In questa isterica era del Covid-19, infatti, viene messa sotto accusa quell’antica pratica peripatetica urbana, lecita, ludica e sana, esaltata da architetti come Bernard Rudofsky (2), Alison e Peter Smithson, Aldo van Eyck e Giancarlo De Carlo (3). Il filosofo Byung-Chul Han, così, avverte: «Il virus è terrore dall’aria. Ognuno è potenzialmente sospettato di trasmettere il virus, il che crea una società della quarantena che avrà come conseguenza un regime di sorveglianza biopolitica» (4).

In effetti, all’inizio della pandemia osservai: “Da secoli la politica si occupa di tutelare, migliorare e prolungare la vita degli uomini, governando i processi di riproduzione, di risanamento e di profilassi, incrementando lo sviluppo in chiave biopolitica (5) della statistica demografica, dell’igiene e dell’economia” (6). L’architettura della modernità, per altro, è nata e si è imposta al mondo anche per soddisfare queste basiche necessità igieniste, fondamentali per una società che nell’Ottocento iniziava a costruire le grandi metropoli.

Bisogna riconoscere, però, che la parte migliore e più divertente di questa avventura culturale si è svolta dagli anni Sessanta in poi, quando l’architettura e l’urbanistica più avanzate intrecciarono il tema della salubrità urbana con quello di un più ludico ed edonistico benessere psico-fisico. Benessere che nella nostra epoca è in gran parte garantito dal rito democratico del consumo: di merci, sicuramente, ma anche di cultura, di svago e soprattutto di relazioni umane. Un rito che, necessariamente, si deve svolgere nello spazio concreto delle strade, delle piazze, dei parchi, delle scuole e delle università, ma anche nei luoghi della cultura popolare, dello shopping, dell’attraversamento, dello svago e della movida: teatri, cinema, biblioteche e centri culturali; negozi, shopping mall, discoteche, bar e ristoranti; stazioni, metro e autobus; campi sportivi, stadi, impianti sciistici e stabilimenti balneari.

Opportunità troppo consolatorie

Non si sta affatto facendo l’esaltazione dell’edonismo consumistico degli ultimi decenni, che spesso ci ha fatto immergere in centri storici, spazi commerciali, spiagge e parchi attrezzati sovraffollati, stressanti e controllati dagli autoritari occhi del mercato. Tuttavia, non possiamo non riconoscere che, nel fare questo, ci siamo divertiti e ubriacati della libertà che offrono questi costosi playground per adulti. Sorge pertanto spontanea una domanda: ci rendiamo conto di quanto sia banalmente consolatorio incensare e osannare le famigerate opportunità, sempre declinate nell’esotica neolingua odierna, della ritrovata vita casalinga della dad (7), dello smart working, dell’e-commerce, dei social e dei meet lavorativi, culturali e ginnici sulle piattaforme informatiche a pagamento, a fronte della tragica perdita di quella sfavillante vita metropolitana degli ultimi decenni, basata sull’attraversamento dei meravigliosi e puzzolenti spazi asfaltati delle metropoli, dove si incontrano e scontrano centinaia di migliaia di persone affamate di vita?

Siamo sicuri, per esempio, che sia stata una bella esperienza guardare, rigorosamente in video, piazza Navona deserta con l’erba che cresce rigogliosa tra i sampietrini e un lamento funebre di sottofondo, prodotto dalle schitarrate di un ricco adolescente, che si è guadagnato il suo warholiano quarto d’ora di celebrità con una performance del dolore poi cinicamente replicata all’inaugurazione dei tristi mondiali di sci 2021 a Cortina d’Ampezzo? Forse, la cosa più interessante di quello sconcio spettacolo consolatorio è stata finalmente vedere l’immensa distesa di sampietrini e asfalto della piazza in primo piano, con le sue straordinarie opere barocche relegate invece a sfondo sfocato.

L’erotismo dell’asfalto

L’asfalto, del resto, appaga eroticamente i sensi: quando è fresco, caldo e appena steso è un materiale cedevole e morbido, che odora di una fragranza chimica irresistibile, per certi versi simile al profumo artefatto del junk food che impazza nel junkspace contemporaneo del consumo, genialmente narrato già vent’anni or sono da Koolhaas (8). Come il cemento, l’asfalto è una bellissima pietra liquida che prende la forma che vogliamo, proteggendoci dalla polvere dei terreni naturali, quelli che la vulgata green di un certo paesaggismo radicale alla Catherine Mosbach vorrebbe imporre anche ai contesti urbani. Questo carattere erotico, igienista e comodo rende l’asfalto il suolo minerale più performante che esista e, per altro, lo protegge dalla condanna che il pensiero politicamente corretto riserva al cemento. Infatti, quando si vuol mettere all’indice un’opera architettonica o un’infrastruttura, non si dice mai: “è una colata di asfalto”. Si usa sempre il termine ‘cementificazione’, risparmiando il suo furbo, simpatico e pulito fratello.

Tuttavia, in questo tempo di pandemia mediatico-sanitaria, aggravato e allungato dalla nuova mitologia delle varianti, lo spazio pubblico asfaltato è stato trasformato “in una sequenza di circonferenze di un metro di raggio con al centro il singolo individuo” (9). Un individuo disorientato che si aggira sconsolato negli spazi minerali della città, ormai desertificati dai vari lockdown, tenendosi rigorosamente a distanza di sicurezza dalle altre persone, anch’esse protette da mascherine forse inutili in spazi aperti non affollati. L’unico luogo in cui sembra consentito stare liberamente sdraiati o a fare sport senza mascherine è nei parchi urbani. Il verde, infatti, è lo spazio contemporaneo della consolazione da una natura matrigna, che attacca senza pietà lo scellerato stile di vita dell’uomo del terzo millennio, causa di catastrofi naturali, drammatiche mutazioni del clima e devastanti pandemie. In molti prati dei parchi metropolitani, così, si è addirittura arrivati a tracciare cerchi in gesso per garantire ai fruitori un alienante distanziamento sociale, sicuramente ecologico, sostenibile e politicamente corretto.

L’assalto del paesaggismo alle vive superfici asfaltate urbane, tuttavia, è iniziato ben prima dell’attuale pandemia: da molti anni sembra che l’urbanistica e la progettazione urbana non esistano più, e che le città si debbano trasformare in verdi pascoli dove recuperare una sana vita agreste. Tutto deve essere green, ogni opera architettonica è vissuta come un insulto alla natura e al “bene comune”, a meno che non sia stata digerita dal tempo e trasformata in ‘bene monumentale’.

L’ossessione della natura in città, in verità, ha origine dal Movimento Moderno, che ci regalò l’incubo degli standard urbanistici, di cui il verde pubblico è il massimo esponente. Basta girare nelle megastrutture residenziali della legge 167 o nei più antichi caseggiati dell’INCIS per vedere infinite distese di pratoni incolti in cui nessuno mette piede: le persone, infatti, rimangono pervicacemente sulle sane e rassicuranti strade asfaltate, in realtà alienanti e sovradimensionate. Nel passato, tuttavia, quest’allucinante scenografia naturale era stata lo sfondo delle villette art déco della Città giardino di Howard (1898), dei distopici grattacieli cartesiani del Plan Voisin di Le Corbusier (1925), delle ipnotiche barre residenziali della Città verticale di Hilberseimer (1927), dei volumi razionali e mediterranei di Libera, Moretti e altri al Villaggio Olimpico di Roma (1957), della follia chilometrica del Nuovo Corviale di Mario Fiorentino (1975) lungo la via Portuense dalla stessa capitale.

Adesso, invece, l’attacco non è all’insana città tradizionale, ma al concetto stesso di metropoli contemporanea, fatta di luoghi artificiali ben costruiti dall’uomo per l’uomo. Sembra, insomma, che finalmente l’ossessione ecologista dell’urbanistica odierna abbia smentito la feroce critica di Jane Jacobs alla città razionale modernista e, così, trasformato i cittadini in individui solitari perennemente connessi con gli smartphone che si consolano «saltellando per i prati come folletti» (10), tessendo onanistiche relazioni virtuali sui social.

Quando il verde diventa più alienante del digitale

Ma non tutto torna: a guardare bene, nei parchi urbani ben progettati, come nella romana Villa Borghese, nel parigino Parc de la Villette o nel paulistano Parque do Ibirapuera, la gente si incontra, cammina e corre più sui viali asfaltati che sui prati. Nei corsi universitari di architettura del paesaggio, invece, gli studenti utilizzano spesso riferimenti progettuali eccentrici, che quasi deridono l’ossessione ecologista odierna. Tra questi, appare di frequente il Superkilen a Copenaghen di BIG Architects (2012): un piacevole parco urbano periferico con aree relax, attrezzature sportive e playground, che cerca di far dialogare le sessanta etnie del quartiere attraverso ironiche installazioni artistiche ispirate ai simboli dei paesi di provenienza, offrendogli inoltre l’immancabile pista ciclabile green per un sano e dinamico stile di vita. Probabilmente, la gente del quartiere vorrebbe piuttosto fondersi in un’identità comune e inedita, ma il risultato del disegno del parco è talmente divertente da far dimenticare il pedante retrogusto paternalista, salutista e politicamente corretto. Infatti, questo spazio è diviso in tre segmenti: il primo è caratterizzato da un suolo verde, il secondo da un spianata di allegre resine cementizie colorate e il terzo, il più spiritoso e frequentato, da una movimentata superficie asfaltata a cunette, decorata da sinuose strisce autostradali bianche dove le persone di tutte le età ed etnie si mischiano spensieratamente.

È molto probabile che nel prossimo futuro, tra le varianti del Covid-19, le crisi economiche, la rivoluzione digitale e la conversione green, ci consoleremo sempre di più negli spazi autistici e domestici del digitale o in quelli rarefatti e alieni della natura. Tuttavia, è altrettanto plausibile immaginare che ci sentiremo pienamente appagati di vivere una vita degna di questo nome soltanto negli spazi pubblici asfaltati, quelli dove la gente si incontra, si scontra e socializza, consumando relazioni, cultura e merci voluttuarie.

(1) G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano 2019, pp. 37-41.

(2) Vedi: B. Rudofsky, Streets for the People. A Primer for Americans, Doubleday, Garden City (N.Y.) 1969; A. Lanzetta, Strade come oasi. Rudofsky “pioniere” del Contemporaneo, in A. Capuano (cur.), Streetscape. Strade vitali, reti della mobilità sostenibile, vie verdi, Quodlibet, Macerta 2020, p. 50-65.

(3) Vedi gli altri saggi contenuti in: A. Capuano (cur.), Streetscape, cit.

(4) Byung-Chul Han, La società senza dolore, Einaudi, Torino 2021, p. 275.

(5) Vedi: M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, 1978; M. Foucault, Nascita della biopolitica (corso al collège de France anni 1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005.

(6) A. Lanzetta, Biopolitica e paura. Fine dello spazio post-moderno?, archphoto.it, marzo 2020. https://www.archphoto.it/archives/5583

(7) Didattica a distanza.

(8) R. Koolhaas, Junkspaces, «Domus», n. 883, gennaio 2001.

(9) A. Lanzetta, Biopolitica e paura. cit.

(10) J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, Torino, Einaudi 2009, p. 21.