Massimo Canevacci
Bororo e Xavante vivono attualmente abbastanza vicini lungo la strada statale BR070. Il Mato Grosso è uno degli stati che costituiscono la federazione del Brasile. Nonostante il nome, lo stato è un enorme cerrado, altopiano, con poca vegetazione tropicale; da qui l’espansione delle coltivazioni di soia, oro verde per la ricchezza che produce. Inoltre, cotone, mais e allevamento di bovini. Il partito agropecuàrio ha favorito la deforestazione del cerrado e controlla la politica del paese nel Mato Grosso e persino la maggioranza del governo guidato dal presidente para-golpista Bolsonaro. In tal modo al centro del Brasile si è creato un sistema conservatore difficilmente trasformabile, un vero e proprio dominio gestito senza limiti, dove la legge è quella di chi governa da sempre producendo enormi ricchezze. Polizia locale e jagunços (bravacci) sono agli ordini dei fazendeiros, proprietari di terra.
A tal fine il partidoagropecuario ha presentato nel settembre 2021 il DDL 490 che, se approvato, favorirà l’invasione delle riserve indigene, trasformando le loro terre in aziende agricole corrompendo non pochi nativi. Contro questo progetto si sono mobilitate diverse culture indigene che hanno invaso Brasilia per tentare di bloccare questa legge di impostazione coloniale. I miei amici xavante Hiparidi Toptirò e bororo Kleber Meritororeu mi mandano quotidianamente immagini che documentano questa lotta, che vede per la prima volta la partecipazione delle donne accampate coi figli. La terra è salute, la terra è vita, la terra è cosmologia filosofica per le popolazioni native. Invadere le terre avrà un significato catastrofico per la loro salute fisica e mentale.
In tale contesto drammatico, le culture indigene con cui ho svolto le ricerche etnografiche a partire dal 1990 non sempre sono tra loro solidali, come un falso buonismo naturista pubblicizza. Anzi, nella storia recente degli Xavante – popolo guerriero e ultimo a essere sconfitto dall’esercito brasiliano nel 1950 – il governo li ha costretti a lasciare le terre originarie per trovare accoglienza problematica in un’area di pertinenza Bororo. Col tempo, questo processo innescato dall’indistruttibile potere coloniale ha causato tensioni, conflitti e diffidenze tra Bororo e Xavante. In questi giorni, si sta creando invece un movimento solidale tra loro e con le altre culture indigene per contrastare l’approvazione del DDL.
Nel 1988 fu istituito il SUS, sistema unico della salute, che affermava il diritto pubblico alla salute per ogni cittadino del Brasile. Questo decreto contrastava la tendenza, tuttora forte nella classe media, di scegliere il sistema privato la cui offerta è basata su tariffe differenziate. Io stesso ho potuto verificare sia l’assistenza offerta da alcuni centri di eccellenza del SUS e sia l’obbligo di avere a São Paulo un’agenzia sanitaria privata. Col governo Bolsonaro e l’esplosione del Covid tutto questo si modificò rapidamente: il presidente fellone disse che era sufficiente la clorochina per combattere il virus. In tal modo le strutture del SUS rimasero spiazzate e senza vaccino, il che causò un enorme quantità di morti (circa 600 mila) distribuiti secondo il tasso di povertà. Una vera carneficina seconda solo per numero di morti agli Stati Uniti. L’idea politica del presidente espressa ufficialmente era semplice: meglio lavoratori morti che disoccupati. I conflitti circa la questione di terra e salute va collocata dentro questo scenario.
Domingos Mahoroe’o’ era un mio carissimo amico. Quando l’ho conosciuto, trenta anni fa, era cacique nell’aldeia Sangradouro, cioè rappresentante “politico” della sua gente. Siamo diventati amici e lo invitai a Roma per svolgere una lezione all’università e partecipare a un seminario sulla auto-rappresentazione indigena. Entrambi furono un successo perché Domingos è un gran parlatore. Secondo la tradizione indigena solo chi è un narratore è destinato ad assumere incarichi collettivi.
La notizia mi arriva via Facebook: oggi è morto il mio amico Domingos Mahoro’e’o. Persona dalla dolcezza guerriera, che mescolava calma ed eloquio nel difendere il suo popolo con la determinatezza che gli Xavantes sanno dimostrare di fronte a fazendeiros e politicanti. Ma il virus è un nemico più infido e sottile. Da tempo sapevo della situazione drammatica di Sangradouro e in generale delle culture indigene, per l’irresponsabile politica etnocida di Bolsonaro. Nel piccolo ospedale di Primavera dell’Est, Domingos non ha avuto un letto. Non è riuscito a farsi ricoverare come qualsiasi persona merita, è morto sulla soglia, neanche fosse il castello di Kafka. Difendeva la cosmologia del suo popolo accampato in Brasilia anche morendo. Addio dolce guerriero.
La questione della salute indigena è basata sull’autonomia delle terre. La terra è parte integrante della loro cosmologia e quindi di un benessere che non è solo “materiale” ma anche psichico e mentale. Ebbene proprio dall’inizio di settembre sta accadendo un evento drammatico nella capitale Brasilia.
Il 7 settembre è l’anniversario della Repubblica brasiliana, ma non per le popolazioni indigene. Questo anniversario del 2021 è particolarmente conflittuale, per la manifestazione organizzata dalle culture native che si sono date appuntamento a Brasilia contro il citato DDL 490: la costituzione prevede l’inviolabilità della terra e l’incostituzionalità delle missioni nei TI (territori indigeni). Giornalmente mi arrivano fotografie, video, messaggi dei miei amici Bororo e Xavante che partecipano alle proteste nella capitale Brasilia. I “nativi” non sono museificati ma vivono nel contesto tecno-culturale come tutti noi, con le loro differenze specifiche. Per questo i cosiddetti nativi si sono de-nativizzati. L’esito della lotta in corso si saprà dopo la pubblicazione di questo articolo, anche se osservo il silenzio di giornali, media e quant’altro. L’Amazzonia commuove per gli alberi incendiati mentre le persone Xavante e Bororo sono senza notizia.
Condizione post-coloniale
Ora accenno alla questione coloniale irrisolta nel paese. I motivi sono troppi e non li posso affrontare in questa sede, mentre vorrei sottolineare un aspetto legato ai cultural studies. Gli studi post-coloniali sono iniziati all’interno degli stati che erano sotto dominio coloniale (India, Algeria, Egitto ecc.); ebbene le popolazioni senza-stato non hanno mai fatto parte di questa corrente – teorica e politica -nel silenzio dei cultural studies e delle antropologie culturali. La condizione post-coloniale contiene numerose ambiguità, tra le quali il fatto che essa non dovrebbe riguardare solo i paesi che sono stati sotto il colonialismo e ne sono usciti a partire dagli anni ‘50-’60. Dentro tale dislivello di potere ci sono le popolazioni indigene, anche se non hanno mai avuto lo Stato (Clastres!): per loro la fine del dominio portoghese non ha comportato vivere l’indipendenza brasiliana. Solo la nuova costituzione del 1984 ha riconosciuto legittimità alle loro terre (TI). Ma queste minuscole enclave – accusate di sproporzione territoriale e scarsità di popolazione da fazendeiros e politicanti – non sono riuscite ad avere una autonomia politica e giuridica in quanto soggetto legittimo della propria liberazione.
Così queste popolazioni indigene sono state escluse anche dal processo post-coloniale in quanto non sono mai state colonie. Beffa “storica” per queste popolazioni colonizzate senza Stato, come i nativi nel Messico, nel Canada o negli Stati Uniti. Una colonia per essere tale deve aver avuto nel suo passato qualcosa che l’abbia fatta assomigliare allo Stato. Ma per Tupi-Guaranì, Xavante, Bororo – società senza Stato – si è trattato di passare dalla condizione coloniale portoghese a quella neocoloniale brasiliana:come soggetti marginali. Vi è un ulteriore paradosso: anche i discendenti di quelle popolazioni che hanno avuto lo Stato –Inca, Aztechi, Maya – distrutto più di 500 anni fa, sono esclusi dai movimenti post-coloniali in quanto quello Stato fu dissolto dai conquistadores e i sopravvissuti disseminati nell’anomia patologica dei senza terra. Questo paradosso beffardo riproduce la discriminazione e allontana la soluzione progressiva per queste persone e per queste aree geografiche. Sono le Vene aperte dell’America Latina narrate da Galeano.
Le popolazioni indigene, stando dentro gli Stati ex-coloniali, non hanno le loro storie riducibili a “la” Storia occidentale, per cui dovrebbero avere un’autonomia giuridica e politica che li diversifichi dagli Stati di appartenenza. E soprattutto questi Stati dovrebbero avere una politica indigenista diversa da quella attuale, impedendo la presenza teologico-finanziaria delle missioni, l’invasione politico-agricola dei fazendeiros e paupero-populista dei garimpeiros. Ed è uno strano paradosso che il Brasile – paese unico al mondo ad aver avuto un presidente della Repubblica sociologo e la sua consorte antropologa per otto anni – non sia riuscito a favorire l’autonomia politica e culturale delle popolazioni indigene. Il Brasile è uno stato indipendente, ma i nativi ancora non lo sono.
Due testimonianze Bororo e Xavante
Per entrare in questo squilibrio costituzionale ed emozionale, cito una mail che un amico bororo mi ha scritto circa cinque anni fa, Felix Adegononeu, per capire i nessi immanenti tra terra e libertà: “Dopo aver sperimentato la libertà, non ho più pace. La mia vita è tutto spiegare, spiegare e spiegare. Molte delle spiegazioni non convincono l’altro, il colonizzatore, spesso perché non accetta pensieri diversi basati su orientamenti cosmologici che sono antagonisti ai valori di chi vuole forzare un’esperienza al di fuori degli orientamenti costruiti millenni fa e che hanno funzionato in un villaggio Bororo, per l’organizzazione sociale spaziale. Molti atti di colonizzazione da parte dell’oppressore diventano impedimento alla libertà. Tali atti hanno luogo nelle sfere comunitarie in aldeia, e a livello individuale. L’acculturazione di riti, usanze e tradizioni è una forma di etnocidio. Viviamo ancora all’ombra del colonizzatore e questo ci fa comportare come prigionieri non liberati dalle catene del passato, che sembrano lontane ma che le viviamo costantemente. Si riproducono comportamenti che rimandano a una “educazione” alla colonizzazione volta a “salvare anime” e trasformare gli indigeni in “lavoratori nazionali” secondo l’ideologia di uno Stato che non rispetta i diritti degli esseri indigeni. A volte tale perversa ideologia viene addirittura introiettata dagli stessi abitanti di una comunità indigena. Diventa una lotta interna tra indigeni non liberati, che combattono coloro che cercano di liberarsi dalle catene della colonizzazione. La decostruzione dei valori alieni è molto difficile per me e i miei fratelli. La ricostruzione dei valori secondo la cosmologia Bororo è dolorosa e fa troppo male. Desidero ardentemente la libertà del popolo Bororo. Libertà etnica e libertà individuale. E combatto per lei ogni giorno della mia vita”.
E’ impressionante la relazione che si potrebbe stabilire tra questo scritto di Felix e l’opera di Franz Fanon. Dalla Martinica, Fanon ha incrociato psichiatria etnica e lotta politica, indirizzandole contro il colonialismo. Gli effetti del colonialismo non si strutturano solo nell’accumulazione capitalista o nei risvolti culturali: si distendono anche nei processi psichici che incorporano patologie nei soggetti colonizzati. Per Fanon, questi si identificano nei soggetti dominanti per immaginare di sopravvivere in mimesi subalterna. I dannati della terra si alienano per sopravvivere e in tal modo riproducono un sistema oppressivo vivendo una lacerazione schizoide, che non può che peggiorare le condizioni di vita. Fanon apre il corpo razzializzato segnato da altre forme di dominio, i cui problemi irrisolti stanno esplodendo nelle periferie francesi. Insomma sarebbe urgente ripartire da Franz Fanon verso una etno-psichiatria applicata alla liberazione delle culture indigene. Fanon, Clastres e Galeano insieme a Felix, Domingos e Hiparidi. Infine, riporto le ultime notizie sul nesso conflitti, terra, salute tra gli Xavante, grazie al mio amico Hiparidi che mi invia per WhatsApp video e interviste sulla connessione catastrofica in Brasile tra politica e alimentazione, nonostante le bugie dette da Bolsonaro all’ONU:
“Né la pandemia del Covid-19, che ha coinvolto gli Xavante in maniera devastadora, né i circa 800 chilometri che separano la Terra Indígena Marãiwatsédé nel Mato Grosso, hanno intimidito gli indigeni da andare a protestare in agosto nella capitale del paese. La cacica Carolina Rewaptu e il leader Xavante HiparidiTop’tiro hanno partecipato all’accampamento Luta Pela Vida, in Brasília, manifestando contro il progetto Agro Xavante, una iniziativa dei fazendeiros insieme al governo del Mato Grosso e alla Fundação Nacional do Índio (Funai). Intitolato “independência indígena”, il progetto prevede lo sfruttamento agricolo nelle terre indigene e afferma che produrrà sviluppo, sicurezza alimentare e qualità della vita agli Xavante. Da qui la scelta di usare due colori simbolici per dipingere la pelle:il rosso urucum e il nero carvão erano usati per la guerra. E siamo in guerra con il governo di Jair Bolsonaro”.
La conclusione di questo conflitto è in corso per la storia, mentre per me questa storia si è fermata lasciando il Brasile. Mi domando se avrei potuto fare di più per la libertà indigena che è connessa alla mia: non si può essere liberi se intere popolazioni vivono in oppressione a causa di un’altra Storia irrisolta, quella dell’Occidente coloniale. Certo, la deontologia professionale impedisce di prendere parte attiva politicamente all’antropologo sul campo. Eppure sento che non è così semplice né chiaro. Sarà per questo che un senso di sconfitta personale mi alita intorno…