Nella mia adolescenza, i ricordi sono basati su quelle macchine mostruose che arrivavano improvvise sbuffando e colando masse di catrame nero bollente, mentre operai in canottiera col cappello di giornali spalmavano il tutto al suolo con delle vanghe. Poi passavano delle schiacciatrici dai rulli larghi e possenti che avevano la funzione di plasmare questo catrame che diventava asfalto. Intorno a questo evento, ci stavamo noi ragazzini e pensionati o nullafacenti, tutti curiosi di vedere l’opera. Si diceva che il fumo del catrame doveva essere inalato per evitare la tubercolosi, per cui ridendo sfacciatamente ci si metteva vicino tirando su il vapore col naso. Qualcuno mangiava anche pezzetti di catrame come fosse liquirizia…

Le strade asfaltate erano nostre; le macchine erano ancora scarse e nella tradizione non solo romana (come ha annotato un grande studioso delle città) marciapiede e strada erano un prolungamento del nostro habitat. Cioè la distinzione pubblico/privato nelle strade asfaltate non sussisteva. Le mie amicizie adolescenziali avvenivano per strada, dove noi ragazzi eravamo i padroni del territorio, a volte diviso in parti simboliche in cui le bande diverse si fronteggiavano con le fionde oppure si sfidavano a palletta.

L’asfalto, in tal modo, segnava il trionfo della città che invadeva gli spazi del prato residuale (e pericoloso: non andare al prato! Si mormorava tra le ragazze) di una natura “corrotta” in attesa di essere per l’appunto asfaltata e così urbanizzata. In queste aree si fondò una scuola media e il famoso ponte larghissimo che arrivava oltre la ferrovia dove la stradina era stretta stretta e tutti parlavano di corruzione.

Visioni del mondo nate camminando


Crescendo, le amicizie erano sempre meno localizzate nel rione e si selezionavano sulla base del liceo o di interessi specifici, tipo il calcio e la musica. E le ragazze. Eppure è certo che le amicizie di questa fase si consolidavano camminando. Gli appuntamenti erano in zone mediane, per esempio le poste di piazza Bologna, e da lì a zonzo si esplorava l’intera città. Le amicizie dell’epoca gironzolavano nell’asfalto, e a volte si andava nelle ville (Celimontana o Borghese), in quanto le distanze si misuravano coi piedi. Non c’erano altri mezzi di locomozione o si rifiutavano (tram o autobus). Camminare ed essere amici fu un tutt’uno.

Qualche anno dopo, ho scoperto un altro tipo di asfalto, il cui odore acre mi rimase impresso per anni. Andavo alle manifestazioni a via Veneto contro la guerra del Vietnam e l’asfalto era il posto di difesa e resistenza. Ci si sdraiava sopra, l’asfalto, si respirava il suo umore nero, a volte mescolato con i lacrimogeni o la pioggia, ma anche con paura e smarrimento. Quell’iniziazione si moltiplicò per più di un decennio: manifestazioni politiche, cortei, occupazioni: tutto si basava sulla strada e nella strada si edificavano visioni del mondo e amicizie eterne. O quasi… Alcuni di questi eventi hanno fatto la storia politica di quel periodo. Anzi: la politica era sul controllo del territorio ovvero di avere l’asfalto.

Si potrebbe dire che l’atipico conflitto italiano dal 68 al 77 abbia avuto la scoperta dell’asfalto in quanto esperienza decisiva della trasformazione della città tradizionale in metropoli transculturale. A quei tempi, Questa volta, lo spazio dell’antagonismo si diffonde tra le più diverse scene urbane praticando un nuovo modello di internazionalismo, non più di partito bensì di e in movimento: quasi che ogni evento in un qualsiasi quartiere mondiale si riflettesse o coagulasse nell’asfalto che, non casualmente, veniva divelto, scheggiato spezzettato e usato come arma. Di nuovo respirato…

In quella fase gloriosa e drammatica, dal finale sciagurato (il delirio onnipotente brigatista), l’amicizia diventò scelta radicale. Era impossibile sentirsi amici o semplicemente condividere esperienze nel cosiddetto “tempo libero” con persone che non avessero un ideale comune, fondato su un senso emozionale più che razionale nel vivere quel processo quasi-rivoluzionario. Queste emozioni – surriscaldate e faziose – hanno ridefinito a lungo il senso del vivere amicalmente. L’amicizia, almeno per me, era avvertita come un sentimento non strumentale di convivere la bellezza della vita. L’emozione solidale ridefiniva ogni sfera dell’agire politico, dall’amore all’amicizia. Non è un caso che questi due profondi e contigui sentimenti siano stati vissuti in quell’interminabile decennio solo all’interno di una cornice condivisa per scelte di movimento.

Spaghetti alle cipolle

 

Il mio amico di quel periodo era un compagno di Cagliari con cui abbiamo fatto lotte memorabili in Alitalia. Alcune manifestazioni al centro di Roma rappresentarono il momento più alto del conflitto tra i lavoratori e i piloti che, aristocraticamente, pretendevano (e ottennero) un contratto privilegiato contro il progetto del contratto unico. Ma non sono state queste esperienze per far crescere l’amicizia basata su stima e affetto: bensì i miei spaghetti alle cipolle! Avevo inventato un modo di cucinare il sugo di pomodoro con una grande quantità di cipolle tagliate sottili. E lui veniva felice portando le seadas fresche dalla Sardegna che preparava alla fine, dopo avere gli occhi lucidi nel degustare la dolcezza mediterranea di quel sugo.
Morì ancora giovane per un misterioso virus preso in Brasile. La moglie, cara amica, mi chiese di commemorarlo a Santa Maria in Trastevere, anche se non era cattolico. La chiesa era strapiena e per la prima – e spero unica – volta riuscii a parlare trattenendo i singhiozzi dal pulpito per rendere solenne l’amicizia in un contesto per me diverso.

Altri esempi vorrei evocare di quel periodo in cui il sentimento di amicizia si legava a persone incontrate per un solo giorno. Dentro l’università La Sapienza, un giovane di Detroit mi iniziò a fare domande sulla situazione politica dei vari movimenti presenti in un’assemblea. Scoprii che studiava con Barrington Moore, il cui libro sui movimenti rivoluzionari e le dittature mi era ben noto. Iniziammo a discutere per ore come se ci conoscessimo da sempre, camminando sull’asfalto intorno le facoltà. Lui, un classico ragazzone ben nutrito, sapeva ascoltare e fare domande con acutezza e precisione. Quando ci lasciammo, decidemmo di scriverci e in effetti lo facemmo per un po’. Non c’erano ancora le mail e l’amicizia di un giorno finì. Il senso di questo ricordo sta nella sensibilità trans-nazionale che ci legava quasi a prima vista.

L’estate di São Paulo: tutta buche e gas di scarico

Poco dopo la mia vita cambiò profondamente. Iniziai a insegnare e fui invitato in Brasile, a São Paulo, dove arrivai durante il carnevale senza conoscere nessuno e con la chiave di un appartamento datami dall’Istituto Italiano di Cultura. Avendo pochissimi soldi e in piena solitudine carnevalesca, l’unica cosa che potevo fare fu camminare. E l’odore dell’asfalto paulistano, specie d’estate, impregnato di gas di scarico senza controlli, sfaldato da ogni parte da crepe, buche, rivoli, mi rimase impresso a lungo. Nella solitudine, il senso dell’amicizia diventa acuto.

Fu così che, quando le persone che mi avevano invitato tornarono, mi trovai di fronte a una scoperta per me entusiasmante. L’editore era il Feltrinelli locale, figlio di una grande storico marxista, anzi, il primo, deputato e incarcerato durante la dittatura militare e poi fuggito con la figlia rocambolescamente. Diventammo subito amici ancora una volta per questo sentimento transnazionale che modulava il fare politica. Accanto a lui, nacque una appassionata amicizia la mia musa filosofa che dura ancora. Parlavamo per ore di tutto, cinema, musica, arte e ovviamente su Adorno e Benjamin. Sperimentai il calore dell’amicizia improvvisa che deriva da mondi separati e contigui.

Fu qualche anno dopo che incontrai l’amico più distante dalle mie esperienze: un cacique (leader politico) Xavante – con cui avevamo fatto esperienze in un contesto diverso, vicino a Iguaçù – mi invitò nella sua aldeia. Per arrivare nel villaggio, stavo su un pick-up guidato da un giovane sregolato (gli Xavante sono famosi per la loro forza guerriera) su strade sterrate. L’asfalto era finalmente finito dalle mie esperienze. Tutto era di un terriccio segnato dalle piogge torrenziali su cui l’auto saltellava pericolosamente.

Arrivato nell’aldeia, all’epoca senza elettricità, tutto così buio che i visi si intravedevano solo da vicino, Mahoro’e’o mi abbracciò lungamente e fece un lungo discorso alle altre persone in circolo. Poi dovetti parlare io col mio stentato portoghese. Tornai varie volte in quell’aldeia e scherzavamo con lui tanto quanto affrontavamo problemi seri, anzi drammatici causati dai fazendeiros. Lo invitai anche a Roma dove fece un memorabile conferenza. Pochi giorni fa è morto per il virus, senza che – ormai malato – fosse riuscito a entrare nell’ospedale, sdraiato nei gradini.

Le relazioni espanse

L’amicizia è un bene emozionale limitato. Si pratica in poche persone nel suo significato profondo. Eppure i modelli di amicizia cambiano, si trasformano col tempo e con le tecnologie. La diffusione planetaria dei social network dilata l’esperienza amicale, non più solo determinata dal vivere e condividere fatti della vita quotidiana, politici o meno. Le reti stradali dell’asfalto e le reti digitali di internet sono sempre più interconnesse.

L’amicizia espansa ha sorpreso una persona come me alquanto riservata. Ho conosciuto con affetto diverse persone sparse per il mondo senza averle mai incontrate. Forse la profondità esistenziale dell’amicizia tradizionale è difficile che si possa raggiungere, quel misto di drammaticità e cazzeggio che eleva l’amicizia a livello dell’esperienza filosofica. Tra l’altro è noto che accanto a tale affettività si affermano irresistibilmente pulsioni feroci, col sarcasmo della crudeltà indifferente. Il potere dell’anomia anonima, su cui vorrei tornare, fonda la sregolatezza priva di etica basata su un presunto anonimato che libera i linguaggi più repressi senza controllo che non sia la distruzione (digitale e non solo) dell’altro. Le emozioni si scatenano in questa presunta libertà che incatena l’hater, odiatore dall’improvvisa professione, alla regressione analogico-digitale.

L’ipotesi di una mutazione antropologica generalista e unificata è impensabile persino nella supposta “identità nazionale”. Ogni immaginaria palingenesi radicale è un residuo dell’idealismo filosofico. Le mutazioni sono sempre più frammentate, parziali e temporanee, in cui processi cosmopoliti e localisti si mescolano e si sfidano in continuo senza possibilità di sintesi: e nessuno si può dichiarare escluso da tali gorghi affamati. Differenziate deformazioni esistenziali segnano le tracce di identità ormai sempre più ubique e instabili, le cui conseguenze sono l’asfalto – materiale e immateriale – su cui scorrono le reti dell’amicizia espansa.